RACALMUTO
NEI MILLENNI
GEOLOGIA E PREISTORIA
Un antro esposto a mezzogiorno, orrido sul ciglio di un
costone, prospiciente lo sprofondo di uno zubbio, l’ormai celeberrima grotta di
fra Diego, ebbe ad ospitare l’antenato degli antenati racalmutesi, trentamila
anni fa, come le vaghe vestigia e gli incerti residui archeologici paiono
dimostrare. Il Calderone, onesto e meritevole ricercatore del ventesimo secolo,
raccolse quei segni antichi, li consegnò alle competenti autorità agrigentine,
e naturalmente ogni cosa sprofondò nei meandri sotterranei dei musei
agrigentini. Irrecuperabilmente, in un oblio senza scampo.
Ai lati di quella grotta, si notano ancora – ma per quanto
tempo residuo? – i loculi vetusti dei nostri progenitori sicani. Sono
testimonianze di una civiltà cospicua, autoctona, ammirevole. All’infuori di un
balzano vincolo archeologico, nulla sinora si è fatto per una riesumazione, una
ricerca, uno sforzo di conoscenza.
Se l’età della terra vanta cinque miliardi di anni, ne
dovette trascorrere di tempo prima di arrivare in piena epoca miocenica (circa
venti milioni di anni or sono) allorché un fenomeno rimarchevole ebbe a
verificarsi in territorio racalmutese: nembi e nembi di moscerini annebbiarono
le plaghe allora affioranti a Racalmuto e quando vi morirono lasciarono scie
solfifere, poi coperte man mano di sale, gesso, trubi e quindi di humus.
Aggrappiamoci ad una ipotesi scientifica per spiegarci le origini del nostro
paese: [1]«la
terra delle miniere di zolfo, le celebri solfare inscindibili dalla storia
della Sicilia perché teatro di tragedie umane legate al triste fenomeno della
schiavitù dei carusi … riveste ancora
un notevole interesse naturalistico, per chi voglia comprendere la storia della
formazione di queste singolari montagne erose, incise, deforestate, che hanno
l’aspetto caratteristico di certe regioni interne mediterranee, dalla Castiglia
all’Anatolia. La cosiddetta serie gessoso-solfifera, intercalata da depositi di
salgemma che sono tra i rarissimi d’Italia, non è che una formazione miocenica
comprendente antichissimi tripoli in basso e poi calcari di base e calcari
solfiferi, per giungere infine ai gessi superficiali e quindi più recenti. Oggi
si è inclini a ritenere che questa formazione abbia avuto origine dalle grandi
lagune terziarie progressivamente evaporate, con un processo di sedimentazione
che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principii della fisica e della
chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il Desulfovibrio desulfuricans, capace di
nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo a idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo.»
E se abbiamo analoghe curiosità sui nostri giacimenti di
salgemma, diamo credito a chi pensa che: [2] «le
rocce che costituiscono queste zone sono essenzialmente due: le argille gessose
e sabbiose, spesso salate con grandi ammassi di salgemma, che includono qua e
là banchi di rocce più tenaci, e le rocce gessoso-solfifere vere e proprie.
L’origine di questi minerali è da ricercarsi nei parossismi orogenetici del
Miocene, in cui, con il formarsi finale delle Alpi e degli Appennini, seguì un
sollevamento generale del suolo che portò alla formazione di estesissime lagune
salate la cui lenta evaporazione originò un complesso di depositi di sale,
gesso, ed altre sostanze.»
Il processo geologico, in effetti, si evolve con la
formazione di strati silicei. I citati studiosi ritengono che: «tra i due
strati di rocce (sopra quelle gessoso-solfifere, sotto le argille gessose e
sabbiose) sta un sottile strato di materia silicea nota con il nome di tripoli
o farina fossile, composta specialmente da scheletri di microrganismi acquatici
quali radiolari e diatomee.»
L’altipiano di Racalmuto ha avuto uno specifico sviluppo
geologico nella formazione del gesso in quanto: «la formazione gessoso
solfifera è abbondantemente ricoperta da depositi marini più recenti, del
Pliocene. Una crosta, alta parecchi
metri, di rocce calcaree, in genere tufi composti da un impasto di gusci e di
conchiglie che proteggono i più molli terreni sottostanti. Si formano così come
delle zattere di roccia calcarea
galleggianti sulle formazioni gessoso-solfifere. […] Quando la crosta calcarea
viene però ad essere corrosa tanto da permettere alle acque di sciogliere il
gesso sottostante, si ha la formazione di cavità carsiche dette zubbi o addirittura grandi avvallamenti
…»
Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, invero, il territorio di
Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era
terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso relativo,
visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno cinque milioni di anni.
Non va dimenticata la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera
Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([3]). Ed
anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di
milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno
formativo dell’isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche, e
cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad
abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un
isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una
sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la
regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre
marine.
Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e
quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan [4]
Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del
periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario,
in pieno Pliocene. Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A.
Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di
recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei
dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue
quattro strati nel sottosuolo racalmutese.
«Cronologicamente - ci ragguaglia l’A [5] - i terreni che compaiono nella zona
studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso argilloso caotico di
base, di età pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del
Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;
3) serie
Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano
e Messinese.
4) una formazione di
copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi
(Trubi).
Trivellando la zona del Serrone per una quarantina di metri abbiamo
dunque una stratigrafica sovrapposizione geologica, a conferma delle varie
ipotesi degli studiosi prima sommariamente chiamati in causa.
RACALMUTO
PREISTORICO - ZOLFO, GRANO E SALE
Racalmuto sorge, si popola e si accresce per due grandi vocazioni
economiche: l'agricoltura e le risorse minerarie. Già nella preistoria sembra
che siano presenti due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da
Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale,
contiguo agli insediamenti che dalla Rocca di Cocalo si espandono verso Milena, Bompensiere, Montedoro.
L'immigrazione agricola di popoli che vengono fatti risalire al XVIII
secolo a.C. venne documentata durante i lavori della ferrovia nel 1879. [6] I pochi reperti fittili
finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano ed attualmente
risultano irreperibili. Le tombe a forno dei pressi della stazione
ferroviaria di Castrofilippo sono del tutto sparite,
smantellate dalle successive cave di pietra.
L'altro insediamento è quello che l'ingenuità delle
cartoline illustrate locali definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta di
Fra Diego. In mancanza di ufficiali campagne di scavi -
che le competenti autorità continuano a denegare, anche se la patria di
Sciascia le imporrebbe - dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal
'700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di
gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i
cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una
vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. [7]
Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla
grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche
lo zolfo per la continuità del fuoco. Risale alla tarda età romana
lo strambo passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce - a nostro avviso
fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una
tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul
fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei (C.I. Solinus, 5\ 18;19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei
fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo,
entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si
foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di
'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe, dunque, ereditati
dagli sconvolgimenti del Miocene. Inquieta alquanto l'idea che
le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si debbano a
quel geologico vibrione. Ma le viscere della terra non furono solo fecondate di
zolfo dal singolare microrganismo miocenico: inghiottirono anche l’antomoniu
e cioè il grisou il venefico
idrocarburo che incendiandosi produce morte per incenerimento dei polmoni dei
malcapitati minatori che avessero a respirarlo. Sciascia vi scrisse un mirabile
racconto: L’Antomonio, appunto. Così
lo chiosa in premessa: «gli zolfatari del mio paese chiamano antimonio il grisou. Tra gli zolfatari, è leggenda che il nome provenga da antimonaco: ché anticamente lo
lavoravano i monaci e, incautamente maneggiandolo, ne morivano. Si aggiunga che
l'antimonio entra nella composizione della polvere da sparo e dei caratteri
tipografici e, in antico, in quella dei cosmetici. Per me suggestive ragioni,
queste, ad intitolare L’antimonio il
racconto.» Noi, quelle ragioni sciasciane, stentiamo ad individuarle. Ne
abbiamo, però, delle nostre. Una mia nonna raccontava del suo primo marito
finito, dopo poche settimane dalle nozze, morto per antimonio dietro un muro
prontamente eretto per impedire che il grisou
si espandesse da una “galleria” all’altra: tanto si sapeva che per i poveretti
investiti nelle viscere della miniera non c’era più scampo. Si procedeva, così,
a salvaguardare gli altri cunicoli solfiferi.
Apparentemente ancora integri, quei minatori scapparono dal profondo
della miniera, ma giunti all’uscita la trovarono murata. Ira, terrore,
sgomento, disperazione, preghiere supplichevoli, bestemmie imprecazioni ..
furono scene davvero apocalittiche che si possono soltanto sospettare, intuire,
immaginare. Poi, la morte inesorabile, senza più respiro per i polmoni inceneriti. Ancor oggi, per tanti di
noi racalmutesi, la zolfara – per dirla con Sciascia – equivale all’«uomo
sfruttato come bestia e [al] fuoco della morte in agguato a dilagare da uno
squarcio, l’uomo con la sua bestemmia e il suo odio, la speranza gracile come i bianchi germogli di grano il venerdì
santo dentro la bestemmia e l’odio.» [8]
Per un secolo e mezzo il vibrione solforoso produrrà a Racalmuto “povertà
vile” [9] per
tanti zolfatai e flebile benessere per taluni “coltivatori” di “pirrere”.
Sull’altipiano di Racalmuto - che, a
ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro millenni,
tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di
solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente
per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C.,
mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come
attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi
micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la
civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze
che superassero l’onta del tempo).
Ma a che epoca risale il primo
insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase
evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono
e con quali riti e culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze
scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di
Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il
primitivo homo sapiens sapiens dei
dintorni racalmutesi.
La grotta di fra Diego, circondata da una necropoli di tombe a forno, è,
a mio avviso, un inghiottitoio, ma sospeso in alto dovrebbe testimoniare uno di
quei fenomeni detti zubbi che abbiamo
sopra in qualche modo descritti. Ne nacque un avvallamento quale oggi notiamo
con tanti altri inghiottitoi lungo il costone roccioso. Sull’antico sprofondo
ebbe di certo ad accumularsi uno strato di detriti per slavamento delle
antistanti colline che ascendono sino al Castelluccio.
Oggi, dall’alto della grotta, vi si può ammirare una plaga destinata ad
essere una zona archeologica di grosso risalto. Nell’estate del 1999 il sig.
Palumbo di Milena – un personaggio assurto alla notorietà per avere coadiuvato
con gli archeologi che hanno reso famosa la contermine Milocca sicana – rinveniva
in quell’avvallamento un continuum
ceramico sicano, greco, romano, arabo e normanno. A suo avviso, era là che si
era dispiegato l’insediamento umano dell’epoca sicana di cui le affascinanti
tombe a forno ne sono l’ancora visibile testimonianza archeologica. Ma la vita
non si era fermata al XIII secolo a. C.: era proseguita, in quello stesso
luogo, con i greci, con i romani, con i bizantini e soprattutto con gli arabi. Accomunati
si rinvengono cocci delle varie epoche, disseppelliti disordinatamente dai
moderni trattori. Forse la Gardûtah
della geografia dell’Edrisi trovavasi proprio sotto la necropoli sicana di fra Diego. Va a finire che aveva
proprio ragione padre Salvo quando scriveva [10]: «da
noi, a Gargilata, certamente [i sicani] vi ebbero un villaggio, il cui nome con
molta probabilità sarà stato Gardûtah,
più tardi corrotto il Gardulâh, donde
si pensi derivi il nome Gargilata della contrada. A fare il nome di Gardûtah è il geografo arabo Edrisi al
tempo di Ruggero I nel secolo XI. Egli chiama in tal modo un imprecisato
villaggio del suo tempo sito in quei paraggi della contrada Gargilata “a nove
miglia da Sutera”.» La ceramica araba che abbiamo notato sotto la guida del
Palumbo sembra dare il supporto archeologico alla congettura di padre Salvo.
Speriamo che le pubbliche autorità si inducano finalmente a fare le campagne di
scavi che la terra di Sciascia ben merita e speriamo che si provveda per la
salvaguardia di quei beni che sono le tombe, al momento in pasto alla selvaggia
profanazione di tombaroli.
L’affacciarsi dell’uomo in Sicilia data ad epoca non ancora precisata.
Forse 500.000 anni fa le zolle sicule furono calpestate dal primo Homo erectus. Più probabile che ebbero a
trascorrere centinaia di anni prima che l’Homo
sapiens riuscisse a passare dall’Africa in Sicilia. Ci pare convincente il
Tusa che è molto circospetto in proposito. «A quale epoca rimontano le prime
tracce dell’uomo .. in Sicilia», si domanda [11]. Ed
ecco il suo punto di vista: «Alcuni ritengono che i ciottoli di pietra levigata
e appena scheggiata rinvenuti in località “Giancaniglia” … costituiscano la
prova della presenza dell’uomo in quella zona durante il Paleolitico Inferiore,
quell’epoca antichissima della presenza umana che generalmente si data a
partire da 500.000 anni fa; non si è sicuri di questo però, studi e ricerche
continuano. La presenza umana è però accertata, ed anzi considerevole, in un
periodo molto più avanzato rispetto al precedente, il Paleolitico Superiore.»
I dilettanti non si danno comunque per vinti. Secondo notizie di stampa
dell’autunno del 1983 in Sicilia sarebbe stato rinvenuto un reperto di ossa e
denti di un Austrolopithecus e cioè
l’uomo risalente a 4 milioni di anni fa e i cui primi reperti sono stati
rinvenuti nel 1924 presso Taungs nel Bechaunaland (Tanganica nell’Africa Meridionale). Quello
di Sicilia lo si vuol far risalire a 3 milioni e mezzo di anni. Cacciava in
piccoli gruppi; sapeva accendere il fuoco e usava grossi ciottoli come
utensili.
Più possibilista ci appare De Miro secondo il quale [12] «dal
territorio agrigentino, più particolarmente da un giacimento omogeneo di Capo
Rossello presso Realmonte, provengono i documenti di quell’industria su
ciottolo riferibili alla “Pebble Culture”, cioè alla più antica industria
litica del paleolitico inferiore: questi oggetti (ciottoli scheggiati a una
estremità su una faccia o su due facce), trovati sui terrazzi a sabbie
calabriane a quota compresa tra 60 e 70 m. s.l.m-, hanno una importanza
notevole per la più antica presenza umana nell’Isola e nell’intero continente
italiano, in quanto forniscono la prova che in Sicilia l’uomo fece la sua
comparsa alle soglie dell’Era Quaternaria e – per le relazioni con la Pebble Culture
nord-africana – sembrano suggerire per i tempi più antichi del Quaternario
l’unione della Sicilia con l’Africa e l’assenza della fossa tunisina.» A noi è
capitato d’imbatterci in schegge litiche sparse in un terreno antistante a
grotte naturali in contrada Fontana del Vozzaro (sotto il Castelluccio). Il
signor Candeloro, un solerte
ricercatore, ci segnalava reperti di antichissima presenza umana nella
stessa grotta di fra Diego. Occorrono comunque attenzioni specialistiche per
avere certezze sulla più vetusta cultura umana nei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di
consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina
di Tucidide, sicani. Due
testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra
Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il
Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci
chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di
Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed
approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W.
Helbig, il solerte ingegnere delle ferrovie, Mauceri ([13]).
Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un
importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e
Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe
scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a
Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza
che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran
banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni
rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono
aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i
cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che
hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([14]) Si
ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano
scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di
alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno
scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra
grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di
metallo.» ([15]) Segue la descrizione di
n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica.
Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso
grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di
bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un corno”. Non è questa le sede per riportare
diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si
fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di
quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo
dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e
naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([16]) -
conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi
sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più
che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie
a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di
una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa
avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare
qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora
incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel
rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti
nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana
resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo
sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture
socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma
esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che le affioranti testimonianze
archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che
può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo
la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il
Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego.
Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un
avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma
non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei
sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e
Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del
Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi
contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a
tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una
miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([17]) Il
Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti
di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del
XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure
a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia qui sparita sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Scompaiono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della
colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché
disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche paiono
dimostrare.
Archeologia e preistoria
In sintonia con Milena [vedasi appendice ([i])],
Racalmuto fa risalire le sue ascendenze umane comprovate al Neolitico. La fase
neolitica dei dintorni racalmutesi è variamente comprovata. «Frammenti di
ceramica impressa [provenienti dalla] contrada Fontanazza presso Milena» [18]
comproverebbero insediamenti umani risalenti addirittura al VI-V millennio a.C.
La citata contrada non confina con il nostro territorio ma non sta molto
discosta e se insediamenti umani vi erano in quella lontana epoca neolitica
colà, non è poi azzardato congetturare che incuneamenti abitativi vi dovettero
essere a Racalmuto. Futuri scavi archeologici – ne siamo certi – lo
comproveranno. A Serra del Palco, sul versante ovest di Monte Campanella in
Milena, scavi eseguiti negli anni 1981-82-83 hanno messo in luce «un insediamento
del neolitico medio, ripreso attraverso i vari momenti dell’età del rame.» [19] Fu
epoca questa – antichissima – in cui i nostri antenati seppero costruirsi le
capanne abitative, il La Rosa propende per «introduzione della “cultura del
recinto”» e ciò come peculiarità «del processo di neolitizzazione della fascia sud-occidentale dell’Isola,
determinato verosimilmente dall’arrivo di piccoli gruppi transmarini,
rapidamente assimilati.» [20] E
continuando con l’esimio archeologo, vaggiunto che « … l’episodio si consuma
nell’ambito del neolitico medio, magari attardato [attorno al terzo millennio
a.C. dunque, ndr] , e certamente in
un momento anteriore alla introduzione della tessitura (nessun elemento di
fuseruola è stato sinora restituito dallo scavo). […] La documentazione di
questa “cultura del recinto”, la sua brevità, l’assenza finora di materiali più
tardi di quelli stentinelliani associati a ceramica tricromica, sono dunque i
dati di maggior rilevo per uno specifico approccio al fenomeno della neolitizzazione
nella media valle del Platani.»
Lo sprofondo di Gargilata - con le
sue acque (ora purtroppo sparite), con monti gessosi (atti alle tombe e validi
per la difesa), con la sua stretta contiguità alle zone archeologiche già
indagate – fa affiorare ceramiche antichissime, che, quando verranno studiate,
non potranno che dar la prova di un fenomeno di neolitizzazione anche in terra
racalmutese: e la presenza umana verrà posticipata rispetta alla datazione del
Griffo ma risulterà di sicuro presente già da prima del secondo millennio a.C.,
anche se, a quanto pare in base alle recenti risultanze archeologiche, non di
molto.
Sulla falsa riga di quanto
tracciato da Carla Guzzone sul neolitico a Serra del Palco (vicina ed omologa
al territorio nostrano di Nord-Est), ipotizziamo presenze umane racalmutesi del
tutto analoghe a quelle evolutive del Neolitico (ben 5 momenti) e della
successiva età del rame (due momenti). Per abbozzare un quadro di ampia
massima, siamo costretti per il momento, in mancanza degli indispensabili e non
più rinviabili scavi stratigrafici, a riecheggiare la sintesi della Guzzone [21]:
a)
il primo momento è quello dei fori sul banco roccioso,
destinati all’alloggiamento di pali lignei per la perimetrazione e il sostegno
della copertura di capanne;
b)
il secondo momento è quello delle capanne con battuti
pavimentali;
c)
segue poi la fase monumentale; impianti realizzati con
tecnica accurata (grossi blocchi rinzeppati da piccole pietre), con probabili
alcove e con probabili contenitori di derrate;
d)
il quarto momentoè quello dei rifacimenti;
e)
un quinto ipotetico episodio edilizio sarebbe
rappresentato (se davvero può riferirsi al neolitico) da un bel focolare
impostato su di uno strato di giallastro.
Per un quadro d’assieme, con particolare riferimento all’età eneolitica,
riportiamo queste note di sintesi di Laura Maniscalco: [22]
«L’età del rame … è rappresentata da un gran numero di stazioni. […] I
siti individuati, sia attraverso scavi che da semplici ricognizioni sul
terreno, sono tutti di carattere domestico, manca una altrettanto ampia
documentazione relativa all'aspetto funerario. Alcune tombe a forno presenti
nella zona e presumibilmente attribuibili a questo periodo, risultano violate
da tempo.»
Discorso questo valido per le tombe a forno di Fra Diego: anche in
riferimento alle affermazioni della Maniscalco, può dirsi che la nostra
spettacolare necropoli di Gargilata va ricondotta temporalmente all’età del
rame, a circa l’inizio del secondo millennio a.C. Vi si attagliano le
risultanze archeologiche della vicina Rocca Aquilia la cui similarità e la cui
propinquità con Gargilata sono incontestabili. Per quel che ce ne riferisce la
Maniscalco, «i saggi eseguiti a Rocca Aquilia hanno restituito sequenze
stratigrafiche complete dal tardo neolitico alla fine dell’età del rame.» Come
dire sino alle soglie dell’età del bronzo, cioè ad immediato ridosso del secolo
XVII. Ovvio che le date sono di mero riferimento, atteso il continuo
ripensamento delle datazioni preistoriche.
Scavi recenti a Milena ragguagliano sulle presenze insediative risalenti
alle fasi finali del bronzo antico; [23]
quelle del bronzo medio sono state comunicate sin dalla loro individuazione nel
1988 dal prof. Vincenzo La Rosa [24]. Il continuum del vivere preistorico nell’hinterland del fiume Gallo d’oro, la cui
ampia ansa dal Monte Castelluccio al Platani abbraccia anche i displuvi
castellucciani racalmutesi, è ormai ampiamente ed esemplarmente documentato
nell’area nissena; solo per risibili barriere circoscrizionali, ciò manca per
le nostre ancor più ubertose plaghe.
A mo’ di nota conclusiva, per avere una chiave di lettura, della vicenda
preistorica della civiltà sicana racalmutese, valgano questi stralci da uno
studio di Fabrizio Nicoletti [25]:
«Non sappiamo se la nostra regione
sia stata popolata in un periodo anteriore al neolitico. I reperti della grotta
dell’Acqua Fitusa, a monte del fiume, lasciano sperare in future scoperte. Già
da ora la nostra attenzione può concentrarsi su un gruppo di manufatti
inquadrabili tipologicamente tra i pebble tools. [..] La cronologia dei discoidi è .. incerta, per quanto la loro
presenza nel territorio risulti [piuttosto] capillare. Un bifacciale da
contrada Cimicia, di forma ovale, sembra potersi confrontare con esemplari
analoghi diffusi nella Sicilia centrale. Nella maggior parte dei casi si può
pensare ad una datazione compresa tra il neolitico medio e le prime fasi
dell’età del bronzo. […] Il neolitico, sin dai livelli più antichi di Serra del
Palco-Mandria, vede la comparsa di quel singolare e ricercato vetro vulcanico
che è l’ossidiana. La sua origine allogena non lascia dubbi circa la nascita di
una rete di scambi che in questo periodo interessò la valle del Platani.[…]
L’ossidiana grigia segue l’andamento generale: in ascesa durante la fase delle
capanne, in declino durante quella dei recinti, in rapida ascesa alle soglie
dell’eneolitico, quando diviene quasi l’unico tipo attestato.[…] Nonostante le
consistenti importazioni di ossidiana, la materia prima maggiormente usata in
tutti i periodi, almeno a partire dal neolitico medio, è una varietà di selce a
grana fine dai colori variabili dal giallo-verde, al rosso, al marrone, spesso
mescolati su un unico pezzo a testimonianza della medesima origine. […]
L’industria del villaggio sommitale di Serra del Palco è la più tarda tra
quelle conosciute nella media valle del Platani. Il progressivo sviluppo
culturale dalle forme castellucciane a quelle thapsiane è in questo sito
accompagnato dalla presenza di materiali micenei. […] C’è da chiedersi quale possa essere stato il ruolo delle
importazioni micenne in un radicale mutamento che, oltre agli aspetti già noti,
sembra coinvolgere la stessa tecnologia litica. …»
Succede così il periodo miceneo con le sue belle tombe a tholos e gli
evoluti manufatti metallici [26].
Racalmuto non ha, però fornito sinora alcun dato che attesti la presenza di
quella civiltà. Per rarefazione antropica o per effetto di puntuale vandalismo
che ha fatto sparire le testimonianze, almeno quelle più evidenti?
Ma se tombe a tholos dell’età del bronzo
il Tomasello [27] ha
individuato in località Furnieddu
(c/o Sorgente), così prossima ai
confini della Culma, come essere certi che esse non vi fossero più nelle
circonvicine terre racalmutesi?
«La tomba di Furnieddu – precisa il Tomasello – ma soprattutto le due
camere thoidali costituiscono per le loro caratteristiche una presenza
archeologica significativa nella Sicilia centro-meridionale della media e tarda
età del bronzo e confermano sempre di più l’importanza di questo comprensorio
geografico nel contesto della preistoria siciliana.» Ed aggiunge: «sul piano
culturale, significativa per la puntualizzazione del quadro delle relazioni con
il mondo miceneo risulta la presenza di questa tipologia architettonica di
matrice egea in un territorio così interno della Sicilia; il tradizionale
panorama dei rapporti con l’Egeo sembrava, infatti, voler privilegiare i
territori costieri dell’Isola e quasi esclusivamente quelli sud-orientali.
Inoltre, il materiale funerario attribuito alle due tombe di Monte Campanella e
assegnabile quanto meno al XII secolo a.C. ha consentito di antedatare la
penetrazione di questa tipologia architettonica nella Sicilia
centro-meridionale e di tentarne una periodizzazione. Infatti la tradizionale datazione delle
tholoi in roccia della vicina Sant’Angelo Muxaro, fissata da Paolo Orsi
all’VIII secolo a.C., sembra adesso difficilmente ancora sostenibile.»
Risalirebbero addirittura al XV/XIV secolo a. C. i primi rapporti di
questi luoghi con i micenei. «Gli indizi di una pregressa serie di contatti –
si interroga l’insigne archeologo – con il mondo indigeno, compresi tra il XV
ed il XIV secolo a.C. (TE IIIA) e attestati nello stesso sito di Milena,
portano a chiedersi se la verosimile sequenza cronologica proposta da Pugliese
Carratelli per la famosa “saga” Kokalos e Minosse non risponda ad un quadro
storico reale, articolato sulla ubicazione, natura, dinamica ed esiti di questi
contatti nel lungo termine.» Ritorna l’ipotesi cara a De Miro secondo la quale
«nella zona agrigentino-nissena possano essersi verificati, in concomitanza con
l’arrivo dei manufatti egeo-micenei, dei veri e propri stanziamenti di nuclei
transmarini, che avrebbero poi continuato, pur con identità culturale
progressivamente meno nitida, ad elaborare tipi e motivi del patrimonio
originario. Queste popolazioni avrebbero così contribuito direttamente alla
formazione del sostrato, determinando anche l’adozione di tipi come la tomba a
tholos.» E ciò non poté non riguardare il confinante nostro entroterra.
Una tomba a tholos pare che ci fosse addirittura alla Noce, proprio nel
podere vezzeggiato da Sciascia e con lui da Bufalino. Pare che fosse
subcircolare, volta a calotta, banchina interna a ferro di cavallo e persino
dotata del simbolico incavo cilindrico sommitale, l’invito segnaletico alle
anime di trasmigrare da lì nel mondo dei cieli. Lo Scrittore pare l’abbia fatta
inglobare quando fabbricò il suo estivo eremo. Sappiamo da Occhio di capra che il vedersi
al Chiarchiaro era per Sciascia come un dover trasmigrare fra gli inferi,
in un luogo di morte ove tutti ci si incontra. Ed anche su di lui giocava forse
il popolare abbrividire al ricordo
«delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese
se ne trovano». Nel dubbio, quella sua grotta della morte antica venne ascosa
in interno ipogeo, risuscitato alla conservazione delle cose della vita.
Confessiamo che quanto a datazione siamo stati spesso frastornati
dall’ondivaga periodizzazione dell’antica e nuova scienza archeologica.
Meritevolissimo quello che hanno fatto a Milena: hanno rimesso ai vari
dipartimenti di fisica e di fisica nucleare dell’università di Catania i
reperti ceramici ed hanno così, potuto stabilire età, sì, presunte ma con approssimazioni di mezzo
millennio che per le cose preistoriche sono davvero una bazzecola. Si afferma
che sui «campioni ceramici … è stato possibile operare la datazione tramite
termoluminescenza (versione coars grain)»
[28] che
sono termini per noi davvero ostrogoti. Ne vengono fuori svariatissime serie di
età presunte in BP e cioè a dire before
present (prima del presente).
Vandole consultate piuttosto in profondità, ne ricaviamo che
anche per Racalmuto la più antica presenza umana comprovabile risale al
Neolitico medio e cioè attorno a 5361 anni prima di Cristo (al massimo a 8278
anni fa, al minimo 6443 anni addietro). Il neolitico medio racalmutese risale
dunque in BP (before present, prima
del presente) a 7000-6500 (5000-4500 a.C.). Le datazioni del Griffo relative a
materiale conservato nel museo regionale di Agrigento sarebbero quindi
confermate.
Non dovrebbero
significare molto le pur cospicue differenze di datazione dei reperti del
recinto maggiore e di quelli del recento minore di Serra del Palco: solo uno
spostamento nel tempo dell’insediamento umano, ma sempre nell’ambito del
Neolitico medio (7000-6500BP). Questo comunque il quadro di raffronto
Denominazione
|
Età media
|
Età massima
|
Età minima
|
Recinto maggiore Serra del Palco
|
5361
|
6278
|
4443
|
Recinto minore Serra del Palco
|
4655
|
5179
|
4132
|
differenza
|
706
|
1100
|
311
|
Forse possiamo ipotizzare che sino al 4100 a.C. nei dintorni
di Milena, e quindi anche a Racalmuto, persisteva il Neolitico medio.
Congetture analoghe per l’età del rame: dal quarto millennio
a.C. sino all’esordio del 3° millennio (i reperti archeologici oscillano
attorno al 2700 a.C. in un arco di tempo ipotizzabile tra un
massimo (3287 a.C.) ed un minimo (2.245 a.C.). Abbiamo quindi le tre fasi
dell’età del bronzo: bronzo antico con ceramica che può pur risalire al 2.303
a.C.; bronzo medio, iniziato probabilmente attorno al 1700 ed il tardo bronzo
che si aggancia all’età del ferro per sfociare nel c.d. miceneo.
Certo, in avvenire, quando scavi stratigrafici verranno
praticati anche a Racalmuto e potranno utilizzarsi i ritrovati (immancabili) di
una tecnologia sempre più sofisticata, le datazioni suesposte risulteranno
senza dubbio imprecise, ma allo stato delle nostre conoscenze (o meglio nel
buio assoluto oggi lamentabile per la preistoria racalmutese) queste
cifre-simbolo una qualche luce, un certo orientamento paiono fornirlo.
Sui Sicani racalmutesi abbiamo solo i ritrovamenti del
Mauceri del 1879 di cui parliamo in vari
punti di questa trattazione: ci pare sbagliata persino la località del
reperimento dei reperti archeologici, essendo forse improprio il toponimo di
Pietralonga (località invero di Castrofilippo). A dieci chilometri di strada
ferrata da Canicattì (come scrive lo stesso Mauceri) non ci pare che ci possa
essere la contrada di Pietralonga: prescindendo dall’esattezza del chilometraggio,
si potrebbe trattare delle cave di pietra ancor oggi visibili a ridosso del
cozzo Mendolia, tra la stazione ferroviaria di Castrofilippo e la galleria in
territorio racalmutese. Abbiamo già riportato ampi stralci delle note del
Mauceri per non doverci qui ripetere. Erano davvero quelle tombe e ceramiche
risalenti al secondo millennio a.C. e cioè alla fase terminale del bronzo
antico? Non lo sapremo mai, almeno fino a quando scavi nella zona non faranno
emergere ceramiche analoghe a quelle dell’ottocentesco ingegnere ferroviario,
andate purtroppo irrimediabilmente perdute.
Le tombe a forno della parete del costone roccioso, sparse
tutte attorno alla grotta di fra Diego, sono tanto vistose e suggestive, quanto
del tutto inesplorate (ad eccezione dei tombaroli che possono violare a loro
piacimento in assenza di ogni tutela pubblica). Sicuramente sicane, di certo
antiche di svariati millenni, attendono di raccontarci la loro storia
archeologica.
Una tomba singolare abbiamo scoperto nell’estate del 1999 in
contrada Piano di Botte: con Pietro Tulumello ne abbiamo fatto un servizio
fotografico, almeno in tempo non potendosi escludere che vandaliche
manomissioni ne stravolgano l’assetto geoantropico. Attorno si è ormai
consolidato l’assestamento steppico che abbiamo sopra segnalato: deturpato da
un osceno traliccio, abbraccia il notevole masso tombale un prato erboso in
inverno-primavera, in giallo per le stoppie in estate-autunno. In fondo, il
caratteristico Cozzo Tondo, in linea ideale con la più caratteristica zona
archeologica milocchese. Ad est, l’ubertosa collina della Culma, a Nord-Ovest:
un minuscolo vigneto ed il melanconico colore degli accumuli dei rosticci di
una dismessa miniera di zolfo. Prima uno
dei mulini sul vallone: uno dei cinque mulini cinquecenteschi dei Del Carretto.
E, prima ancora, la zolfara di Piano di Corsa, così vicina al cimitero, ove fu
rinvenuta la Tegula Sulfuris venduta
al Salinas, da far congetturare essere là attorno la località solfifera
sfruttata al tempo dell’impero romano. In un raggio di cinquecento metri, ben
tre interessantissime testimonianze archeologiche, di ben tre distaccatissime
epoche. Lo scisto gessoso sembra essere disceso dall’apice montano, lungo la
bisettrice della vallata Nord del Castelluccio, a seguito di fenomeni di
distaccamento dovuti agli assetti tellurici del miocene. Piuttosto isolato, fu
utilizzato per evidenti fini tumulativi in tempi sicuramente sicani. L’incavo,
alto ben oltre la statura di un uomo, ma stretto e poco profondo, è un
manufatto antico, posteriore di sicuro ai tempi delle prische tombe a forno di
fra Diego, ma antecedente rispetto alle più evolute forme dei tholoi di Monte
Campanella. Sotto il profilo archeologico, non possiamo vantare competenza
alcuna, neppure dilettantistica, per cimentarci in datazioni o altro
specialistici ragguagli. In via di larga massima, saremmo propensi a ritenere
l’epigeo funereo databile attorno all’anno mille a.C. Lungo tutto il pendio di quella vallata
sporgono qua e là massi similari. Lungo la stessa direttrice, più in alto,
sotto un’ansa della rotabile del Ferraro, un altro analogo masso gessoso,
reclinatosi di recente ad opera dell’uomo, mostra due antiche tombe, ma per
fattura e caratteristiche ci paiono bizantine. Dovremmo, quindi, essere tra il
sesto e l’ottavo secolo d.C., ai tempi cioè del tesoretto di monete bizantine
trovate negli anni Quaranta in località Montagna. [29]
Anche qui, tutt’intorno fino a fondo valle, steppa. L’interruzione delle
piantagioni della Forestale non ci pare perspicua, con quegli estranei,
desolati e desolanti, eucalipti. Sotto la strada, recenti sono i vigneti:
sopra, il lussureggiare delle coltivazioni e dei frutteti che ancora residuano
dall’opera settecentesca degli agostiniani.
E’ la zona dei calanchi, della nudità arborea per il
dilavamento piovano. Come in quelle zone potessero stanziarsi e gli antichi
sicani, così poveri di mezzi, ed anche le popolazioni bizantine, resta per il
momento un mistero. E’ da pensare che allora là vi fossero boschi e l’humus
perdurasse ancora ferace? Quell’abbarbicarsi ad ogni scisto di roccia
per tumulare i propri estinti, lo farebbe arguire. Diciamo pure che
l’irradiazione dal centro di Gargilata fu nei secoli una costante: ferace il
territorio circostante, fervida l’opera dell’uomo nel coltivare dove fosse
possibile, anche lungi dalla capanna sicana o dalla frugale dimora coperta di
tegole, di canali d’argilla cotta.
In queste desolate contrade, in cima al Castelluccio,
tutt’intorno, al Serrone, giù al Rovetto, alla Montagna, alla Noce, al Saraceno,
ai Malati, al Pizzo di Don Elia, al Giudeo, ed altrove, affiorano ancora le sciasciane necropoli, non
vistose come quella di Gargilata.
In questa estate (1999), quando abbiamo fatto vedere il
manufatto sicano di Piano della Botte al noto G. Palumbo di Milena, costui era
piuttosto propenso a valutare il rudere come un tentativo di tholos, lasciato
cadere forse per abbandono coatto della località. E’ tesi suggestiva. Resta,
allora, da spiegare perché, in una certa fase della loro vicenda racalmutese, i
sicani del luogo dovettero fuggire. Le ipotesi tante: aggressioni belliche; sopraggiunta
insalubrità della zona; alluvioni;
dissesti geologici. Chissà se potrà darsi in avvenire una valida risposta.
Frattanto, si faccia qualcosa, come nelle zone del vecchio (e per noi,
migliore) toponimo di Milocca. Già, Milena
docet!
RACALMUTO GRECA
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non riusciamo a resistere alla forte tentazione
di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa
dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il
Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per
esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive
adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze
archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in
piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno» ([30]).
Da quell'era i nostri progenitori -
siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali
dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed
alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale
collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto
cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A
quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per
ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi
dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto
sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di
Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci
sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si
insediarono nella valle agrigentina, per
i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si accapigliano per
stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe
neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza
ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza
della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza
la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci
pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in
quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive
sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari
come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono,
accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano
cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della
famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali
popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro
popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino
non attestano solo l'inclusione
di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla,
schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa
schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba.
Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli
inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi,
feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili
a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di
uomini fieri e ribelli. In tutto ciò
sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe
agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e
peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori,
arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto
l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX
secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine
ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che
essere pertinenza rurale della polis di
Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la
tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo
fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci
nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente.
Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva
lavorare per la vicina polis di
Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non
potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo
conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti
numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli
indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si
faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre
nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La
Rosa a Milena, a noi non resta che avventurarci in vagule congetture.
In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte
presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota
cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962).
Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce irrecuperabilmente.
Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) preso a prestito da Filippo
Cluverio. Oggi, liquet (risulta)
l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente
ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di
Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta
dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo
era a distanza ragguardevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano
e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai
siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per
Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora
non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo scorso.
Frattanto Racalmuto,
territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la
madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla
coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di
Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici
agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità
degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea
e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna
testimonianza ai posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la
vicenda storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata,
senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata.
Periferia agricola della Polis,
dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche
con vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a
pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva
fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare
le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della
lontana Grecia. Dopo, chi vinceva
commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva
doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia
agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se
qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per
refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola
estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di
Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma
sensibile all'alta poesia.: «certo per i
mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del
sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti
alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da
avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone,
specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine
dell'estate racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio
agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze
greche.
Sfiora la locale società contadina la
nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per
Diodoro Siculo. La sua cacciata da
Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure
avvertita. Non sapremo però mai se
Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per
lo sconvolgimento nella distribuzione delle terre su nuove basi.
Dopo il 427 a. C., Akragas si
acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse
Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina,
Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti
vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per
un benessere economico, di cui dovette goderne anche Racalmuto, sia pure in
minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare
la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni
bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce,
l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli
ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa
trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i
siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta
degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas,
come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di
Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha
modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine
rurale di quella polis, ne segue
sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno
al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per
Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal
giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di
Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di
colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano
dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come
primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e
cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci
agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i
cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai
saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare -
il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana:
niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette
verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio
demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli
agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le
note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava
frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella
mediocrità dell'epikrateia africana.
La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica.
Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che
le vicende siracusane vi riflettono. E'
comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una
parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra,
sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una
tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a
seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi
dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide
vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per
quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta
contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di
Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di
più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono
chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana
scrive di monete con effigi di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli
oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici
attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi
di quei secoli.
Sempre il Tinebra Martorana ci
testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un
cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza
dubbio di pegasi che ci richiamano le
dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo,
il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni
monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e
prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a
quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire
tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana
quando scrive: «In contrada Cometi,
.... si rinvennero sepolcreti d'argilla
rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui
abbiamo detto sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno
agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a
trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno
costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette
essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno
finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda
storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata
debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge
Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di
spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua
pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e vi restano per
quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire
espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si
avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della
lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia
che secondo Cicerone: «prima docuit
maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la
Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli
stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più
Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo
perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte
furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini
agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati:
25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi
della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A
farne le spese è ancora una volta la città di Akragas: i cartaginesi bruciano
ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata
per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi
dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano
stanziati nella vicina polis;
distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni:
verso lo spirare del secolo, Akragas e
la vicina Eraclea Minoa appaiono
saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio
movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000
cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di
approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti
alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a
Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per
mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti
belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo
delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas
cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni
diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a
Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace
per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
Racalmuto romana
Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo
secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i
gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto
vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con la lex
Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani
appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui
trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in
quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e
demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura
furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure
edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi.
Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto
sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre
testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono
rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli
esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i
proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini
del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle
autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal
Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale
delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione
latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza,
nel suo "Siciliae et adiacentium
insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il
principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era
una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente
epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza
e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola
del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di
Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana. Marziale augura al potente
Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale
ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano
con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non
sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o
in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un
esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando
accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino,
prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle
Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei
dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare
traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano
divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha
notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto
Comodo, secondo una non convincente lettura del Salinas, si registra una svolta
economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come
alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché
nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle
'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla
rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone, figlio di
racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si
conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli
scavi e dei monumenti di Girgenti ed il
Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Emerge un’appropriazione indebita
da parte del grande tedesco ai danni del modesto avvocato con antenati
racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della corrispondenza si denomina: Mattoni antichi con bolli relativi alle
miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate del Ministero della
Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati, interpella seccamente il
Picone:
Il dr. Mommsen reduce dal suo
viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli
fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli
dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i
maggiori ragguagli.
L’interpellato risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) in termini dimessi ma di
grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei
Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti
nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi,
con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi
si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate
al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture
orientali.
In uno di essi mutilato si legge
(totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre
iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si
legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla
paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di
altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli
imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella
stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di
sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più
dotte illustrazioni che io non saprei. ([31])
Il Mommsen fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i
dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ([32]) ma si guarda bene dal ricompensare, neppure
con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai
consistente la pubblicistica, ma in essa non si rinviene il minimo accenno a
chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di
epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro
Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia
La Mantia all'avv. Giuseppe Picone di
Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a
Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna,
ebbe a chiamare «tegulae sulfuris».
Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con
iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella
costruzione di un sepolcro, provenienti presumibilmente dalle miniere dei
dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva
ad una lettura oggi non piùconvincente che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei. ([33]) Per
lui, l’iscrizione:
EX PRAEDIS
M. AURELI
COMMODIAN
che si poteva leggere nell’esemplare cedutogli per denaro da un contadino
di Racalmuto, comprovava la «provenienza dai predii dell’imperatore Marco
Aurelio Commodo Antonino» ed era anche atta a far desumere dalla titolatura la
data esatta; ciò «in quanto Lucius Aurelius Commodus, salendo al trono nel 180,
s’intitola Marcus Aurelius Commodus
Antoninus, per esser poi di nuovo, nel 191, Lucius (Aelius) Aurelius Commodus (Eckhel, Doctr. Num. VII, 134 segg., 102 seg. C.I.L. VI, 992).» In
definitiva, «per siffatta ragione le nostre matrici sarebbero da attribuire al
periodo tra il 180 e il 191.»
Già, il dotto Michelangelo Petruzzella mi faceva notare che quella trasposizione
di COMMODIAN in Commodo non era molto attendibile. A conferma, il prof. Salmeri
[34]
optava per la formula: ex praedis/ M.
Aureli/ Commodiani, pur non ignorando la tesi del Salinas, e continuava:
«al centro della fascia compresa tra l’ultima linea e il margine inferiore è
raffigurato, a rilievo come le lettere, un caduceo; mentre tra la prima linea e
il margine superiore compaiono – come sigma
– un ramo (di palma) e due stelle ad otto punte. Il nesso ex praedis, di uso comune nei bolli laterizi urbani, seguito dal
nome del dominus al genitivo, nel
secondo secolo d. C., sta ad indicare il “fondo” da cui viene estratta
l’argilla per la produzione di mattoni e di altri manufatti di terracotta.
Nelle lastre siciliane esso rimanda invece al “fondo” da cui provengono i
blocchi gessosi che, una volta sottoposti a fusione, daranno luogo alle forme
di zolfo. Il praedium in questione,
stando ai dati di rinvenimento delle lastre, deve avere occupato tutta o una
parte del territorio degli attuali comuni di Milena e di Racalmuto, che del
resto sono stati tra i primi nell’area nisseno-agrigentina ad essere stati
interessati, dopo una lunga interruzione, della ripresa dell’attività
estrattiva dello zolfo nel XVIII secolo [35]; suo
proprietario risulta il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano [36], da
collocare nei decenni finale del II secolo d. C. L’assenza di ulteriori
specificazioni dopo la formula ex praedis
M. Aureli Commodiani, in particolare del nome di un conduttore, induce a
ritenere che le cave di zolfo dell’area Milena/Racalmuto, nel tempo a cui
risalgono le lastre, venissero sfruttate direttamente dal proprietario. […]
Quanto alla manodopera impegnata nel praedium di Commodiano, essa sarà stata costituita da
schiavi e da liberi salariati; nel De
officio proconsulis di Ulpiano si prevede inoltre che il governatore possa
comminare quale condanna il lavoro in una sulpuraria
[37]»
L’avere scisso l’epigrafe dall’imperatore Commodo per collegarlo al
liberto Commodiano comporta, però, uno scardinamento della ricognizione temporale
del Salinas. Continuare ad assegnare il reperto agli ultimi decenni del II
secolo d. C. pare fragile congettura, né la figura di quel liberto può venire
invocata per datazioni certe, come invece la primigenia lettura consentiva.
Neppure può affermarsi che il liberto Commodiano fosse davvero il dominus delle miniere: più probabile che
fosse invece il proprietario di un “fondo” agrigentino ove si potevano
benissimo fabbricare le “gàvite” come altri mattoni e manufatti di terracotta.
Nulla proprio ci assicura che Comodiamo sia vissuto a Racalmuto, a capo di una
miniera di zolfo che, stante il luogo del ritrovamento della “tegula” o
“tabula” sulphuris, potova essere
propinqua alla pirrera di la Ciaula che
mastro Liddu Casuccio seppe ben
coltivare nella seconda metà del XIX secolo.
Ma, se fu assente Commodiano, certo vissero nei dintorni di Racalmuto,
tra il Castello Chiaramontano e la Piana
di la Cursa minatori romani -
schiavi, salariati e di certo damnati ad
sulpurariam, come dire una specie di galeotti – le cui condizioni di vita
furono molto simili alla ottocentesca sorte dei minatori che ci hanno descritta
Franchetti e Sonnino nella loro Inchiesta
in Sicilia. [38]
Che le “gàvite” fossero fabbricate lungi dalla miniera, sembra comprovato
dalle «tegulae» che sono state
rinvenute nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. E qui non attestavano
la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro
Griffo ([39]), si trattava di un
deposito di cocci di una figlina (officina
di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era
altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così descrive
quell'attività mineraria: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa
40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole
evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a
contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a
quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della
miniera, che in tal modo vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme
falcate di zolfo, le balate, che
ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([40]).
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia
presto estinta nell'antichità: iniziata, a seguire il Salinas ed anche il
Salmeri, attorno al 180 d.C., autorevoli autori la ritengono protratta sino al
IV secolo d.C. Dopo, per oltre 14 secoli, nessuna notizia su miniere di zolfo a
Racalmuto. Risale, invece, agli inizi del Settecento una nota negli archivi
parrocchiali della Matrice che ha attinenza con una miniera, ma non di zolfo,
sibbene di salgemma. Sotto la data del 22 ottobre
1706 il
cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco
Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di
massi, mentre scavava in una salina. Il giovane minatore veniva sepolto nella
Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus est», è la malinconica annotazione in latino.
DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV
d.c.)
Se la tegula rinvenuta
e studiata dal Salinas e dal Salmeri si colloca negli ultimi decenni del
secondo secolo d.C., quella di cui
riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([41]). In
epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto
sarcofago del Ratto di Proserpina ([42]).
Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta
ancor valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a
Racalmuto ([43]) - fondato tra il ‘200 e
il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del
sec. IV, con la raffigurazione del Ratto
di Proserpina.» La coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente
suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al
IV secolo d.C. e l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno
alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto
la costruzione vi è materiale di risulta che pare trattarsi di reperti ceramici
databili ad epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero,
ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo
sfruttamento dello zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il
De Miro annota in una relazione pubblicata in Kokalos: «Accanto a famiglie di
personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie
possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui,
proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività
proficua sulla base delle non poche tegulae
sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con
i sarcofagi marmorei [...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni
del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([44])
Sempre secondo il De Miro, la tegula
rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo,
data la formula Ex praedis M. AURELI
([45]).
I dati archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati
descrittivi sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché
alcune linee evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda
la produzione - annota il De Miro ([46]) -
pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da
quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di
zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse
differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica
che, «distinguendo tra proprietà del fundus
e attività mineraria, affida[sse] la gestione della miniera e la produzione a
“officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio
imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione
razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale emerge,
in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e
in posizione subordinata [..], quella del conductor
della miniera.» Successivamente appare «il manceps,
figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita
l’indicazione dell’officina e del conductor,
essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto
l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato
molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che
attendevano all’amministrazione del cursus
publicus e delle stationes. [...]
Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle
miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C.
l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto
contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale
e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che
ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione
dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([47])
In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di
Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che
verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una
necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là
dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae,
rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi
attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a
determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero,
probabilmente, a questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici che
ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte
delle autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un
centro abitato – che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la
grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.
L’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi
Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali
eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più
stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di
quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi
costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e
Casalvecchio. Eppure di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né
scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti
significativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche
campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolasamente quello che
casualmente affiora.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne
hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([48]), ma
non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie esaurienti, specie sotto
il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada
Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il
finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha
sinora impedito seri e chiarificatori appuramenti archeologici. Per tutto il
periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino
all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto
potevano pur bene far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui
si ignora il toponimo antico.
Passando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e
VI secolo d.C., già scarse sono le conoscenze che si hanno per la più generale
storia della Sicilia; circa le nostre parti sono disponibili scarsissimi lumi:
qualche indizio e talune indicazioni di troppo generica portata.
Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche
sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di
Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa
all’arianesimo difficilmente potevano colpire la nostra plaga, per nulla
organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men
che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico
agrigentino - se vi fosse, chi questi
fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza,
un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese.
Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze
di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se
crediamo a Sidonio Apollinare [49],
Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e
qui, a Racalmuto, lo sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi
Vandali ciclicamente determinavano, si diradò per qualche tempo e quindi si
ebbe prosperità con regolari raccolti granari e soddisfacenti vendemmie.
I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere
possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero
romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste
riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto
ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un
buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i
cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va
affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo
documentali, ma anche archeologicche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535,
allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la
civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle
arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo
dell’insediamento berbero).
I BIZANTINI A RACALMUTO
Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto
diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto
di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento
delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Ciò fa
pensare che la zona fosse tutt’altro che disabitata. E dire che il centro
abitativo più intenso, per tradizione, viene individuato piuttosto lontano, ad
un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per Biagio Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un ipogeo
cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertitisi al
cristanesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà
rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è
un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo
un patrimonio archeologico d’incommensurabile portata storica. Ma la zona resta pur sempre ricca di reperti
e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo
storico, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure
il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo ([50])
retrocede la datazione delle monete al V secolo: data improbabile se le effigi
degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un paio di
secoli posteriori. [51] )
Un interessante rinvenimento archeologico si ebbe nel 1990 in contrada Grotticelli, ma le pubbliche autorità si sono per il momento decise a imporre la
ricopertura e si sono peraltro limitate
ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione
Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza
archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto
interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale,
costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie
abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente
a comprovare un più o meno vasto insediamento in quella zona a partire da
un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi
della caduta dell’impero romano.
L “ipogeo cristiano” di Biagio Pace, ma più appropriamente bisognerebbe
parlare di “epigeo”, si troverebbe in «quell'abitato prearabo che fa postulare
il nome di Racalmuto» ([52])
Nostre personali ricerche ci fanno
pensare che lo spunto del grande archeologo poggerebbe su questo passo del
Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi
esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato
che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti
di ossa». Da qui - ad esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una
ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti nei
dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque
essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa Gregorio nel VI secolo o
alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio. Sulla scia di autorevoli storici ([53]) è
pur congetturabile una sorta di continuità tra l'assetto agrario dell'epoca
bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto,
come altrove, fu profonda ma non insormontabile.
L'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo (stando almeno a quanto
per adesso disponibile) resta, tuttavia, il cennato ripostiglio di aurei
imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul
ritrovamento delle monete a Racalmuto,
ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori
di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai,
tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del
padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri
e sequestro delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si
riferisce André Guillou ([54]),
secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di
tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi,
riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».. ([55])
Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou,
le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero restate nell'oblio o
inficiate da errori di datazione ([56]).
RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta
Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di
Casalvecchio fu inglobato dai berberi. Identica sorte per l’agglomerato – se vi
fu – nel ripiano di Gargilata a ridosso del costone di fra Diego. Di congetture se ne possono formulare tante,
di verità storiche solo flebili barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche
sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni
un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e
spostarsi altrove, oppure, come a Gargilata, finire per convivere.
E
che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero
tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al
culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di
documentazione siamo lasciati liberi di credere a quel che vogliamo e
propendere per tesi di eclissamento della religione cattolica o di sua
sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed i luoghi del tramonto
sul crinale della Montagna, se non
addirittura a riparo delle balate di Gargilata.
Consolidatasi
la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior
parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano
soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si
era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd
ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni
amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e
cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani
erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali
convertiti. La restante popolazione, costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio
del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita e le proprietà, conservando libertà di
religione e di culto.
Quanti
erano i berberi e quanti i dhimmi a
Racalmuto? E’ quesito per lo stato delle conoscenze senza risposta. Gli
infedeli (i dhimmi) che per avventura
avessero deciso di restarsene nei territori conquistati dovevano corrispondere
la gizya ed il kharàj - imposta personale (o di capitazione) questa, fondiaria
quella - inizialmente non distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi
le donne, i vecchi ed i bambini.
Dopo
neppure un quarantennio dalla conquista, scoppiò una contestazione che
sicuramente coinvolse l’altipiano di Racalmuto. Lasciamo la parola ad un
arabista del calibro di Rizzitano ([57]) per
tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto per le vicende arabe
racalmutesi.
«In
entrambe .. le classi sociali - in cui era divisa orizzontalmente la comunità
dei sudditi dell’emiro - erano ben presto insorti malcontenti, rivalità e
ribellioni anche violente. Le forti personalità e le doti eccezionali di
Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini
che questi due energici condottieri erano riusciti a conquistare - avevano
temporaneamente appagato e tenute quiete le truppe. Tuttavia, non si era ancora
concluso il quarto decennio della conquista, consolidatasi soprattutto nel
settore centro-orientale, che già i musulmani davano qualche segno di cedimento
e mostravano di sentirsi meno impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle
posizioni conquistate e nella partecipazione all’opera di sistemazione
amministrativa del paese, più sensibili alle sollevazioni e ai disordini che
elementi sobillatori cercavano di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui
prevaleva l’elemento berbero; ed è da ritenere che esso agisse in collusione
con i bizantini ai danni degli arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia,
e forse si esasperava quell’incompatibilità fra le due razze diverse che, in
Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a provocare - non pochi e cruenti
scontri. A tale proposito è da osservare che - fra i diversi gruppi etnici
venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i due gruppi più consistenti
erano proprio quello arabo e quello berbero. Accomunati dalla fede, ma solo
apparentemente fruenti di uguali condizioni sociali, gli arabi si erano sempre
sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei berberi, e sempre cedettero
all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai remoto secolo vii, quando l’Islàm iniziò la conquista
del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di antichissime tradizioni e ben
noti per la loro fierezza, non tolleravano condizioni di subordinazione agli
arabi, a cui fra l’altro si sentivano superiori per numero, industriosità e
capacità soprattutto nel settore agricolo.
«Per
quanto concerneva invece i dhimmi, questi
erano soprattutto notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini
commercianti. Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale
che dovevano sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante;
oggetto di continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi
erano esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del
principe, alle rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi
musulmani più violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di
conquistarvi facili ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più
dure di quanto forse inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è
chiaro che erano i dhimmi a dovere
«pagare» l’irrequietezza di questi elementi musulmani. Tale era il contesto
sociale siciliano alla morte di a-Abbàs.
«Pertanto
al nuovo governatore - Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto
da altri due reggenti, rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il
compito di eliminare, per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde
evitare che si trovasse pregiudicata la ripresa delle operazioni militari,
avviate presumibilmente ad un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel
nuovo rappresentante dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya ([58])»
Non
è questa la sede per dilungarsi sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto
e Scicli di Khafagia: ci interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per
tanti versi investe la storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono -
scrive l’Amari nella sua SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo
costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di
Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finché il capitano infermo di
malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò
guari che il rividero i Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30
dicembre 867) cavalcare i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le
méssi, guastar le ville; mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso
dell’esercito depredavano ogni parte dell’isola. »
Elementi
arabi, con intenti vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a
Grotte (investendo, quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio)
distruggendo, depredando, violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e
desolazione. Se una qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica
tradizione che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto»,
questa andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se
così inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del
Tinebra Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...]»
Amari
ritiene che Grotte corrisponda alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran
in arabo significa grotta o caverna. Ed allora perché non congetturare che
possa riferirsi alla contrada di Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle attorno a cui si spandeva
un apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle tante grotte che erano
abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere denominato in epoca post-sveva S. Margaritella? E al limite – perché
no? – al sito di Gargilata, ove affirano ceramiche arabe, secondo quello che il
Palumbo mi mostrava nell’estate del ’99? Ma tanto solo per rendere avvertiti
della non perspicuità dell’argomento toponomastico dell’Amari.
Girgenti - dominio dei turbolenti berberi - si
sollevò, ancora una volta, nel 937 contro il delegato, accusato di soprusi, che
era stato distaccato da Sàlim in quel territorio. La comunità racalmutese
dovette essere coinvolta in quei torbidi. I ribelli marciarono su Palermo ma
furono sconfitti. Comunque i palermitani preferirono seguire le vie
diplomatiche e fecero ricorso al califfo fatimita perché destituisse il
governatore. Il nuovo governatore nel marzo del 938 riprese, però, le ostilità
e mosse contro i ribelli girgentani, ma venne sconfitto. La rivolta finì con il
propagarsi in tutto il Val di Mazara. Khalìl ibn Ishàq (937-941) - che era il
nuovo reggente - reagì nella primavera del 939 e nel novembre del 940
riconquistò Girgenti, focolaio della sommossa, facendola capitolare per fame.
Coinvolgimenti della comunità musulmana di Racalmuto vi furono senza dubbio, ma
anche qui la nostra ignoranza dei fatti è totale.
Nell’estate del 948 viene a Palermo
l’emiro al-Hasan ibn Ali (948-953), dell’antica dinastia del Kalbiti. Con lui ebbe inizio in Sicilia un emirato
ereditario - salve sempre le forme dell’investitura califfale - protrattosi per
circa un secolo (dal 948 sino al 1053) che sembra contraddistinto da un più
elevato livello di vita. Possiamo congetturare che anche l’insediamento
musulmano racalmutese abbia beneficiato di tale favorevole congiuntura.
Ma attorno al
1065 si determina un momento di debolezza per gli arabi di Sicilia: sono
diverse le famiglie che cercano di stabilire emirati indipendenti a Mazara,
Girgenti e Siracusa. Finì che Ibn at-Tumnah ed altri musulmani di Siracusa e
Catania s’indussero ad appoggiare i
contrattacchi cristiani nel 1060-61, Per accordo col Guiscardo, la conquista
della Sicilia toccò soprattutto a Ruggero d’Altavilla.
Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione
araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato,
dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non
due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu
Cannuni'. E 'Rahal' - che non vuol dire in arabo fortezza, castello, stazione,
sibbene “comminare”, “percorrere” – poteva pur essere una fortezza sotto il
dominio di Chamuth, donde l’attuale nome.
Conosciamo le gesta
di Chamuth perché un benedettino normanno, che fu al seguito del conterraneo
Ruggero, ce ne ha tramandato la memoria. Trattasi della cronaca del secolo XI
del monaco Gaufredo Malaterra. Michele Amari non lo ebbe in grande stima, ma
nel raccontare quegli eventi nella sua Storia
dei Musulmani di Sicilia non fa altro che fargli eco. A nostra volta,
trascriviamo quel passo di sapido stile ottocentesco. E' una pagina di storia
che, in ogni caso, investe Racalmuto nel frangente della sconfitta araba ad
opera dei predoni normanni.
«Il cauto normanno [il conte Ruggero] avea occupata Girgenti, - narra
appunto Michele Amari - mentre i marinai italiani si apparecchiavano
tuttavolta all'impresa di al-Mahdûyah. Sbrigatosi di Benavert nel 1086,
radunava a dí primo aprile del 1087 le milizie feudali, volenterose e liete per
la speranza di acquisto; e sí conduceale all'assedio di Girgenti. Ubbidiva
allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo
della sacra schiatta di Alì, del ramo degli Idrisiti che avevano regnato un
tempo nell'Affrica occidentale, e della casa de' Bamì Hammud, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015- 1027)
indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla
Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di codesta famiglia,
passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in
quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Tamîm;
portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze
vicende dell'anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben
risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hammûd.
«Il quale si rannicchiò tra sue rupi inaccesse di
Castrogiovanni, mentre la moglie e i figlioli soggiornavano in Girgenti, e i
Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor macchine; tanto che
occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v'acconció
fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon
presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella:
Platani, Muxaro, Guastarella, Sutera, Rahl,([59]) Bifara,
Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravenusa; ([60]) di talché occupava tutto il paese dalla foce
del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non
guari dopo, con qualche aggiunta la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde
tutt'intera la provincia di questo nome e parte della finitima di
Caltanissetta. La moglie e i figlioli dell'Hammûdita caduti in suo potere, tenne
Ruggiero in sicura e onorata custodia: pensando, così nota il Malaterra, che
più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con servare la sua
famiglia illesa da tutt'oltraggio.» ([61])
E’ agevole
intravedere nel racconto dell’Amari la fonte malaterrana. Spesso la pagina del
grande storico è al riguardo una mera traduzione dal latino ([62]). Credo che Chamuth
abbia avuto un qualche peso nelle vicende di Racalmuto ed è quindi non
dispersivo soffermarsi su questo personaggio. Costui, caduto in un tranello dell'astuto Ruggero,
per salvare moglie e figli, si arrende e si fa cristiano. «Chamut - precisa
Malaterra - enim cum uxore et liberis christianus efficitur, hoc solo
conventioni interposito, quod uxor sua, quae sibi quadam consanguinitatis linea
conjungebatur, in posterum sibi non interdicetur». In altri termini, egli si fa cristiano con
moglie e figli alla sola condizione che non gli fosse tolta la moglie, alla
quale peraltro era legato da vincoli di parentela. Poi non gli resta che far
fagotto per Mileto in Calabria. Un indice di come quei rudi normanni, guerrieri
e bigotti, imponessero già la conversione agli arabi vinti. E qui siano in
presenza di quelli nobili. Quelli ignobili e contadini - come dovettero essere
i paesani dei castelli agrigentini conquistati - poterono forse risparmiarsi
l'onta di una abiura religiosa. Ma restando musulmani furono ridotti ad una
sorta di schiavitù, tartassata ed angariata. E tale sorte piansero per secoli
gli antenati nostri di Racalmuto. «dimma,
gesia [o gizia], agostale, aliama, algozirio, jocularia, angaria, cabella,
secreto, bajulo, catapano, censo, terraggio, terraggiolo etc.», sono
termini che sanno di tasse, soprusi, discriminazioni, angherie, iattanza,
arroganza del potere. Sono la lingua
degli uomini del potere che
parlano forestiero ma si servono di disponibili figuri locali, ammessi alla
loro congrega. E vicendevolmente si fanno da padrini nei battesimi, da compari
nei matrimoni, amichevolmente ed in termini di accondiscendente familiarità, ma
a danno e scorno degli altri, degli esclusi, del popolino basso e villano. Sono
i nomi dell'impotenza, della rabbia e dello sfruttamento perduranti sino ai
giorni nostri. E l'impareggiabile Sciascia ne coglie gli umori e i malumori
quali si aggrumavano al Circolo della Concordia [rectius, Unione] negli anni
cinquanta. Sono, infatti, godibili talune magistrali pagine di 'Le Parrocchie di Regalpetra'? (v. p. 60 e 61
e per quel che riguarda l'argomento, la pag. 17).
Il tremendo passaggio dalla libertà araba allo stato
servile, alle dipendenze di vescovi esattori, santi per i fatti loro eppure
vessatori per il bene delle varie 'mense' della chiesa e del canonicato
agrigentino, lo si intuisce, lo si può ricostruire ma non è documentabile se
non con le poche righe del Malaterra.
A corto di notizie,
Tinebra-Martorana ricorre alle imposture dell'Abate Vella - e Sciascia vi
indulge con un benevolo sorriso - e alle invenzioni fantastiche di un
‘galantuomo’ della fine del secolo scorso, Serafino Messana. Nessuna verosimiglianza
hanno le dicerie di un governatore di Rahal-Almut a nome Aabd-Aluhar,
servo dell'emiro Elihir, diligente nel censimento del nostro fantomatico Racalmuto
nell'anno 998; di una popolazione di
2095 anime [si pensi che nella seconda metà del XIV il solerte arcivescovo Du
Mazel contava per la curia papale di Avignone non più di seicento anime nel
nostro paese, abitanti in gran parte in case di paglia 'palearum']; e di tutte
quelle altre patetiche elucubrazioni storiche del giovane aspirante medico
Tinebra. Non sapremo mai dove don Serafino Messana abbia tratto gli spunti per
il suo racconto fantasioso sui due giovani saraceni messisi a strenua difesa di
Racalmuto nell'aggressione del gran conte Ruggero. Nulla di storico, dunque, in
quelle pagine del Tinebra-Martorana, salvo le spigolature sulle tasse e sui
'dsimmi’, mutuate acriticamente dal libro dell'avvocato agrigentino, ma di
ascendenze racalmutesi, Picone.
I gravami, le
violenze, le soggezioni, la morte, il pianto, la paura, l'ignominia dell'invasione
di Racalmuto nell'XI secolo vi furono, ma solo l'immaginazione può ricostruire
quelle scene di panico e distruzione. I cronisti del tempo o ebbero il compito
di osannare il potente, come il Malaterra nei riguardi di Ruggero il Normanno,
o erano poeti arabi di altri luoghi che non ebbero occasione di tramandare
echi, rimpianti o cenni sulla devastata Racalmuto. Non abbiamo neppure il
ricordo di quel nome antico. Solo il Racel
del Malaterra, incerto e controverso.
Eppure, furono giorni funesti: i normanni - cavalieri
nordici, possenti e biondi - erano famelici di vergini e di prede. La Racalmuto
contadina poco bottino poté farsi levare; ma le vergini o le giovani mogli
furono di certo ghermite da quei predatori dagli occhi cerulei e dai capelli
chiari. Ed il misto di razze, di figli nerissimi e saraceni e di figli
longilinei e di vezzoso colore, ebbe da allora inizio per durare fino ai nostri
giorni, senza più alcun retaggio d’ignominia.
Michele Amari non ebbe in simpatia l’emiro Chamuth -
quello a cui il padre gesuita Parisi collega il toponimo di Racalmuto - e lo
descrive come fellone, vile e rinnegato. Prende spunto dal Malaterra, ma ne
stravolge senso e giudizi:
«E veramente - scrive l'A. a pag. 178 della sua Storia
dei Mussulmani - Ibn Hammud si vedea chiuso d'ogni banda in Castrogiovanni;
occupata da' Cristiani tutta l'Isola, fuorché Noto e Butera; potersi differire,
non evitar la caduta; né egli ambiva il martirio, né i pericoli della guerra,
né pure i disagi della gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento
lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed
ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conducevano a due proposte:
rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere
il tradimento e l'apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine,
trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto
lieto a Girgenti. Né andò guari che il Normanno con fortissimo stuolo
chetamente si avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in luogo
appostato già con musulmano; e questi fatti montar in sella i suoi cavalieri,
traendosi dietro su per i muli quanta altra gente potè, quasi a tentar impresa
di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all'agguato. E que'
fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. Allor muovono i Cristiani alla
volta della città; la quale priva dei difensori più forti, si arrende a parte,
e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn HAMMUD poi si battezzò,
impetrato da' teologi del Conte di ritenere la moglie ch'era sua parente, né
gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi
sicuro de' Mussulmani in Sicilia, né volendo che Ruggiero pur sospettasse di
lui in caso di cospirazioni e tumulti, il cauto e vile 'Alida chiese di
soggiornare in terra ferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi
lungamente visse vita irreprensibile, dice lo storiografo normanno.»
Di quei cento lancieri al seguito di Ruggero per la
consunzione di una resa proditoria e vile, quanti erano stati prima a Racalmuto
(la Racel del Malaterra) a seminare terrore, violenza e morte? A Racel vi era
forse un castello (o due: il Castelluccio e quello di piazza Castello); vi era,
probabilmente, una guarnigione di berberi sognatori e disattenti; non erano
eroici guerrieri e comunque erano pochi. Piombarono i cento lancieri di Ruggero
da Girgenti, li soppressero e si sparsero per il casale e per le campagne a
razziare e violentare. I lancieri erano soprattutto predoni.
L'Amari è aspro, come si è detto, nei giudizi contro il
capo degli arabi, CHAMUTH, che invero bisogna pur capire avendo “famiglia”:
moglie e figli erano, infatti, in mano dei torbidi normanni. Il Malaterra,
monaco benedettino, impantana ancor più la sua non chiara prosa per mettere un
velo pudico sulle insane voglie dei predatori suoi compaesani. Costa fatica al
Conte Ruggero non far violare la sua eccellente prigioniera. E noi qualche
dubbio l'abbiamo sull'effettivo successo dell'iniziativa del Normanno. I suoi
sudditi erano irrefrenabili. Anche lui del resto si era già macchiato di molte
ignominie, specie in gioventù.
Quando, però, si tratta di cose militari, il candido
monaco crede alle esagerazioni dei vecchi soldati del Conte. Le forze del
nemico - naturalmente sconfitte - si accrescono a dismisura; quelle amiche e
vittoriose si assottigliano contro ogni logica ed attendibilità. L'Amari, tutto
preso dalla simpatia per i musulmani, sbotta e sentenzia che nelle cronache
del monaco Malaterra, le cifre sulle forze musulmane vanno divise per otto ed,
invece, vanno moltiplicate per otto le cifre che riguardano le forze normanne,
quando vincono.
Eppure il Malaterra resta sempre cronista piuttosto
attendibile, come dimostra il Pontieri nell'opera citata. I tanti episodi
cruciali della conquista della Sicilia da parte delle orde normanne, tra i
quali quelli relativi all'assalto della fortezza di Racalmuto (o Racel), hanno
una sola fonte storica che è la cronaca del Malaterra. Questo monaco non
sempre è stato testimone oculare. Ormai avanti negli anni, è onorato ospite
della corte di Ruggero il quale ormai si ammanta dei fregi regali, anche se non
dismette il suo nomadismo ereditato dagli avi vichinghi. Ascolta, il monaco, le
fanfaronate dei decrepiti veterani del Conte. Vantano ora i galloni di
generali, si fanno chiamare baroni, si sono arricchiti, hanno possedimenti in
Sicilia, ma restano i rudi vandali, incolti ed immorali, dell’avventuriera
giovinezza.
Il Malaterra ode nefandezze che gli ispirano disagio
morale. E' fervente cristiano, di buona cultura ecclesiastica. Scrive, esalta
il Conte; indulge, però, al suo moralismo ed ama moraleggiare chiosando gli
eventi con citazioni bibliche e religiose.
Abbiamo visto l'Amari irridere a Chamuth. Lo ha fatto
alla luce degli incisi moraleggianti del Malaterra. Il giudizio va, però,
corretto con una lettura più spassionata della cronaca del benedettino.
Per fare terra bruciata attorno al nostro Chamuth, tocca ad 11 castelli l'ignominia
delle scorribande dei lancieri di Ruggero. Alla nostra Racalmuto è dato
assaggiare le moleste attenzioni dei normanni, come ai citati e sicuri Platani,
Naro, Guastanella, Sutera, Bifara, Caltanissetta e Licata o agli incerti
Missar, Muclofe e Remise.
Se poi il Chamuth si arrese, non ci sembra proprio che
tutto sia da imputare al suo essere un flaccido uomo d'armi. E se anche fosse
stato, questo non ci pare un grande demerito.
Per gli storici arabi, le città di Chamuth sono
costrette ad arrendersi per fame. E l'accenno arabo al crollo di Girgenti e
Castrogiovanni ci convince molto di più
delle ingenuità narrative del Malaterra o delle note prevenute dell'Amari. Del
resto, se i cristiani avevano prima portato desolazioni nelle terre, tra cui
Racalmuto, intercorrenti tra Agrigento ed Enna, avevano poi tagliato i viveri a
Chamuth e la sua resa fu inevitabile.
* * *
Il
passaggio sotto i normanni a noi non ci esalta. Restiamo filoarabi, anche se
non con l’l’oltranzismo di Sciascia [63].
Siamo, in ogni caso, affascinati dai versi di Ibn Hamdis ([64])
Pianse, invero, Ibn con accenti davvero toccanti, specie se in noi tardi arabi
scorre nelle vene quel sangue berbero, come dire nord africano:
«Ho riacquietato il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi
alla malattia mortale, fastidiosa.
«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani
cristiane, mutate le sue moschee in chiese,
«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno
chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi
che foste propugnacolo contro popoli possenti.
«Quanti occhi tra
voi vegliano paventando, i quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci
sonni?
«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa
che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.
«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese:
splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono
sotterra: oh no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di
colmare i vuoti storici del fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi,
presunte tradizioni, fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel
lavoro di Eugenio Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo
libro - che dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una
tradizione riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava
l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata
all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo
che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo
lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte
«li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale
succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va
ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però
impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.
Sciascia, di certo
autore ben più scaltrito, è in definitiva sulla stessa lunghezza d’onda. Raffinatissimo nella forma quanto disinvolto
nella sostanza, ha voglia di farci credere che Racalmuto poté essere «un antico
paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e,
trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto.
Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano
che dal paese oggi prende il nome.» [65] Quanto sublime sia quel letterario dire non
saremo certo noi a dubitarlo; ma quanto di fondato vi sia sotto il profilo
storico, logistico e toponomastico, beh! … francamente abbiamo tanti indizi per
restare scettici.
Intanto,
sappiamo che ben dopo il 711 circolavano a Racalmuto monete bizantine che
vennero poi nascoste in contrada Montagna. Non v’è dubbio che là gli arabi
scoprirono coloni racalmutesi bizantini,
magari terrorizzati, magari pronti a fuggire. Quando scavi si faranno a
Gargilata, verranno comprovate compresenze e arabe e bizantine in quella
località. Se, si scaverà dotto il Castello, saranno ben chiariti tempi e
significati della ceramica di quel periodo che là è sepolta. Se non in base a
fonti documentali, è certo che si potrà far luce sul momento arabo racalmutese
con il rinvenimento e lo studio di chiarificatori reperti archeologici.
Frattanto, possiamo solo abbandonarci alle chimere, alle farneticazioni di una
sbrigliata fantasia da mille ed una notte. Il fantasticare arabo, noi locali
veraci, non possiamo non averlo nel sangue. Dice Sciascia che lui si sente
borgesemente arabo, nel senso che la sua residenza araba finisce per essere
antecedente alla sua effettiva genealogia: «mi pare cioè – cerca di spiegarci [66] – di sapere del paese molto di più di quel che
la mia memoria ha registrato e di quel che dalla memoria altrui mi è stato
trasmesso: un che di trasognato, di visionario, di cui non soltanto affiora –
in sprazzi, in frammenti – quella che nel luogo fu vita vissuta per quel breve
ramo genealogico della mia famiglia che mi è dato di conoscere …» Ciò torna
ostico alla mediocritas del nostro
comune intendere: basta, però, per concordare sulla locale voglia di sentire la
vicenda araba nostrana, più che di individuarne l’erudito svolgimento.
ARRIVA LA CIVILTA’ ARABA
Con
gli Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente
affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo
degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né vestigia archeologiche, né
testimonianze scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche
modo illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto
che è, appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico
pensare che di arabo Racalmuto non ha nulla: già, perché i tanto conclamati
toponimi - a partire dal nome del paese - o l’etimologie arabe dei vari lemmi
della parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione
saracena o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria
normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni
arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi
locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben
condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici,
religiosi. Vai a dir loro che trattasi di meri vaneggiamenti, di fole senza
fondamento, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente
intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’
(frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà
terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi
racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal
nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge
attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista
normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia
trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti
ribellistici degli sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non
possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento
di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo
ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più
sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento
così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità
dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca
è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva
1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il
governatore di Rahal-Almut, AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell’Emir
Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ([67]) Ma
l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate
Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca
di cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella
che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la
«tentazione dell’accensione visionaria,
fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso
pur sapendo che è falso». E del resto lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non
mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la
falsità, e precisamente nelle Parrocchie
di Regalpetra.» E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i
racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo
(v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di
quella falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale
resipiscenza se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro,
ribadisce, come abbiamo visto quella diceria. Non sembra che la fonte di cui si
serve Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto va asserendo
Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto ebbe a sostenere Tinebra
Martorana (v. pagg. 33 e segg.). Comprensibile, quindi, se ancor oggi su
Internet, compulsando i siti a carico della collettività, siamo tenuti a
credere:
Nell'827
d.C. sulle rovine di Casalvecchio, i saraceni che avevano conquistato gran
parte della Sicilia, edificarono Rahal-Maut. Sotto il dominio arabo Racalmuto
progredì rapidamente, s'intensificò l'agricoltura mentre le miniere di zolfo e
le saline diedero un impulso maggiore al commercio della città. Nel 1038
Racalmuto fu conquistata dal generale bizantino Maniace e nel forte di Minsciar
(l'attuale Castelluccio), sventolò per quattro anni la bandiera di
Costantinopoli.
Se quanto abbiamo
sinora dibattuto ha una qualche attendibilità, queste chiose di pretesa storia
locale rasentano stadi di demente visionarietà – ben diversa da quella
romantica, alla Sciascia – e attestano solo lo sperpero del pubblico denaro. Il
generale Maniace che sta a fare sventolare il vessillo bizantino al
Castelluccio (la cui esistenza in quel tempo si dà per certa, ed il cui toponomo
è mutuato dall’Edrisi di oltre un secolo dopo), dovrebbe destare beffardo
sorriso, se il parto letterario non fosse a carico del contribuente: le miniere
di zolfo e le saline – attive e proficue dall’IX al XI secolo, non ci vien
detto in quale landa racalmutese – sono presenze che sconvolgono ogni attuale
conoscenza storica.
Sciascia, purtroppo, è drastico nell’assegnare il
toponimo Rahal-Maut al locale Ottocento arabo: ne lima scaramanticamente la
portata funerea; il richiamo agli inferi, sotteso al “Paese dei morti”, si
stempera nel più attendibile “paese distrutto dalla peste”. Invero Racalmuto
ebbe consuetudine con le epidemie: «a peste fame et bello, libera nos Domine»
era litania cantilenata nei millenni, con accoramento, con atavico terrore contadino.
Erano davvero malanni con cui si doveva avere familiarità.
I nostri excursus storici sono
contrappuntati di desolazioni endemiche. Peste nel IV secolo, peste nel 1355,
morte e sgomento per peste dal 1374 al 1375, tentativo di sfruttare l’epidemia
del 1576 per pietire qualche sgravio fiscale; famigerata fu quella del 1624 ove
si prodigò il medico racalmutese Marco Antonio Alaimo; contro la devastante
peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del
Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e
collo; e fu iattura per tanti versi: da
quella economica a quella sociale; da quella dell’umano vivere a quella del
decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi
tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva
drasticamente ridimensionato; d. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste
del 1802; un temendo cataclisma era stato il colera del 1837. Un fraticello del
Convento di S. Francesco ci ha lasciato questa agghiacciante testimonianza [68]:
«Nell’anno 1837: mese di agosto vi fù il colera e in questa di Racalmuto
morirono circa mille persone e furono sepolte nella sepoltura di Santo Alberto
al Carmine, all’Anima Santa del Caliato, in Santa Maria di Gesù e porzione in
San Francesco; Monte San Giuseppe e in altre chiese, cioè persone particolari;
poi nella nostra sepoltura grande vi è sepolto il paroco don Antonino Grillo,
che morì a 25 agosto 1827 ed altre persone riguardevoli.» Alla fine del XIX
secolo altra morìa endemica, e per sovrappiù la “spagnola” nel 1919.
Se Sciascia, dunque, si concede la
licenza storica di fari derivare il toponimo del apese da un’impressionante
peste, ha le sue brave ragioni letterarie. E come tali, finiamo per accettarle
e rispettarle. Ma non sono verità storiche né narrabili né adombrabili.
Il toponimo si diffonde in Sicilia nel 1178 e riguarda una località, che,
sia chiaro, nulla ha a che fare con Racalmuto e che riguarda addirittura la
lontana Polizzi Generosa.
Racalmuto si affaccia alla storia documentata con un plateale falso,
quello confezionato dal celebre abate Vella, di cui al Consiglio d'Egitto del grande Sciascia . Quell'ingegnoso falsario
propina a Mons. Airoldi questa pagina su Racalmuto, che, a nostro avviso, non
era a quel tempo neppure sorto:
«O mio Padrone Grande assai, il servo della sua grandezza con
la faccia per terra le bacia le mani e le dice che l'Emir di Giurgenta mi ha
ordinato che avessi a numerare la popolazione di Rahal-Almut e dopo dovessi
scrivere alla sua Grandezza una lettera e mandarla a Palermo. Ho numerato tutti
ed ho trovato esservi 446 uomini, 655 donne, 492 figliuoli e 502 figliuole.
Tutti questi fanciulli sia Musulmani che Cristiani sono sotto i 15 anni. Onde
con la faccia per terra le bacio le mani e mi sottoscrivo così:
Il Governatore di Rahal-Almut: AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell'Emir
ELIHIR DI SICILIA.
24 del mese Regina (gennaio) 385 di
Maometto (che corrisponde all'anno 998 dell'era cristiana)».
L'Abate Vella, evidentemente, era a conoscenza delle particolari
attenzioni che mons. Airoldi dedicava in quel tempo alle rilevazioni
statistiche della Sicilia Araba. Cercò, così, di assecondarlo. Resta, però, il
fatto che il monsignore - fattosi avveduto dopo le note vicende giudiziarie del
suo protetto - espurgò dai sui appunti di statistica demografica quell'accenno
alla popolazione araba di Racalmuto. Di Rahal-Almut non troviamo infatti alcun
cenno nelle serie demografiche dell'Airoldi pubblicate, nell'Ottocento, dal Ferrara,
il noto economista siciliano.
Non così, invece, il nostro Tinebra Martorana che riporta integralmente
la ghiotta pagina di pretesa storia locale. A dire il vero egli avverte, sia
pure in nota [69] e con qualche astuzia
linguistica, che trattasi di un falso. Ma forse ebbe a pensare che anche i
falsi un qualche fondamento storico ce l'hanno pur sempre, e tanto valeva
richiamarli. Si dava, purtroppo, il caso che nella circostanza il falso era
totalmente falso ed anziché fornire un qualche lume, finiva con il far sviare
del tutto dalla ricostruzione storica di un periodo racalmutese fra i più
oscuri (e più chiacchierati, forse appunto perché oscuri).
Leonardo Sciascia sembra aver dato credito, in un primo momento, al falso
dell'abate Vella e nelle Parrocchie di Regalpetra, Racalmuto figura esistente sin dal 998 «.. anno ..
dell'era cristiana [in cui] il governatore arabo di Regalpetra scriveva
all'emiro di Palermo "ho numerato
tutti ed ho trovato esservi 446 uomini, 655 donne, 492 figliuoli e 502 figliuole"»
. Ma, già nella Morte dell'Inquisitore, l'abbaglio viene emendato ed il dato
demografico scartato. Al tempo poi della elaborazione del magistrale "Il
Consiglio d'Egitto" lo scrittore conosce intus et in cute il grande imbroglio dell'intraprendente abate
maltese. Rimembra il lapsus delle "Parrocchie" ed in fondo in fondo
gliene dispiace. Si spiega così l’acre rimbrotto[70] che
rivolge al suo - tutto sommato - apprezzato Tinebra Martorana, che suona un po’
falso, visto che la ripubblicazione delle "Memorie" del Tinebra
l'aveva voluta proprio Sciascia.
Chi scrive, dal canto suo, è propenso a ritenere che bisogna risalire al
tardo 1271 per avere il primo documento certo dell'esistenza storica di
Racalmuto. Tutto quello che precede è frutto o di fantasia o di imbroglio -
letterario o storico, poco importa - o di campanilismo visionario. Tutta la
faccenda dell'etimo arabo di Racalmuto si tinge di bizzarria
intellettualistica. Iniziarono certi araldisti del Seicento e da ultimo ci si è
messo pure uno specialista di assoluto valore, il Pellegrini[71], che
propina un Racalmuto equivalente a "Paese del Moggio".
E
nel primo documento disponibile - quello appunto del 1271, che si conservava
negli archivi angioini di Napoli - Racalmuto viene trascritto, quanto correttamente
non si sa , come RACHAL CHAMUT. A questa trascrizione qui ci si aggancia per
affermare che se un senso ha il toponimo "Racalmuto" questo non può
allontanarsi di molto dal significato di "Fortezza di Chamuth". Come
voleva il padre Parisi, e come affermava lo storico Garufi.
Il più antico documento ove viene
menzionata una località denominata Rahal-kamuth risale – come si disse – al
1178: stilato in greco, fu pubblicato nel 1868 dal grande paleologo siciliano
Salvatore Cusa. [72]
Vi si parla di una vendita a Berardo,
priore di S. Maria di Gadera, di un fondo sito in RAHALHAMMUT,
per il prezzo di 50 tarì. A venderlo, nel settembre di quell'anno, fu tale
Pietro di Nicola Gudelo, insieme alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e
Nicola. Il toponimo Rachal Chammoùt (rakal kammou/t) figura naturalmente scritto in
greco e la vendita del terreno viene fatta al monastero di S. Maria di Gadera,
sito nei pressi di Polizzi Generosa.
Il rimarchevole diploma del
1178 ha suscitato un particolare
interesse in Garufi, un grande storico cui fa ricorso Sciascia nella Morte dell’inquisitore, il quale sembra
opinare che il toponimo sia da riferire a Racalmuto, e così argomenta: [73]
«soggiungo che l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta
d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m
u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata
tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di
compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in
Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout,
nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i
testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero
dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».
L'autorevole storico non ha avuto al riguardo nessun seguito. Non
raccolse la tesi su Racalmuto Leonardo Sciascia e non seguono il Garufi storici
come il Bresc o arabisti come il Pellegrini (come si è visto prima). Noi
abbiamo tentato di confrontare questo documento con una sua copia in latino
riportata e studiata dal Di Giovanni[74], e
francamente siamo rimasti molto dubbiosi sulla fondatezza della tesi del
Garufi.
Non
si riferisca pure a Racalmuto, il documento, tuttavia, illumina sui processi di
colonizzazione dei frati benedettini in quel torno di tempo. E tanto potrebbe
giovare all'ipotesi di un insediamento benedettino a Racalmuto, come vorrebbe
ad esempio il Pirri.[75]
Sinora, La storia di Racalmuto resta purtroppo vincolata all'opera giovanile di
Tinebra Martorana. I tanti tentativi posteriori non hanno per il momento, a dir
poco, avuto presa sull'intellettuale collettivo del paese. Molto ha contribuito
Sciascia nel rendere incorrodibile quel libretto di storia locale: il substrato
che ne ha fatto per i lavori a dichiarato sfondo racalmutese (Le Parrocchie di Regapetra e Morte dell'Inquisitore) lega il nome del
al dire del Tinebra, sublimato dal paradigma letterario sciasciano; la
splendida prefazione scritta nel 1982 diffonde un'autorevolezza spropositata
sulla fatica giovanile di quel medico racalmutese. Parole, come queste,
risuoneranno magiche ed imperative in tempi futuri anche non prossimi: «Il
libro [quello del Tinebra Martorana], per i racalmutesi, per me racalmutese, va
bene così com'è: col gusto e col sentimento degli anni in cui fu scritto e
degli anni che aveva l'autore, con l'aura romantica ed un tantino
melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi
mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro
l'acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono
nati, nel riverbero del passato sulle cose presenti.»[76]
[1] )
Fulco Pratesi e Franco Tassi, Guida alla natura della Sicilia, pp. 21-22, Mondadori, Milano 1974.
[2] ) ibidem, p. 204
[3]) Ferdinando Milone: Sicilia,
la natura e l’uomo - Torino, 1960, pag. 13.
[4]) L. Trevisan: Les mouvements tectiques récents
en Sicile - Hipothèses et problèmes.
[5]) Luigi Romano: Idrogeologia
della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto -GEOLOGIA - Università di Palermo - Facoltà di Scienze
- Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[6] ) L.
Mauceri: Notizie su alcune tombe .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880
[7] ) S.
Tine': L'origine delle tombe a
forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.
[8] )
Leonardo Sciascia, L’antimonio, in
Opere 1956-1971 – pag. 384, Bompiani
Milano, 1987.
[9] ) ibidem, p. 384
[10] )
Sac. Calogero Salvo – Ecco tua madre
– pp. 13-14 - Racalmuto 1994.
[11] )
Vincenzo Tusa e Ernesto de Miro – Sicilia
Occidentale - p. 13 – Roma 1983.
[12] ) ibidem,
p. 111
[13])
Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra
il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata
e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e
direttore dell’Ufficio Centrale di
Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di
Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.°
21 -
Fascicolo 40.5.2 ).
[14]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ... scoperte fra Licata e
Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880, pag. 17.
[15]) Luigi Mauceri: op. cit. pag. 18.
[16]) Pietralonga, a dire il
vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del finitimo Castrofilippo.
[17]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale. - Roma 1983 - pag. 114.
[18] ) Pietro Griffo, Il
museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987, p. 219; vds. pure Vincenzo La Rosa, L’insediamento
preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43.
[19] ) Vincenzo La Rosa, L’insediamento
preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43
[20] ) ibidem, p. 52.
[21] ) Carla Guzzone, La
ceramica del villaggio di Serra del Palco ed il territorio di Milena in età
neolitica, in Dalle capanne alle
“robbe” … cit. p. 55 e ss.
[22] ) Laura Maniscalco, Le
ceramiche dell’età del rame nel territorio di Milena, in Dalle capanne alle “robbe” .., cit., p.
63 e ss.
[23] ) Orazio Palio, La
stazione di Serra del Palco e le fasi finali del bronzo antico, in Dalle capanne alle “robbe” … cit. p. 111
e ss.
[24] ) Vincenzo La Rosa – Anna Lucia D’Agata, Uno scarico dell’età del Bronzo sulla Serra del Palco di Milena, in
Dalle capanne alle “Robbe” … cit, p. 93 e ss.
[25] ) Fabrizio Nicoletti, Industrie
litiche, materie prime ed economia nella preistoria della media valle del
Platani: continuità e cambiamento, in Dalle
capanne alle “robbe” … cit. p.
117 e ss.
[26] ) Resta ancora basilare
il vecchio studio del 1968 del De Miro, riportato anche nel volume “Dalle capanne alle robbe ..” varie volte
qui citato. Molto ha aggiunto Vincenzo La Rosa, come si vede nello studio
riportato a p. 141 e ss. Del citato volume.
[27] ) Francesco Tomasello, Le
tholoi di monte Campanella a Milena (Cl), in Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p. 165 e ss.
[28] )
vds. Dalle capanne alle “robbe” ..
cit. p. 241 nota a Tab. 1)
[29] ) v.d.s. André
Guillou, L'Italia bizantina
dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316., per la
datazione e Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento,
Roma 1987, p. 192 per la data del
ritrovamento.
.
[30]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale. - Roma 1983 - pag. 14.
[31])
A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' E
BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.3.4 - (annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 -
Girgenti - Mattoni antichi con bolli, miniere solfuree).
[32]) C.I.L. [CORPUS
INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X,2 p. 857 - TEGULAE
MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[33]) NOTIZIE DEGLI SCAVI -
Anno 1900, pagg. 659-60.
[34] ) Giovanni Salmeri, Sicilia
Romana. Storia e storiografia, G. Maimone Editore, Catania 1992, pp. 29-43.
[35] ) M. Colonna,
L’industria zolfifera siciliana. Origini, sviluppo, declino. Catania 1971,
pp. 14-15.
[36] ) Così giustamente R.J.A. Wilson, Sicily under the Roman Empire, Warminster 1990, p. 238 e p. 395 n. 8.
[37] ) Tavole di flessione:
sulphuraria, sost.; sulpuraria, sost. sulphuraria, ae, f., solfatara, ULP. – Dig. XLVIII, 19, 8, 10; F.G.B. Millar, Condemnation to Hard Labour in the Roman Empire, «PBSR» 39
(1984), pp. 124-147.
[38] ) Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Inchiesta in Sicilia, edizione fiorentina del 1974, pp. 269-279 del
II volume.
[39]) KOKALOS 1963, pp.
163-184.
[40]) B. Pace, Arte e Civiltà, I pp. 393-4
[41]) L’accenno al
MANCEPS conduce a quella datazione, se
si accettano le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali si leggono nella
sua relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982, pag. 324.
[42]) Oggi custodito
nell’androne del Comune, da tempo immemorabile giaceva prima al Castello.
[43]) Guida d’Italia del
Touring Club Italiano - Sicilia - ed. 1968, pag. 303.
[44]) Ernesto De Miro: Città e contado nella Sicilia Centro-Meridionale,
nel iii e iv sec. d.C. - in Kokalos pag. 320. In quella relazione, spunti
riguardanti specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di
cui alla Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST,
se non è proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[45]) E. De Miro, op. cit. pag. 321.
[46]) E. De Miro, op. cit. pag. 320.
[46]) B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia
Antica I, 1935, p. 393 ss.
[47]) E. De Miro, op. cit. passim.
[48]) M.R. LA LOMIA, in
Kokalos, VII, 1961; E. DE MIRO, in Encicopledia Arte Antica, VII, 1966, p. 276,
ID, in Kokalos, XVIII-XIX, 1972-73, pp.247.
[49]) Sidonio Apollinare -
Carm. II - Panegirico recitato in Roma all’imperatore Artemio (ediz. di Parigi
1599). Di risalto i versi 362-372. Si celebra la vittoria di Ricimero del 456
con questi encomiastici tratti:
Agrigentini recolit dispendia campi,
Inde furit, quod
se docuit satis iste nepotem
illius esse viri, quo viso, Vandale, semper
Terga dabas, nam non
siculis illustrior arvis,
Tu, Marcelle,
redis per quem tellure, marique
Nostra syracusios texerunt arma penates.
(Da G. Picone: Memorie
Agrigentine, pag. 283).
[50]) Il Griffo (op. cit.)
accenna all’esposizione di «un ripostiglio di aurei imperiali (ben 207 pezzi)
del V secolo d.C. proveniente da Racalmuto per scoperta occasionale del 1940. »
A suo dire il medagliere sarebbe stato
oggetto di «un accurato inventario a cura della dott.ssa M. T. Currò-Pisanò,
che s’era preso anche carico di elaborarlo per le stampe». (Ibidem, pag. 317). Abbiamo cercato di
saperne di più presso il Museo di Agrigento,
ma del tutto invano.
[51] ) Bisogna innanzitutto
invertire l’ordine: Eracleona (Eraclio II) viene ben prima di Tiberio II.
Eraclio è dei primi decenni del secolo VII, mentre il Tiberio delle monete cui
si riferisce il Guillou chiude nel 711 la sua dinastia. Per il primo vds. Georg Ostrogorski, Storia dell’impero bizantino, Einaudi Torino 1968, pp. 95,99,100;
per il secondo, ibidem, pp. 120-122, 157.
[52]) B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica IV, p.174.
[53]) V. D'Alessandro, Per
una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in Archiv. Storico
Siracusano, n.s. V, 1981.
[54]) André Guillou, L'Italia bizantina dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna,
Vol. I, Torino 1980, pag. 316.
[55]) Cfr. Arch. Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76,
pag. 74, n. 149
[56]) P. Griffo, Il Museo Archeologico Regionale di Agrigento,
1987, pag.192.
[57]) Umberto Rizzitano, Gli Arabi di Sicilia, in Storia d’Italia
diretta da G. Galasso, UTET 1983, Vol. III, pagg. 384 e ss.
[58]) «Khafagia ibn Sufyàn era
indubbiamente una personalità di primo piano; si era già distinto in Ifrìqiya
all’epoca della rivolta dei giùnd,
dando prova di grande fedeltà alla dinastia aghlabita. Quando arrivò in Sicilia
non mancava quindi né di esperienza né di prestigio personale. Il primo anno
della sua permanenza a Palermo lo trascorse, secondo Ibn al-Athìr, più che in
operazioni militari proprio nel delicato compito di ristabilire ordine e
disciplina fra gli elementi musulmani, e di armonizzare conquistatori e
conquistati: condizioni indispensabili alla ripresa delle operazioni militari.
Cfr. Ibn al-Athìr, Al-Kàmil, pag. 312. Cfr. anche SMS, I,
482.
[59]) Su tale toponimo RAHL abbiamo
appuntato tutta la nostra attenzione ritenendo che potesse essere quello del
nostro paese. AMARI riduce in RAHL un RACEL che trovavasi nel manoscritto
malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo ZURRITA e pubblicato a
Saragozza nel 1578. Quel manoscritto è andato perduto. La pubblicazione che
resta ancora l'edizione principe fu recepita nella colossale opera di Ludovico
Antonio MURATORI RERUM ITALICARUM SCRIPTORES nel vol. V con il sintetico titolo
HISTORIA SICULA, Gaufredi MALATERRAE. Il Muratori dà la lezione RACEL e in
calce annota RASEL-BISAR ad indicazione di altre lezioni da lui tenute
presenti. L'Amari non si produce in ulteriori ricerche paleografiche: distingue
RACEL da BIFAR; per lui arabista, RACEL equivale a RAHL [casale]; si confessa
incapace di individuare un RAHL nelle pertinenze agrigentine, che ne sono
piene. Il PICONE segue la pista dell'AMARI e nelle sue MEMORIE (cfr. pag. 401)
reputa incompleto il toponimo e segna RAHAL..., distinguendolo comunque da
BIFAR, una località piuttosto nota tra Campobello di Licata e Licata. Si sa che
la raccolta di 'scriptores rerum italicarum' è stata, a cavallo di secolo,
oggetto di pregevolissime riedizioni con interventi di personalità della
cultura del calibro del CARDUCCI. Il testo del monaco benedettino dell'XI
secolo ha avuto nel 1927 una diligentissima riedizione con una illuminante
introduzione da parte di Ernesto PONTIERI. Questi venne in Sicilia; trovò altri
codici (A=Cod. X. A 16 della Biblioteca Nazionale di Palermo; B=Cod.II.F 12
della Società Siciliana per la storia patria; C=Cod. 97 della Biblioteca
universitaria di Catania e D=Cod. QqE 165 della Biblioteca comunale di Palermo)
che, comunque, mutili e scorretti e pur sempre derivanti dalla fonte
dell'edizione principe del 1578, non gli furono di molto aiuto. Il PONTIERI
adottò la lezione RASELBIFAR, legando insieme Racel e Bifar, e in nota fornì la
versione della Biblioteca universitaria di Catania (C): RACEL GIFAR. Nel 1937,
Carlo Alfonso NALLINO, nel integrare le note della STORIA DEI MUSULMANI DI
SICILIA di M. AMARI controbatteva al PONTIERI e reinterpretava il passo
malaterrano con questa dissertazione [aggiunta a nota n. 1 di pag. 177 op.
cit.]: «In realtà i castelli sono 10 e non 11. L'ed. princeps del Malaterra
(Saragozza 1578), e le prime cinque che la seguirono pedissequamente, hanno
'Ravel, Bifara', come se si trattasse di due luoghi diversi; ció ingannó
V.D'Amico, Diz. topogr. trad. Dimarzo (Palermo 1855-56, l'ed. latina è del
1757-1760), che nel vol. I, pag. 143-144 tratta di Bifara e nel II, p. 398 di
RACEL (dal solo Malaterra), e quindi l'Amari. Nessuno dei due pose mente
all'attenzione del Diz. stesso, I, p. 143, che Bifara 'dicesi anche RAGAL
BIFARA' (evidentemente nell'uso locale siciliano). Il traduttore Dimarzo, I p.
144, n. 1, osserva che Bifara ' è un sottocomune aggregato a Campobello di
Licata ..., in provincia di Girgenti (Agrigento) ..., circondario di Ravanusa'.
Campobello dista 50 Km. da Girgenti (Agrigento) e 9 da Ravanusa. E. Pontieri,
ultimo editore del Malaterra (1928), trovò nei mss. anche le varianti
Raselbifar e Raselgifar e scelse a torto la prima nel testo (p. 88) e
nell'indice (p. 153), mentre è certo che il primo componente e rahl (racel,
racal, ragal), come ben vide l'A.» [cfr. pag. 178 op. cit.] Quel che sorprende in entrambi quest'ultimi
due studiosi è il fatto che con la loro lezione i casali conquistati da
Ruggiero il Normanno diventano dieci in aperto contrasto con la premessa del
MALATERRA che parla di ben undici castelli agrigentini presi all'arabo
CHAMUTH: una contraddizione che andava per lo meno giustificata. Come si vede
un gran pasticcio e ci scusiamo se l'averlo qui accennato può essere apparso
pedante e tedioso. Ma è l'unico probabile appiglio ad una fonte storica delle
origini del toponimo RACALMUTO. Alla fine della fatica, vien però da domandarsi
se è proprio importante trovare un antico toponimo da assegnare alla storia
della nostra terra.
[60]) A completamento del discorso sui
toponimi svolto nella precedente nota, riportiamo il commento dell'AMARI nella
sua STORIA (pag. 177, n. 1): «I nomi delle castella prese nella provincia di
Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun evidente errore del
testo. Rimane dubbio il suo Racel, che ho trascritto sicuramente in Rahl
(stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per determinare quella
appellazione generica, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi
Rahl di quella provincia. Credo avere bene letto Ravanusa il Remise (variante
Remunisse) del testo, poiché MICOLUFA sorgea presso Ravanusa. Del resto Simone
da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò Malaterra nel suo libro 'La
conquista di Sicilia' recentemente uscito alla luce (Collezione d'opere
inedite e rare, Bologna 1865, in -8), dà otto soli nomi degli undici, dicendo
non avere ritrovato gli altri ne' testi; ed un ms. della stessa opera,
appartenente alla Bibliothèque de l'Arsenal in Parigi (Ital. N. 68) ne dà sette
soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catalanixetta, Bosolbi, Mocofe, Ciaxo
'e li altri, aggiunge, non so chi si fusseru e non si canuxirianu, ect.).
Intorno i nomi non si trovano nella lista odierna de' Comuni di Sicilia, vi
vegga il Dizionario Topografico dell'Amico e l'Indice che io ho messo in fine
della 'Carte comparée de la Sicile, [1859], Notice'.»
[61]) Michele AMARI - STORIA DEI MUSULMANI
DI SICILIA, Catania 1937, Vol. III, parte prima, pagg. 174, ss. Nel trascrivere
il CHAMUTH del MALATERRA in HAMMUD, l'AMARI annota [nota 1 di pag. 175]: «la h,
sesta lettera dell'alfabeto arabico, fu resa per lo piú, sino ad uno o due secoli
addietro, con le lettere latine ch; e il d, ottava lettera, piú spesso con una
t che con una d. L'anonimo ha HAMUS [cioè ANONIMO, presso Caruso, Bibl. Sic.
pag. 855]. Sapendosi dalla storia che Chamuth, fatto cristiano con tutta la
famiglia, rimase sotto il dominio del conquistatore, possiamo ben identificare
il casato con quello di Ruggiero HAMUTUS, già proprietario di certi beni che
Federico II concedea nel 1216 alla chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro,
Sicilia Sacra, p. 142) e dell'Ibn Hammud, ricchissimo signore che Ibn GUBAYR
vide in Sicilia nel 1185. Questo nobil uomo poteva essere nipote o bisnipote
del regolo di Castrogiovanni. Sapendosi ch'ei portasse il soprannome d'Abû al
Qâsim, sembra anco il Bucassimus, celebre per brighe alla corte di Palermo, ne'
primordi del regno di Guglielmo il Buono....». Ancor oggi, alcune nobili
famiglie siciliane vantano discendenze da quel ceppo Hammûdita. Trattasi dei
nobili NICASIO di BURGIO. Impietoso l'Amari contro il libello di Nicasio
Burgio, conte palatino XXIII intitolato «La discendenza di Achmet ultimo
potente ammira fra i Saraceni dominanti in Sicilia, rappresentato in questo
medesimo luogo dalla chiarissima famiglia Burgio», pubblicato a Trapani nel
1786. Indulgente il NALLINO che nella stessa nota si dilunga accogliendo le
precisazione di una nobildonna di quella famiglia. Costei segnala che i
primogeniti della casata Burgio continuano a chiamarsi ACHMET, ( ad. es.
ACHMET RUGIERO NICASIO BURGIO, principe di Aragona e di Villafiorita, di
Palermo). Per quel che ci riguarda, un'ipotesi potrebbe avere qualche
fondamento. Tra i beni del citato Ruggiero HAMUTUS poteva esserci qualche
signoria sul diruto castello di Racalmuto, un tempo appartenuto al nonno, o
bisnonno, CHAMUTO. Ma trattasi di congettura che lascia il tempo che trova.
[62]) Trascriviamo qui per eventuali cultori delle
fonti l'intero passo latino della cronaca del Malaterra: «Comes ergo Rogerius,
omnes potentiores Siciliae a se debellatos gaudens, et nemine, excepto CHAMUTO,
seperstite, ad hoc assidua deliberatione intendit, ut ipso circumveniendo
debellato, omnem sibi de caetero Siciliam subdat. Unde, exercitu admoto, ipso
apud Castrum-Joannis immorante, uxorem eius ac liberos apud Agrigentinam urbem
obsessum vadit, anno Dominicae Incarnationis millesimo octogesimo sexto
[l'AMARI corregge in 1087], prima die Aprilis, quam undique exercitu vallans,
diutina oppressione lacessivit; studioque machinamentis ad urbem capiendam
apparatis, tandem vicesimaquinta die Julii viribus exahusta, imminentibus hostibus,
patuit: uxor Chamuthi, cum liberis, Comitis inventa est captione. Comes itaque,
pro libitu suo positus, uxorem Chamuti, omni dehonestatione prohibita, suis
custodiendam deliberata, sciens Chamutum sibi facilius reconciliari, si eam
absque dehonestatione cognoverit tractari. - Urbem itaque pro velle suo
ordinans, castello firmissimo munit, vallo girat, turribus et propugnaculis ad
defensionem aptat, finitima castra incursionibus lacessens ad deditionem cogit.
Unde et usque ad undecim aevo brevi subjugata sibi alligat, quorum ista sunt
nomina: Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Rasel, Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, quod, nostra lingua
interpretatum, resolvitur Castrum foeminarum, Licata, Remunisce.» [Le lezioni
dei nomi sono molte e spesso fortemente differenziate. Chi volesse averne
completa conoscenza, deve consultare
l'edizione del PONTIERI, varie volte citata, pag. 88 e ss. A parte RASEL, che ovviamente abbiamo seguito
con puntigliosa attenzione, per il resto abbiamo scelto alquanto liberamente,
intendendo privilegiare le lezioni che maggiormente si avvicinassero ai
toponimi di Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Racalmuto, Bifara, Milocca (?!), Naro, Caltanissetta,
Licata e Ravanusa.
[63] ) Ci appare cerebrale
questo passo: «la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la
nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi» Leonardo Sciascia, Occhio
di Capra, Adelphi Milano 1990, p. 13.
[64]) Ibn Hamdis: poeta
arabo, nato a Siracusa verso il 1053 e
morto in Africa nel 1133. Vedi Michele
Amari, Biblioteca Arabo-Sicula - Torino 1880 - pagg. 312 e ss.
[65] ) Leonardo Sciascia, introduzione a Peitro d’Asaro «il monocolo di Racalmuto», Racalmuto 1985, p. 20.
[66] ) Leonardo Sciascia, Occhio
di capra, cit. p. 12.
[67]) Nicolò Tinebra Martorana:
Racalmuto - memorie e tradizioni - Palermo 1982, pp. 35 e ss.
[68] ) Archivio di Stato di
Agrigento - Convento de’Minori sotto Titolo di S. Francesco d’Assisi -
Inventario n.° 46 fascicolo n.° 531 - “Libro vestiario”
[69])
NICOLO' TINEBRA MARTORANA - RACALMUTO MEMORIE E TRADIZIONI . ASSESSORATO AI
BENI CULTURALI DEL COMUNE DI RACALMUTO 1982. A pag. 36 si può leggere questa
rivelatrice nota: «Codice diplomatico
arabo - Torino 3°, p. 1, f - Si
dubita però della autenticità di quel Codice, perché il suo autore è stato
condannato per falsità».
[70]) Nel licenziare l'opera
del Tinebra, Sciascia sembra più interessato ai valori letterari del libro di
quel ventenne studente in medicina che alle risultanze della ricerca storica.
Il Tinebra Martorana avrebbe, secondo Leonardo Sciascia (cfr. pag. 8),
cercato «.. di non ignorare tutto quello
che, in opere di storia generale e locale, riguardasse Racalmuto: ma sentiva
fortemente la tentazione dell'accensione visionaria, fantastica. Ne è spia di
questa tentazione alla visionarietà, alla fantasia, il suo non resistere al piacere di riportare un documento falso
pur sapendo che è falso: ed è la letteradel governatore arabo di Racalmuto
(Rahal-Almut) all'Emiro di Palermo, fabbricata, come tutto il codice che la
contiene, dal famoso Giuseppe Vella: un personaggio di cui ho raccontato ascesa
e caduta nel Consiglio d'Egitto. E
voglio confessare che anch'io non mi sono privato del piacere di riportare quel
documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocche di Regalpetra.
Solo che Tinebra Martorana, facendo storia, aveva minore libertà di quanto io
ne avessi, e perciò quella sua strana, per un libro di stora, nota : "Si dubita però dell'autenticità di quel
Codice, perché il suo autore è stato condannato per falsità". Altro
che dubitare: se ne era , nel 1897, certissimi.»
[71]) Giovan Battista
Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - I nomi geografici italiani - UTET
1990. Racalmuto - vi si legge - "deriva
dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta,
casale' del Mudd <latino modium 'Moggio' ". "Paisi di lu Munnieddu",
dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la
configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino Monte Formaggio di
Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suonasse simile
a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi.
[72] ) Salvatore
Cusa, I diplomi greci ed arabi di Sicilia,
Palermo 1868, pag. 657-658 e pag. 729.
[73]) Cfr. CARLO
ALBERTO GARUFI, 'PATTI AGRARI E COMUNI FEUDALI DI NUOVA FONDAZIONE IN
SICILIA' in ARCHIVIO STORICO SICILIANO,
anno 1947, parte II dell'articolo, pag.
34.
[74]) ARCHIVIO STORICO
SICILIANO - 1880: Memorie Originali - Vincenzo di Giovanni: Il Monastero di S.
Maria la Gàdera poi Santa Maria de
Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi. - Pag. 15 e segg.
[75]) Il compianto padre
Calogero Salvo ha invero demolito da ultimo una siffatta ipotesi.
[76])
Cfr. Prefazione in NICOLO' TINEBRA MARTORANA - RACALMUTO MEMORIE E TRADIZIONI .
ASSESSORATO AI BENI CULTURALI DEL COMUNE DI RACALMUTO 1982, pag. 9.
[i] Le ricchezze archeologiche di Milocca ed il ritardo racalmutese
Vincenzo La Rosa dell’università di Catania ha potuto scandagliare dal 4
dicembre 1977 il territorio di Milena alla ricerca delle antiche civiltà ivi
succedutesi. Il volume Dalle capanne alle
“Robbe” ne attestano i felici risultati. Là, i diversi sovraintendenti
(specie agrigentini) sono stati prodighi di autorizzazioni ed aiuti. Nella
contermine area racalmutese, tutto l’opposto. L’attenzione agrigentina è tutta
protesa alla Valle dei Templi. Quanto è greco o post greco ha senso; il resto
solo se ha attinenza al mito minoico del re Cocalo. Al momento, Racalmuto può solo usufruire del
riverbero delle risultanze pre e proto storiche che gli scavi e gli studi della
contermine Milena sfornano a ritmo davvero sostenuto.
E se lì sono ormai assodate «le presenze di tipo egeo e, più in generale,
.. le culture sicane della media e tarda età del Bronzo» [i] restiamo
autorizzati a pensare altrettanto per Racalmuto, specie in territorio di Fra
Diego.
a) Le affinità geomorfologiche.
Gli studi sul sistema geomorfologico di Salvatore Maria Saia [i] si
attagliano ovviamente, anche, al limitrofo territorio di Racalmuto. Certo non
in modo pedissequo: ad esempio, l’affluente del Platani, Gallo d’Oro, nasce dalle
falde del Castelluccio e zigzagando per il versante Est di Villanuova s’immette
in pieno territorio di Montedoro, ma non può affermarsi per il tratto
racalmutese quello che il Saia afferma per Milena e cioè che il corso d’acqua
in questione abbia «assunto un ruolo principale nell’azione morfologica di
“modifica” territoriale e nel quale si congiungono quasi tutte le aste del
reticolo idrografico di questo ambito territoriale.» Comunque fenomeni analoghi
vi sono nelle lande racalmutesi, sia pure collegati ad altri corsi d’acqua.
In pieno invece attengono a Racalmuto queste altre considerazioni del
Saia: «I termini stratigrafici risultanti
dall’esame superficiale e raffrontati alla letteratura geologica vengono
descritti come appartenenti alla cosiddetta “Serie Solfifera”, cioè ad una
“successione di sedimenti prevalentemente evaporitici, compresi tra le argille
del Tortoniano superiore e la formazione dei «trubi» del Pliocene basale,
depositatisi in corrispondenza ad una crisi di salinità interessante l’area
mediterranea” (Decima & Werzel,
1971» [i]
Aggirate le difficoltà della
terminologia scientifica, il succo del discorso conferma, specie per i
riferimenti cronologici, quello che ci siamo sforzati di rappresentare sopra
sull’evoluzione geologica dell’altipiano racalmutese. Ci troviamo quindi di
fronte «ad una successione continua costituita schematicamente dalle seguenti
unità dal basso verso l’alto, in successione più o meno continua sulle argille
basali: 1 - Tripoli; 2 – Calcare; 3 Gessi e gessareniti con lenti di sale; 4 –
Trubi con l’elemento basale dell’Arenazzolo.» In definitiva – esulando da
questo lavoro approfondimenti scientifici dell’assetto geomorfologico
racalmutese – possiamo agganciarci alle recentissime conclusioni di quanti
ritengono «il territorio [che ci occupa] tipico della zona centrale della
Sicilia [con] elementi di uniformità geologica a quella fascia centro
meridionale dell’Isola.» In altri termini, «è un territorio che ha avuto una
“storia” geologica relativamente recente se raffrontata al susseguirsi delle
ere geologiche, ma la caratterizzazione in termini litologici plastici o
comunque riconducibili a forme non proprio consistenti o resistenti
all’erosione ne ha determinato un paesaggio geomorfologico piuttosto
“appiattito” che ha consentito facili ed agevoli insediamenti umani.»
b) Lo zolfo
Dalle ricerche su Milena estrapoliamo, poi, queste annotazioni, sempre
del Saia, sulle “mineralizzazioni” che investono appieno la nostra ampia
vallata a nord del Castelluccio: «La serie Gessoso-Solfefera presenta le
mineralizzazioni classiche che la caratterizzano e che sono costituite
principalmente dallo zolfo, da salgemma e da vari tipi di sali a composizione
potassica o sodica..» «Il minerale, di genesi sedimentaria, è associato a gesso,
anidride e talora salgemma, la cui origine non è ancora del tutto certa, ma
sembra che si verifichi per “riduzione dei solfati (ad es. CaSO4),
con formazione intermedia di solfuri e successiva ossidazione di questi
ultimi da parte di acque ricche di CO2,
che depositano contemporaneamente CaCO4 secondario. L’azione
riducente dei solfati è svolta essenzialmente da microrganismi di tipo
anaerobico. D’altra parte diversi organismi quali i solfo-batteri, possono
precipitare direttamente lo zolfo da acque contenenti H2S, che può a
sua volta derivare da esalazioni termali o dalla putrefazione di sostanze organiche.” (Carobbi, 1971) [i] La
riduzione di solfati (come il gesso) per opera dei solfo-batteri (Spirillum desulfuricum Bayer e Microspina aestuari v. Deden) con
produzione di H2S, e la consequenziale soluzione in acqua potrebbe
spiegare, altresì, la differenza diffusa di acque solfuree [i],
considerato che il fenomeno non può attribuirsi a fenomeni di origine
vulcanica.»
Qui, si esplica, in termini altamente scientifici, quello che noi
alquanto fantasiosamente abbiamo cercato di rappresentare a proposito del
vibrione “desulfuricante”, reo di ottocenteschi sfruttamenti di poveri
zolfatari e di obbrobri sociali avverso gli imberbi “carusi”.
c)
Il salgemma.
Ma passiamo al sale. «La presenza del sale – aggiunge il Saia, op. cit.
p. 25 – è stata dimostrata, nel tempo, dagli affioramenti spontanei dovuti a
falde acquifere sotterranee che, dopo aver disciolto il minerale, sgorgano in
superficie ove, sottoposte a rapida evaporazione per esposizione alle mutate
condizioni di temperatura e pressione, precipita il sale, lasciando intravedere
le chiazze bianche anche a notevole distanza. Le ricerche minerarie hanno
dimostrato l’esistenza di grossi giacimenti salini che si presentano
discontinui perché sottoposti ad intensa attività “tettonica comprensiva con
pieghe diapiriche anche strette per cui lo spessore apparente può, alle volte,
raggiungere e superare i 1000 metri” (Decima & Wezel, 1971) ed esposti a
rapide dissoluzioni. Oltre alle mineralizzazioni di sali sodici se ne
riscontrano anche potassici [oscenamente deturpanti le miniere di Gargilata, a ridosso del Cozzo Don Filippo]e magnesiaci.»
d) Il gesso.
Ed ora prendiamo a prestito dal geologo alcune notazioni scientifiche sul
gesso. «La presenza dei gessi – conclude sempre il Saia, op. cit. p. 25 –
soprattutto di quelli nella forma selenitica (cristalli cosiddetti a “ferro di
lancia” o “coda di rondine”) per la facile lavorabilità ha probabilmente
favorito gli insediamenti [sicani], anche al fine di pratiche o di culti come
ad esempio quello dei morti con relative opere tombali inserite nelle pareti di
gesso.»
Racalmuto conferma appieno tale tesi. Necropoli sicane monumentali sono, ictu oculi, quelle di fra Diego; ma
diffuse sono quelle meno appariscenti, talora persino solitarie, che
contrassegnano l’intero territorio. Si pensi che persino a fondo valle, vicino Pian di Botte, si rinvengono in
soggiogante solitudine tombe sicane, scavate nelle pietre gessose. Appena
disponibili massi capienti, gli antenati sicani di Racalmuto andavano a
scavarvi i “forni” tombali, a testimonianza del loro culto dei morti, della
loro irriducibile fede nell’oltretomba.
A Racalmuto, come a Milena, però «gli insediamenti antropici hanno ancor
più modificato il paesaggio attraverso la denudazione dei suoli per uso
agricolo senza tenere conto che la presanza di argille avrebbe, come di fatto è
avvenuto, portato all’accentuazione dell’erosione rendendo di fatto gli stessi
suoli in parte inutilizzabili e pericolasamente instabili. Le argille, per la
loro impermeabilità, hanno favorito la corrivazione delle acque superficiali
che vengono accumulate nei fondovalle dando origine, il più delle volte, a
piene notevoli e devastanti con l’intensificarsi delle precipitazioni.»
e) Le grotte ed il fenomeno carsico.
Il fenomeno carsico, adeguatamente indagato in territorio di Milena, è
naturalmente presente anche a Racalmuto: qui, finora è stata ispezionata la
sola grotta di fra Diego con risultati non del tutto soddisfacenti. Mutuiamo
quindi dalle risultanze del club alpino che da tempo indaga sui fenomeni
carsici di Milena. Marcello Panzica La Manna [i] ci
fornisce questi ragguagli, utilizzabili, secondo noi anche per Racalmuto,
almeno sino a quando non vi saranno spedizioni speleologiche adeguate.
«Rilevanti risultano gli
affioramenti di rocce evaporitiche di età messiniana (Miocene superiore)[e quindi il territorio] è caratterizzato
dalla presenza di estese fenomenologie carsiche sia superficiali che sotterranee.
Il fenomeno carsico sui gessi (più propriamente “paracarsico” secondo
l’accezione di Cigna, 1983), a causa dell’elevatissima solubilità di tale
roccia ad opera delle acque meteoriche, si sviluppa con forme estremamente più
marcate e ad evoluzione più rapida rispetto a quelle dell’analogo e più
conosciuto fenomeno che si sviluppa nelle rocce calcaree (carsismo classico).
[…] Sono riscontrabili due differenti tipologie di grotte definibili, secondo
la classificazione di Cigna (1983, op. cit.), 1) cavità pseudocarsiche; 2)
cavità paracarsiche.»
«Le cavità pseudocarsiche
sono quel tipo di grotte denominate “tettoniche”, legate cioè alle
discontinuità meccaniche delle masse rocciose che costituiscono i vani
sotterranei. La genesi di tali grotte è da imputare in parte alla fratturazione
della roccia, prodottasi a causa dei movimenti tettonici che hanno interessato
l’area, in parte a fenomeni di tipo gravitativo che hanno disarticolato gli
affioramenti gessosi in blocchi di varia dimensione.»
«Le cavità paracarsiche sono
quelle che si originano per l’azione di solubilizzazione della roccia gessosa
ad opera delle acque di precitazione meteorica. Il gesso presenta una
solvibilità in acqua molto elevata (dell’ordine di 2,5 g/l) che se messa in
relazione con la quantità di pioggia ed i tempi di esposizione della roccia
agli agenti atmosferici, giustifica la formazione degli imponenti reticoli di
ambienti e gallerie presenti nel sottosuolo. Le cavità riconducibili a tale
tipologia sono strettamente e funzionalmente legate alle morfologie carsiche di
superficie; esse infatti rappresentano la prosecuzione, nel sottosuolo, del
reticolo idrogeografico epigeo. Nella maggior parte dei casi le acque di
pioggia vengono incanalate all’interno delle depressioni, che dopo percorsi più
o meno lunghi le convogliano verso punti di assorbimento localmente denominati
“zubbi” o “inghiottitoi” nella terminologia idrogeologica. All’interno le
grotte mostrano chiaramente i segni dell’escavazione delle acque incanalate ed
è possibile riconoscere le varie fasi della loro evoluzione, dal momento in cui
erano completamente invase dal flusso idrico fino a quando lo stesso ha
iniziato a decrescere, abbandonando completamente, in certi casi, le cavità
medesime. Quasi sempre agli inghiottitoi sono associate delle cavità
(“risorgenze”) che costituiscono il punto di ritorno a giorno delle acque
sotterranee.» (op. cit. p. 28)
E qui abbandoniamo le citazioni erudite idrografiche [i], che non
sono certo pane per i nostri denti. In tempo comunque per lamentare l’assoluta
indifferenza delle autorità locali per un siffatto patrimonio ipogeo, di cui
manca persino uno straccio di inventario.
Grotte pseudocarsiche
abbondano in ogni dove a Racalmuto. Anzi, lo stesso paese all’origine fu patria
di coloni cavernicoli (noi pensiamo attorno al 1240, dopo la cacciata dei
saraceni da parte di Federico II): a ridosso del Calvario e del Carmine, sotto via Roma, nei pressi della Madonna
della Rocca, abbondavano gli anfratti gessosi, ove fu agevole trovare dimora,
se non confortevole, almeno riparata. Una selvaggia superfetazione edilizia ha
inglobato e fatto sparire la prisca realtà abitativa racalmutese. Ancora nel
1608, là era sede di rimarchevole opificio la grotta di Pannella. Citiamo da una visita pastorale del vescovo
Bonincontro [i]:
Et parimente la Parocchia della
Nunciata incomincia del medesimo Convento del Carmino e tira a drittura alla grutta
di Pannella [sottolineatura ns.]
restando d.a grutta nella d.a parocchia della Nunziata
In un atto del 1596, quale si rinviene nel Rollo di Santa
Maria di Gesù conservato in Matrice [i], abbiamo
la testimonianza di una più antica utilizzazione di una grotta in pieno centro,
cioè a dire nei pressi del Monte:
Die nono mensis Januarii x^ ind.
1596.
Item in et super sex corporibus domorum sursum et deorsum cum eius antro [corsivo, ns,] simul
contiguis et collateralibus confinantibus cum domibus heredum quondam Vincentij
la Mendola alias lo Vecchio et in quarterio Montis seu della Santicella …..
Le campagne erano (e sono), peraltro, cosparse di grotte pseudocarsiche, provvidenziali per i
palmenti. I vari Rolli della Matrice ne
riportano diversi estremi negli atti notarili a partire dal XVI secolo. Ne
citiamo un esempio [i]:
Die nono mensis
Januarii x^ ind. 1596.
Item ditta donatrix pro Deo et eius anima titulo donationis predictae
inrevocabilis inter vivos ut supra per eos et successoreres donavit et donat
Antonino et Cataldo Morriale fratribus eius nepotibus terrae Racalmuti
absentibus .. pro eis et eorum
heredibus et successoribus in perpetuum
stipulante et sollemniter recipiente vineam nuncupatam di lo Piro cum eius domo antro
[corsivo, ns.] torculare clausura et
aliis in aea existentibus sitam et positam in pheudo Nucis secus vias publicas
per quas itur versus civitatem Agrigenti
……
Quanto alle grotte paracarsiche,
il fenomeno più appariscente si verifica in contrada S. Anna, ed in particolare
all’apice del Pizzo di Blasco: sinora latita ogni interesse scientifico e
quindi nulla siamo in grado di annotare. Solo forse è da tener presente che là,
in un classico zubbio, si è
conformato un profondo bacino ove - per clima particolare, per sedimentazioni
acquitrinose e per protezione termica - c’è una lussureggiante flora,
inaccessibile anche per i cacciatori, che andrebbe adeguatamente classificata e
studiata.
f) la flora e la fauna
Racalmuto ha per il momento la fortuna di venire, sotto il profilo
floro-faunistico – indagato e fotografato dall’appassionato e competentissimo
dott. Giovanni Salvo, che sta davvero colmando, almeno qui, lacune secolari.
Gli si dovrà tanta gratitudine per le sue pubblicazioni, corredate da splendide
fotografie, sui lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di
Racalmuto.
Il nostro territorio – amcor più di quello di Milena – è «fortemente antropizzato
e ricco in specie annuali, nitrofile, mentre esempi di vegetazione naturale si
rinvengono nelle zone impervie e nei calanchi in quanto non adatte all’impianto
di culture.» [i] Si può affermare che vi
attecchiscano oltre 400 entità floristiche che vivono allo stato spontaneo. La
maggior parte di esse è annuale (terofite), le altre sono erbe perenni o
perennanti (emicriptofite e geofite) o arbusti ed alberi (camefite e
fanerofite). Da segnalare: la biscutella
lyrata (Cruciferae), il lathyrus
odoratus L. (Leguminosae), l’Ononis
oligophilla (Leguminosae); la Pimpinella
anisoides (Umbelliferae); il Tragopogon
porrifolius L. subsp. cupani (Guss.) Pigna; la Crepis vesicaria L. subsp. hyemalis ( Biv.) Babc. (Compositae). Ed
inoltre: l’ Erysimum metlesicsii Polatschek
(Cruciferae), l’ Astragalus huetii
Bunge (Leguminosae), la Lavatera
agrigentina Tineo (Malvacee).
Gli studi sulla confinante Milena hanno portato al seguente censimento
della vegetazione (estensibile ovviamente anche a Racalmuto):
1)
Vegetazione degli ambienti rupestri con queste
presenze: Diplotaxis crassifolia
(Rafin.) DC., Erysimum metlesicsii
Po., Silene fruticosa L., Athamanta sicula L., Sedum dasyphyllum L. Cheilanthes fragrans (L.) Swartz;
2)
Garipa a Thymus
capitatus (L.) Hoffm. et Link con queste presenze: Thymus capitatus, Cistus
Creticus L., Teucrium flavum L., Teucrium fruticans;
3)
Prateria steppica ad Ampelodesmus mauratinicus (Poiret) Dur. et Sch.., con queste
presenze: Ampelodesmos mauritanicus, Anthyllis maura G. Beck, Psoralea
bituminosa L., Kundumannia sicula
(L.) DC, Festuca coerulescens Desf., Hyoseris radiata L., Dactylis hispanica Roth, Brachypodium distachyum (L.) Beauv., Hypochoeris achyrophorus L., Reichardia picroides (L.) Roth, Coronilla
scorpioides Koch, Scorpiurus
muricatus L., Asperula scabra
Presl., Hedysarum spinosissimum L., Urginea maritima (L.) Baker, Convolvulus atltheoides L., Anemone hortensis L., Asparagus acutifolius L., Rubia peregrina L., Dafne gnidium L., Cistus
creticus L.;
4)
Prateria steppica a Lygeum
spartum L., con queste presenze: Lygeum
spartum L., Catananche lutea L., Scabiosa dichotoma Ucria, Daucus aureus Desf., Eringyum dichotomum Desf., Lavatera agrigentina Tin., Ononis oligophylla Te., Aster sorrentinii (Tod.) Lojac.;
5)
Vegetazione ad Arundo
pliniana Turra, con queste presenze: Arundo
pliniana, Cirsium scabrum
(Poiret) Dur. et Barr;
6)
Vegetazione nitrofila e subnitrofila, con queste
presenze: . (durante il periodo estivo-autunnale) Kickxia spuria (L.) Dum. Ssp. Intergrifolia
(Brot.) Fern., Chrozophora tinctoria
(L.) A. Juss., Euphorbia chamaesyce
L., Picris echioides L., Diplotaxis erucoides (L.) DC., Heliotropium europaeum L.,
Sonchus oleraceus L., Chenopodium
opulifolium Schrader, Chenopodium
vulvaria L., Ecballium elaterium
(L.) A. Richard, Solanum nigrum L., Aster squanatus Hieron, Cynodon dactylon (L.) Pers., Polygonum aviculare L., Colvolvulus arvenis L., Delphinium alteratum Sibch. Et Sm., Conyza bonariensis (L.) Con., Ammi visnaga (L.) Lam; (durante quello
invernale primaverile) Calendula arvenis
L. Galactites tomentosa Moene, Centaurea Schouwii, Carlina lanata L., Reichardia
picroides (L.) Roth, Hypochoeris
achryrophorus, Fedia cornucopiae (L.)
Gaerner, Linaria reflexa (L.) Desf., Echium plantaginum L., Borago officinalis L., Cerinthe major L., Lavatera trimestris L., Euphorbia
helioscopia L., Geranium dissectum
L., Hedysarum coronarium L., Hippocrepis unisiliquosa L., Scorpiurus subvillosus L., Lotus ornithopodioides L., Trifolium nigriscens Viv., Trifolium resupinatum L., Trifolium lappaceum, Trifolium squarrosum L., Melilotus infesta Guss., Lathyrus odoratus L. Lathyrus ochrus (L.) DC; (vegetazione infestante il grano) Neslia paniculata (L.) Desv., Torilis nodosa (L.) Gaertner, Carduus pycnocephalus L., Bupleorum lancifolium Hornem, Papaver hybridum L., Ranunculus arvenis L. Bromus rubens; (terofite a ciclo
invernale-primaverile) Legousia falcata
(Ten.) Fritsch, Anacyclus tomentosum
(All.) DC, Rhagadiolus stellatus (L.)
Gaertner, Galium tricornutum Dandy, Ridolfia segetum Moris, Allium nigrum L., Gladiolus italicus Miller, Phalaris
brachystachys Link, Phalaris paradoxa
L., Ornithogalum pyramidale L., Asperula arvenis L., Filago pyramidata L., Euphorbia exigua L., Rapistrum rugosum (L.) ALL., Sinapis arvensis L., Brassica nigra (L.) Koch, Leopoldia comosa (L.) Parl, Scandix pecten.veneris L., Medicago
polymorpha L., Sherardia arvenis L., Lolium
rigidum Gaudin, Sonchus asper
(L.) Hill, Cichorium intibus;
(vegetazione antropogena ai margine delle strade) Chrysanthemum coronarium L. (Crisantemo giallo), Malva nicaeensis All., Anacyclus tomentosum (All.) DC., Hordeum leporinum Link, Notobasis syriaca (L.) Cass., Bromus madritensisi L., Echium plantagineum L., Galactites tomentosa Moench, Erodium malacoides (L.) L’Her., Convolvulus althaeoides L., Beta vulgaris L., Foeniculum vulgare Miller;
7)
Praticelli effimeri a sedum caeruleum L. su gessi, con queste presenze: sedum caeruleum L. (Borracina azzurra), Sedum micranthum Bast., Hypocoeris achyrophorus L., Campanula
erinus L., Poa bullosa L., Valantia muralis L., Trifolium scabrum L., Medicago minima (L.) Bartal., Linum strictum L., Bromus fasciculatus Presl., Trifolium
stellatum L., Stipa capensis
Thunb., Crupina crupinastrum (Moris)
Vis., Vulpia ciliata Dumort, Scilla autumnalis L., Ononis reclinata L., Ononis sieberi Beser? Rumex bucephalophorus L., Arenaria leptoclados Guss., Polygala monspeliaca L. Sideritis romana L.;
8)
Vegetazione
degli ambienti acquatici, con queste presenze: Populus nigra (pioppo nero, ma molto raro), Tamarix africana Poiret, Phragmites
communis Trin. (Cannuccia di palude), Equisetum
telmateja Ehrh., Nasturtium
officinale R. Br., Apium nodiflorum
(L.) Lag., Juncus bofonius.
Va qui annotato che: «purtroppo questa successione di ambienti è ormai in
gran parte alterata e ridotta. Solo qua e là ne rimangono frammenti importanti
e significativi, come avviene per le quattro specie di pini presenti in Sicilia
allo stato spontaneo, di cui non sussistono ormai che esigue colonie: dal pino
laricio (Plinus laricio) sul
massiccio etneo, al pino domestico (Pinus
pinea) sui Monti Peloritani; dal pino marittimo (Pinus noster) di Pantelleria, al pino di Aleppo (Pinus halepensis) delle pendici
dell’altipiano meridionale e di varie isolette circumsiciliane.»
Il pino siciliano è ormai entrato nella più pretenziosa letteratura.
Artefice principale: il pino di Pirandello. E si sa che anche il nostro
Sciascia ebbe a dire la sua; a dire il vero riportando le apprensioni di un
grande entemologo agrario racalmutese Giovanni Liotta, titolare di cattedra
all’Università di Palermo. Sciascia lo ebbe presente nelle sue conversazioni – in articulo mortis – con il defunto
giornalista Domenico Porzio e l’apprezzamento elagiativo, cui certo Sciascia
non indugiava –nel bellissimo libro “Fuoco all’Anima”, purtroppo oggi censurato
dalla famiglia. Lo Scrittore si era rammentato di una notizia sul pino di
Pirandello che stava per morire che gli era stata fornitagli nell’autunno del
1988, quando già il Liotta era dal febbraio “professore di Ia” dell’
Istituto di Entomologia Agraria di Palermo. Il Liotta ci fornisce ora la
versione autentica di quell’episodio [i]
commentando: «Quando riferivo di questa notizia Leonardo Sciascia non annuiva,
non dissentiva, non faceva alcun cenno palese che desse la certezza di un suo
interesse. […] La notizia di mummificare il pino in realtà l’aveva fatto
inorridire. […] Leonardo era fatto così: era un grande, paziente e infaticabile
ascoltatore e quello che ascoltava, lo scremava, lo elaborava e, se necessario,
lo riproponeva sotto una prospettiva di grande interesse.»
Anche Racalmuto ha il suo pino “letterario”: quello della casina di
campagna dei matrona alla Noce. Lo rievoca Sciascia, lo celebra Bufalino ( … mantello verdissimo, sormontato
all’orizzonte da un antico albero solitario …. [i]), ne
coglie l’ineffabile incanto, in un momento di corrusca tempesta, il fotografo
Pietro Tulumello (e qui davvero Sciascia ha malie evocative: un paesaggio del tutto simile all’Amor sacro e all’Amor profano del
Tiziano: e la sera trascorre in esso come una delle tizianesche donne serene ed
opulente … [i]). Noi continuiamo a mirare le
chiomate piante che ancora avvolgono la casina di campagna del Barone
Tulumello, al Cozzo della Loggia, sotto il Serrone. Ma quanto resisteranno?
g) un micro orto botanico per Racalmuto
Auspichiamo che i denudati cozzi attorno alla Fondazione Sciascia
ospitino un micro-orto botanico ove si rinserrino le piante ed i fiori cari a
Sciascia. Come, ad esempio, le magnolie e non tanto per il loro profumo o
perché queste «splendevano … [come] luminose
e profumate donne, di mai più vista bellezza» [i] E si
ricostituiscano le sciasciane “siepi di fichidindia” [i] e non
manchi un tocco rievocativo «dell’intensa coltivazione di alberi di noce» con
«quei grandi alberi che i contadini chiamano di bellu vidiri, con disprezzo: cioè belli a vedersi ma inutili: il
corbezzolo, il caccamo, qualche varietà di ficus. E ci sono gli orti. E queste
sono le oasi, nella gran calura del giorno; né manca, a darne l’illusione, la
palma. La palma de oro y el azul sereno:
e questo verso di Machado, palma d’oro
in campo azzurro, è diventato per me una specie di araldico simbolo del luogo.»
[i] E noi
auspichiamo anche che nell’«orto» sciasciano abbiano rimembrante dimora le
piante, i fiori, le erbe e pure le gramigne di autoctona progenie racalmutese.
Vorrà il chiarissimo prof. Liotta collaborare ad un siffatto progetto? Vi è
contrario il competentissimo dott. Salvo?
Confessiamo di avere avuto un moto di stizza nel leggere alcune notazioni
botaniche del Renda: [i] alcune caratteristiche piante
arboree racalmutesi sono tutt’altro che indigene. «Il limone [già, le Lumie di Sicilia, n.d.r.] – discetta lo
storico – raggiunse la Sicilia e la Spagna nell’alto medioevo, durante il
dominio arabo. L’arancio arrivò più tardi e, a quanto sembra, non ebbe
importanza apprezzabile fino al XV secolo. Gli arabi portarono on Sicilia e in
Spagna anche il mandorlo, la canna da zucchero, la palma e altre specie
esotiche, come il melograno, il melocotogno, il nespolo invernale ecc. Il
processo di riutilizzazione agronomica di queste numerose specie non fu
univoco. Alcune, come l’ulivo e il mandorlo, ebbero incremento notevole. Altre
decaddero e furono abbandonate. Fra queste, sono da ricordare la canna da
zucchero, il riso, il gelso per l’alimentazione del baco da seta, il legno da
bosco, l’allevamento, e poi il lino, la canapa, il cotone, la soda vegetale
ecc. »
Un tempo a Racalmuto si coltivavano cotone, lino, canapa ed altre piante
da vestiario: oggi, culture del genere, sono del tutto ignote. La coltivazione
più estesa è stata sempre quella del grano, di varie specie ivi compresa quella
c.d. tumminìa, alternata alla semina
di avena, orzo e fave nelle annate di riposo. Se già nel XIV secolo Federico
del Carretto operava una sorta di outright
sui futuri raccolti di grano racalmutesi con Mariano Agliata, [i] al tempo
di Filippo II l’approvvigionamento di grano al caricatoio di Girgenti consentì
un proficuo commercio dei baroni del Carretto, che così assurgono al rango di
conti, in quei calamitosi tempi di
guerra mediterranea contro il Turco. E così nel Seicento, quando anche le
Clarisse racalmutesi, amministrate da un prete Traina, possono conferire, a
pagamento, il loro frumento in esubero presso il caricatoio racalmutese.
Oltre alla composizione delle classi sociali racalmutesi (in vetta, tanti
preti), possiamo cogliere tutto un linguaggio estremamente significativo ai
fini della raffigurazione del mondo contadino dell’epoca:
1)
panizzo del popolo;
2)
frumento per simenze in forte
e timilia [o tumminìa], per il fego dell'Aquilìa;
3)
paraspolari e tenetieri;
gabbelloti e societarij;[i]
4)
simenza per soccorso e
per governare le vigne e per mangia
di propria famiglia;
5)
Grillo don Gaetano, come
procuratore del fego delli Gibbillini, territorio di questa, rivela avere nelli
magasini di quel fego s. [salme] 306
ffr. [frumento] raccolto nella XIa
In. 1763 [= 1763, undicesima indizione], quali li bisognano per semene, soccorsi e copertura di detto
fego;
6)
per simenze di forte e
timilia s. [salme] 40 per soccorso di detto seminerio
e sem. [seminerio] di legumi s. 15 e s. 24 per mangia ed impiego di casa;
7)
simenza fumento forte s. 10,
salme 5 per soccorsi di d. sem. [semina], s. 2 per soccorso sem, [semina]
d'orzo, salme 4 per provvedere la vigna, e s. 29 per mangia e commodo di propria
casa;
8)
s. [salme] 55 [di frumento]vendute a questa un.
[università] di Racalmuto per il
pubblico panizzo;
9)
Grillo don Antonio come
Governadore della Segrezia di questa sudetta terra di Racalmuto rivela avere
nelli magazini della Segrezia s. 703 .. quali li bisognano cioè s. 200 vendute
a questa unoversità per il pubblico panizzo ed il resto che sono s. 503 f.f per simenza e soccorsi dello
Stato di Racalmuto;
10) Di Salvo Filippa vid.a
[vedova] del quondam Giuseppe, rivela s. 12 fr.forte [frumento forte] ..
quali li bisognano: s.6 per mangia e s.6 per commodarlo a divere persone;
11) Saldì m.° [mastro]
Paolino, rivela s. 9 ff.f. .. delli quali li bisognano s. 2 per simenza e s. 3
per soccorso di detto sem., sem. d'orzo e ligumi e s. 4 per mangia di
propria casa;
12) Tulumello Calogero rivela s. 110 f.f.te e timilia, delli
quali ff. li bisognano cioè per mangia della mandra [Traina, vocabolario: mandra: luogo ov’è
rinchiusa la freggia] s. 35 ff., p. simenza s. 20, per soccorso di seminerio d'orzo
e ligumi e colture di vigne s. 12 e s. 43 p. commodo e mangia della propria
famiglia;
13) Tulumello Giuseppe, rivela s.70 ..f.fte quali li bisognano
s. 35 per mangia della mandra, s. 16 per simenza, s. 10 per soccorso di detto
simenerio, ligumi ed orzo, e s. 9 per mangia di casa e garzoni;
14) Picone Chiodo Nicolò, rivela s. 42..f .fte [frumento forte]
quali li bisognano s. 12 per simenza, s. 5 per soccorso di d.° sem., s. 3 per
soccorso di sem. di legumi ed orzo s. 3 per governare n.° migliari otto di
vigna e s. 19 compl. delle dette s. 42 per mangia ed agiuto del borgesato;
15) Grillo e Poma Dr. Don Barone Niccolò, rivela s. 132 per
raccolto f.f per 1763, quali f.f. mi bisognano s 35 per simenza, per soccorso di d.° sem.° s. 40 e seminerio
di timilia s. 14 f.f. per sem,° di legumi ed orzi e s. 43 per mangia e impiego
di casa;
16) Scibetta m.° Stefano, rivela s. 160 per raccolto f.f per
1763, delli quali li bisognano s.150 per averle vendute a questa Un.tà [università] per il pubblico panizzo ed il
resto per mangia di propria casa;
17) Lo Brutto Antonino; rivela s. 2.8 per raccolto f.f per
1763, quali f.f. mi bisognano per venderli per sollennizzare la festività di S. M.a del Monte come
Governadore della Confraternità di detta Chiesa;
18) Grillo fra' Antonio Maria, procuratore dello ven. convento
di S. Francesco dei minori conventuali, rivela s. 7,8 per raccolto f.f per
1763, quali ff. li bisognano per mangia dello detto convento;
19) Pirrelli fra' Giacomo Priore del ven. convento di S.
Giovanni di Dio sotto titolo di S. Sebastiano, rivela s. 3. 13 ff. e timilia
per raccolto f.f per 1763, quali li bisognano per mangia di detto convento;
20) Pomo fra' Giuseppe Prc.re del venerabile convento del
Carmine, rivela s. 23 per raccolto f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 10
per simenza, s. 3 soccorso di d. sem. s. 2 per le vigne e s. 8 per mangia
convento;
21) Carretto fra Gaspare pr.re del ven. convento di S. Giuliano
de Padri Agostiniani della congregazione di Sicilia, rivela s. 8 per raccolto
f.f per 1763, delli quali li bisognano s. 2 per governo di un predio di vigna e
s. 6 per mangia.
h) i preti, il grano, il pane
Ed ecco i dati del folto clero:
a)
Grillo sac. d.
Salvadore Maria, rivela s. 160 per raccolto f.f per 1763, delli quali mi
bisognano simenze in ff. s. 24, simenza in similia s. 30 per colti scarsi le
s.te tim. s. 30, per coltura di vigne s. 20, per serviggio della mia casa e
famiglia per mangia s. 16, per due famoli in campagna esistenti di capo d'anno
s. 25 ff., per soccorso ed agiuto a coloro che si devono pigliare a società il
sud. sem. e legumi ed orzo; s. 15 ff: restano per quelle occorrenze che
potranno insorgere;
b)
Grillo sac. d. Giuseppe, rivela s. 20 per raccolto f.f per 1763, delli
quali li bisognano per simenze e soccorso di suo patrimonio e mangia di casa;
c)
Campanella sac. d. Stefano arciprete, rivela s. 100 per raccolto f.f per 1763, i
quali mi bisognano s. 18 per mangia di famiglia, s. 4 per simenze, s. 3 per
soccorso di seminerio di legumi ed orzo e s. 75 quali ho venduto a questa
università comp. di salme 100 per uso del publico panizzo sotto nome di Stefano
di Salvo;
d)
Lauricella
sac. d. Elia, rivela s. 8.8 ff. raccolto XI ind. 1763, delle quali mi
bisognano s. 7 per simenza e mi bisognano salme 10 per mangia almeno di dieci
persone;
e)
Pumo cl. Francesco, rivela s.
otto ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2 ff. per simenza,
soccorso s. 2, il resto s. 4 comp. di dette s. 8 per mangia di casa;
f)
Borzellino sac. d.
Mario, rivela s. 5 ff. raccolto XI ind.
1763, delli quali li bisognano per mangia di casa;
g)
Conti sac. d. Gerolamo, rivela s. 26 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali li bisognano s. 8 ff. per simenza,
s. 7 per soccorso di d.° sem.° e sem.° di legumi ed orzi e governare due
possessioni di vigna proprie, s. 11 p. mangia e commodo proprio;
h)
Crinò diacono d. Filippo, rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, quali li servino per mangia di casa;
i)
La Matina sac. d. Gaspare, rivela s. 7 ff. raccolto XI ind. 1763, delli
quali mi bisognano s. 3 ff. per simenza, e s. 4
per mangia di casa;
j)
Farrauto sac. d. Santo, rivela s. 200 ff. raccolto XI ind. 1763,
delli quali mi bisognano s. 100 ff. vendute al publico panizzo di questa, s. 80
obligate al caricatore di Girgenti, s. 20 per mangia e simenze di proprie chiuse;
k)
D'Amico sac. d.
Antonino, rivela s. 8 ff. raccolto XI ind.
1763, delli quali di deducano s. 3 a ragione di processione del SS.mo
Sacramento e s. 5.8 per mangia;
l)
Savatteri sac. d.
Michel'Angelo, rivela s. 21 ff. raccolto
XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 2.8 ff. per simenza, s. 5 per
soccorso di detto sem.° e sem.° di legumi ed orzo, s. 4 dati in accodo e s. 10 per mangia e commodo
di casa;
m)
Scibetta e Franco sac. d.
Giuseppe, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 4
ff. per simenza, s. 2 per soccorso di detto sem.° e s. 2 persem.° di legumi, s.
8 per lo soccors o di un predio di vigne
e s. 14 p. mangia e commodo;
n)
Picone sac. d. Ignazio,
rivela s. 4 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per
simenza, s. 1 per soccorso e s. 2, comp.
di d. s. 4 per mangia di casa;
o)
Sferrazza sac. d. Filippo, rivela s. 3 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1 ff. per simenza, s. 0.8
per soccorso e s. 1.8 per mangia propria;
p)
Mantione sac. d. Baldassare,
rivela s. 2 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano per mangia di casa;
q)
Mantione sac. d. Antonino,
rivela s. 27.10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 7.8 ff.
per simenza, s. 5 per soccorso di detto
seminerio e socc. sem. d'orzo e legumi, s. 3 per governare le vigne e s. 12.2.
per mangia di casa;
r)
Pitrozzella sac. d.
Baldassare, rivela s. 10 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s.
8 ff. per simenza, s. 4 per coltura di detto seminerio;
s)
Montagna diacono d. Onofrio,
rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 3 ff. per
simenza, s. 1.8 per soccorso e s. 1.9.
per mangia di casa;
t)
Baeri sac. d. Ignazio, rivela
s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763, quali
li bisognano . per mangia di casa;
u)
Baeri sac. d. Casimiro,
rivela s.2 ff. raccolto XI ind. 1763,
quali li bisognano per mangia;
v)
Nalbone sac. d. Benedetto,
rivela s. 360 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per
simenza, s. 2 per soccorso, s. 3 soccorso per il seminerio di legumi, s. 20 per
mangia, s. 2 per soccorso delle vigne e s. 250 obbligate a q. un. [questa
università] per pubblico panizzo e s.78
commodate;
w)
Fucà diacono d. Giuliano,
rivela s. 1 ff. raccolto XI ind. 1763,
quali li bisognano per mangia;
x)
Fucà sac. d. Pasquale, rivela
s. 1 ff. raccolto XI ind. 1763, quali mi
bisognano per mangia;
y)
La Matina sac. d. Pietro,
rivela s.13 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 5 ff. per
simenza, s. 2 per soccorso e s. 6 per
mangia;
z)
Avarello sac. d. Alberto, rivela s. 75.11.2 ff. raccolto XI
ind. 1763, delli quali s. 10 ff. per simenza, soccorso si d. sem.° s. 8, soccorso sem.° di legumi s. 8 e s. 49.11.2
per mangia ed impiego di mia casa;
aa)
Busuito sac. d. Antonino,
rivela s. 6 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali mi bisognano s. 1.4 ff. per
simenza, s. 2 per soccorso sem.° di
legumi e s. 1 soccorso di d.° sem.° di forte e per governare le vigne ed il
resto. per mangia;
bb) Scibetta ed Alfano sac.d . Giuseppe, rivela s. 70 ff.
raccolto XI ind. 1763, delli quali 40 vendute a questa un. per publ. panizzo,
s. 6 per simenza e il restante per mangia di mia famiglia, soccorso delli
metatieri di legumi ed orzo e p. migliari dieci di vigna e più per fare
l'arbitrio di campagna;
cc)
Farrauto sac. d. Saverio,
rivela s. 0.8 ff. raccolto XI ind. 1763,
quali mi servono per mangia;
dd) Biondi sac. d. Baldassare, rivela s. 4 ff. raccolto XI ind.
1763, delli quali li servono per mangia;
ee)
Alfano sac. d.
Filippo, rivela s. 30 ff. raccolto XI ind. 1763, delli quali li bisognano s. 4
ff. per simenza, s. 7 per soccorso di d.° semin.° e sem,° di legumi e governare
la vigna.
Nel mezzo del ‘700, a Racalmuto, dunque,
occorrevano 4.346 salme di frumento per la “mangia” dell’intera popolazione
che, secondo “la numerazione delle anime” del quale si custodisce in quel
mirabile scrigno (purtroppo in gran dispitto alle locali autorità) che è
l’archivio della Matrice, ascendeva a circa 5.800 anime sotto n. 1537
capi-famiglia. [i] Il panizzo
pubblico richiedeva qualcosa come 1.195 salme di frumento, il che significa che
oltre l’78% delle famiglie non aveva grano proprio bastevole per sostentare il
proprio gruppo familiare e doveva far ricorso al pubblico “panizzo”. Solo 126
possidenti potevano considerarsi autosufficienti, ivi compresi i quattro
conventi ancora aperti, ed i 31 ecclesiastici (preti e diaconi) che
costituivano il 2% dei “fuochi” racalmutesi del ‘700. Non disponiamo,
purtroppo, notizie sul frumento che, finito nei pubblici caricatoi, emigrava
per esportazioni o per le cosiddette “tratte” che per secoli avevano foraggiato
il “biscotto” degli eserciti spagnoli.
i) i vigneti.
Ma non tutte le terre erano destinate al
frumento. da un rollo della Confraternita di Santa Maria (dedita alla buona
morte, e si sa che il culto dei trapassati è stato da tempo un buon affare a
Racalmuto) abbiamo potuto enucleare qualcosa come 102 vigneti di varia
dimensione, con vette di 18.000 viti che i fratelli Taibi vantavano in località
Montagna, dislocati pressoché dappertutto, e coltivati in vario modo: “vinea de
aratro” (come dire che fra vite e vite si poteva arare e quindi coltivare
frumento o legumi o altro); “vinea cum suis arboribus” (la vigna alberata era
consueta a Racalmuto, almeno fino a quando non ebbe a prendere piede quella a
tettoia, ultimamente coperta con teli di plastica, in modo anche osceno); “vinea
arborata com eius clausura” (una bella vigna alberata in mezzo a chiuse di
terre da pane); “vinea cum eius
clausuris, arboribus et domo” (una spaziosa “robba” con vigneti, frutteti e
campi di grano); “clausura cum domibus, aqua, terris scapulis et arboribus et
aliis” (era la “chiusa” che il potente e ricco Giovanni Amella possedeva nel
feudo di Gibillini, a confine con il vigneto di suo fratello Giovanni, con
quello di Pietro Salvo e con il vigneto di Antonino Gugliata).
I vigniti, sparsi un po’ ovunque, si palesano però più insensivi a
Garamoli, in contrada Montagna, a Bovo, alla Noce, alla Menta, al Rovetto, a
casali Vecchio, a Culmitella, al Serrone; in varie località che in quel tempo
facevano parte del feudo di Gibillini, come dire i versanti di Monte
Castelluccio; in talune contrade oggi di incerta, e talora ormai dimenticata,
ubicazione quali: Bigini, Gazzelle,
Granci, Malvagia, Manchi, Pidocchio, Sambuchi, Stalluneri, Santa
Domenica; e non mancavano vigneti neppure nella parte Nord, a cavalcioni del
vallone oggi così desolato, come ci testimoniano i dati relativi a Donna Fala o
a Quattro Finaiti.
Integrando i dati con quelli che appaiono da un altro “rollo” – sempre
custodito in Matrice – abbiamo, infatti, vigneti – oltre alle località citate –
in contrade quali: Carcarazzo, Pernice, Muscamenti, Cannatone, per non parlare
del Ferraro, dei Malati, del Saracino, Sant’Anna, San Giuliano, Rocca Russa,
Canalotto, Muccio, Giardinello (feudo di Gibillini), Corbo, Petravella, Cozzo
della Pergola, Santa Maria di Gesù, Marcianti (feudo di Gibillini), Vella del
Corbo, Arena, Muccio (feudo di Gibillini), Lago (feudo di Gibillini),
Scifitello, Castilluzzo (feudo di Gibillini), Carmelo.
l) il sommacco.
Una piantagione, che se pur tarda è comunque attestata da documenti del
XVII secolo, è quella del sommacco: serviva per la concia delle pelli e quindi,
allignando nei costoni rocciosi, ebbe a propagarsi in quelle zone impervie con
intensità tale che ancor oggi – seppure ormai quasi inutilizzata – non si
riesce ad estirpare. La solita Matrice ci fornisce dati d’archivio: è del 1685
questo documento che attiene ad una ipoteca :
Item in et super
salma una et tumulis octo terrarum cum eius vinea et summacio intus et torculare
sitis et positis in dicto pheudo et in contrata Bovi secus vineam Francisci de
Poma Agostini et secus contrata dello Corbo et alios confines.
Apparteneva ad una famiglia ancor oggi in auge: al sacerdote don Pietro
Casuccio ed al fratello Nicolò. E certo, di sommacco ebbe bisogno il padre del
“nonno del nonno” di Leonardo Sciascia – che, diversamente da quanto asserisce
in Occhio di Capra lo Scrittore, era
racalmutese puro sangue. Mastro Leonardo Sciascia s’induceva il 22 aprile del
1768 a fare società con mastro Carmelo Bellavia e con mastro Giuseppe Alfano, a
suo volta associato con mastro Pietro Picone.
l) gli alberi da frutta
Gli alberi da frutta, che un tempo dovevano essere molto
diffusi, furono drasticamente ridimensionati quando i sabaudi, gli austriaci ed
i Borboni ebbero l’infelice idea di tassari in modo capitario.
La rarefazione degli alberi da frutta si coglie benissimo nel
rivelo che il convento degli agostiniani fa agli atti del notaio Michelangelo
Savatteri, il 10 maggio 1754. [i] Il
convento – ove da giovane divenne
diacono fra Diego La Matina - è ancora aperto, ad onta dei divieti papali, ed è
davvero prospero. Eppure, si guardi come sono esigue e ristrette le specie di
alberi da frutta:
«Beni stabili rusticani
Possiede questo
venerabile convento salma 1 e tumoli 8 di terre, atte a giardino secco, in
questo stato, contrata S. Giuliano, confinante con il detto venerabile convento
e via pubblica di tutti i lati, che secondo l'estimo dell'esperto di questa
terra ragionati ad onze 120 per salma, sono di valore cento ottanta onze, o. 180;
Item in dette terre vi esisteno
alberi di diverse sorti, cioè mandorle
n.° 70 a tt. 6 per uno sono di valore onze 12 che secondo l'estimo dell'esperto
d.o, fanno o. 12
Alberi di olive n. 12 a tt. 6 per uno sono di valore onze quattro secondo
l'estimo dell' esperto ;
Alberi di pruni [albero che fa le
susine = Prunus domestica culta L., v. Traina] di tutta sorte n.° 200 a tt. 8
per ogn'uno secondo l'estimo dell'esperto;
Alberi di peri n.° 15 secondo l'estimo
dell'esperto ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze;
Alberi di fastuche [ pistacchio =
Pistacium L.) n. 8 che secondo l'estimo
dell'esperto a tt. 15 per uno sono di valore onze 4;
Alberi di noci n. 2 secondo l'estimo dell'esperto unza una per uno sono onze
due;
Alberi di pomi [pyrus malus L., probabilmente compresi gli alberi di
“cutugna”, cotogno, Pyrus cydonia L.] n.° 6 ragionati secondo l'estimo
dell'esperto a tt. tre per uno sono di valore tt. deciotto;
Alberi di granati [melograno, Punica granatum L. Denominato dalla città
spagnola, a memoria dell’importazione araba] n.° venti secondo l'estimo
dell'esperto a tt. 3 per uno sono di valore onze due;
Alberi di fichi n.° 15 secondo l'estimo dell'esperto a tt. 4 per uno sono di
valore onze due.»
Mancano aranci e mandarini ed anche limoni. Mancano: gelsi, sorbi,
peschi, nespoli, ciliegi ed altre specie oggi piuttosto ricorrenti nelle
campagne di Racalmuto. Notisi la prevalenza dei frutti invernali. Quanto al
valore, questa la gerarchia: noce (un’onza ad albero); pistacchio (15 tarì ad
albero); pruni (tarì 8 ad albero), nonché mandorli, ulivi e peri (tutti sollo
stesso standard di 6 tarì ad albero) e, quindi, gli alberi di fico (4 tarì ad
albero), i melograni con i pomi a soli 3 tarì ad albero. Si tace sui
fichidindia che dovevano pur esserci.
m)
le risorse agricole degli agostiniani di S. Giuliano.
Il documento ci pare perspicuo anche per quest’altri rilievi
agrari:
«Possiede pure detto venerabile convento, in detto stato
contrada Barona, salma una e mondelli due di terre scapoli per uso di
seminerio, confinante con Carlo Barone, e via publica, che secondo l'estimo
dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento trenta cinque
onze ...... -/ 135.
Possiede più detto venerabile
convento tumoli 12 di terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli
Gibillini Contrata Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto,
ed altri, e via publica, che secondo l'estimo
Possiede pure detto venerabile
convento in detto stato mcontrada Barona salma una, e mondelli due di terre
scapoli per uso di seminerio confinante con Carlo Barone, e via publica, che
secondo l'estimo dell'esperto ragionati ad onze 120 salma sono di valore cento
trenta cinque onze ...... -/ 135
Possiede più detto venerabile
convento tumoli 12 di terre occupate da n.° migliara 8 di vigne nel feudo delli
Gibillini Contrata Ferraro confinante con vigne di Santo Diana, Nicolò Curto,
ed altri, e via publica, che secondo l'estimo dell'esperto ragionate ad onze 12
per migliaro sono di valore onze novantasei e tarì 10 ....................-/
125.10.
In dette vigne esiste il Palmento
per commodo della vendemmia e con altre due case di abitazione terrane e cioè
una entrata, e l'altra paglialora, e due camere di sopra, che secondo l'estimo
dell'esperto di questa sono di valore onze trenta
................................................................... -/ 30
In dette vigne vi sono n.° trenta
quattro alberi di mandorle, peri, fiche, ed olive, che secondo l'estimo
dell'esperto di questa ragionati a tt. 6 per uno sono di valore onze se, e tarì
venti quattro
.........................................................................................................................
-/ 6.24.
Possiede di più detto venerabile
convento tumoli 8 di terre atte a seminerio confinanti coll'istesse vigne di
sopra ad onze 64. salma secondo l'estimo dell'esperto importa trentadue onze ..
-/ 32
In dette terre vi esiste fiumara con sua
acqua sorgente in n.° 100 alberi di Pioppo che prezzati
secondo l'estimo dell'esperto a tt.
8, grana uno, sono di valore onze quattordici e tarì 20 ..-/14.20»
Lo spaccato contadino del mondo racalmutese settecentesco si tinge anche
di questo tratto non proprio edificante. I ricchissimi frati di San Giuliano si
danno alla questua lungo le campagne ed ottengono dai devoti villici questi
tutt’altro che trascurabili “introiti spirituali”:
«Introito Spirituale
In primis salme 10 formenti
provenuti per questua ragionati a tt. 40 salma importa ...............-/ 3
E più salmi 6 orzi a tt. 24 salma
provenuti per questua importa
............................................. -/ 4
E più salmi 4 fave provenute per
questua ragionati a tt. 24 salma importa .............................. -/ 3
E più salme due lenti[cchie]
provenuti per questua a tt. 42 salma importa ....……................... -/ 2
E più salma 1 ceci provenuti per
questua ragionati ad -/1.26 salma importa
.................. -/1.26
E più botte sei musto ragionate a
onze 1.7 botte
.................................................................-/ 6»
I frati questuanti portano nelle stive del convento «formenti, orze,
fave, lenticchie e ceci». Il Borbone, da Napoli, insensibile a cosiffatte
devozioni, tassa.
Il convento di S. Giuliano ha pure il problema della gesione
delle vigne site al Ferraro: ecco come denuncia il «Prodotto delle vigne di Gibillini»: sono
vigne «date a società, franche d'ogni spesa, un anno per l'altro, [per un
valore di] botte 4 di vino-mosto, ragionate per onze 3,3 per botte.»
Restiamo colpiti da quel pioppeto di 100 albero lungo la “fiumara”
del Ferraro. Oggi, nessuna traccia è più lì rinvenibile, né di pioppi, né di
acque fluenti. Il pioppo, come i tanti
canneti di cui parlano le fonti, erano indispensabili nelle costruzioni edili.
Due grossi volumi contabili denominati “libri della fabrica” sono consultabili
in Matrice ai fini dell’inveramento della costruzione della nostra chiesa
madre, sempre che si abbia voglia di discostarsi delle letterarie attribuzioni
di Sciascia ad un prete in alumbramiento. Nel Seicento si faceva ricorso al pioppetto
di Garamoli. Era difficoltoso ed il trasporto costava. Lo sfruttamento di
facchini era comunque possibile: bastava dar loro “salsicce e vino”. A
comprova, citiamo: «il 22 dicembre del 1658 si pagavano mastro di Napoli e suo
figlio «per havere andato in Garomoli per sbarrare li travetti et n° 3 burduna
che mancano al complimento della nave [della Matrice] ed in più per havere
fatto portare dui carichi di travetti di Garamoli.» Occorrono 20 tarì «per havere fatto venire dui burduna da
Garamoli e più per pani, salzizza e vino a vinti homini che uscirono detti
burduna dentro la fiumana e ni portaro uno a 2 dicembre alli detti Gueli et
Napoli e suo figlio per intravettare e pulire la travetta.» Le tre attuali
navate della Matrice furono dunque intravettate con legname di Garamoli nel
dicembre del 1658, quando don Santo d’Agrò – il prete alumbriato da Sciascia - era
morto da 21 anni (risulta, appunto tumulato, nella parte allora esistente della
Matrice, sotto l’altare della Maddalena il 22 luglio 1637).
I pioppi degli agostiniani del Ferraro non dovevano essere
dissimili da quelli di Garamoli, e del tutto uguali a quelli – radi – che
ancora resistono nello zubbio sotto Fra Diego. Questa è almeno la tesi dei
grandi naturalisti racalmutesi che abbiamo interpellato.
Rintracciato via E-Mail il mio compagno di liceo prof.
Giovanni Liotta, lo apostrofai nel dicembre del 1999 in questi termini:
A Garamoli,
dunque, v’era nel 1658 una “fiumana” ove impenetrabilmente prosperava un bosco
di alberi ad alto fusto che all’occorrenza venivano utilizzati per fare dei
“burdana” per il tetto delle chiese. Qui si tratta della nostra matrice (ovvio
che quella di cui parla Sciascia fatta a spese di un prete, l’Agrò, in vena di
alumbriamento, non esiste). Di che tipo erano quegli alberi? Ha ragione il
dott. Salvo che li vuole della famiglia populus
alba? Si potrebbe pensare ad una colonia di pioppi neri (p.
nigra)? O ad altre specie di alberi
ad alto fusto? Perché sono spariti?
E prontamente – e tanto simpaticamente, quanto gentilmente –
il grande entomologo mi precisava:
Quanto alle
piante che vivevano e ancora vivono ai bordi del canale per lo smaltimento
dell'acqua della sorgente, credo, come Salvo, che debbano essere attribuite
alla specie Populus alba, (il pioppo
più comune della zona).
Ma noi continuiamo a sperare che i citati esperti racalmutesi ci
forniscano risultati di appositi studi: Racalmuto li merita.
n) La fauna
Così come a Milena, anche a Racalmuto, la fauna che circolava dal
Neolitico al periodo tardo romano era sostanzialmente costituita dagli
ovicaprini (si calcola sul 46,75%), dai bovini (sul 20,19%) e sui maiali
(intorno al 19,57%) [i] Anche a Racalmuto ebbe a
pascolare il cervo e seppure rade non mancarono la volpe, la lepre ed il
cinghiale.
Ci pare pertinente pure ai nostri siti questo passaggio del lavoro della
Wilkens: «Oltre ai resti di mammiferi sono stati identificati anche alcuni
molluschi marini (Murex trunculus,
Glycymeris sp., Glycymeris
violacescens), marini fossili (Dentalium
sp.) e terrestri (Rumina decollata, Helix aspersa, Eobania vermiculata, Leucochroa
candidissima). Mentre è probabile che le conchiglie marine, compreso il Dentalium fossile, venissero utilizzate
a scopo ornamentale, la presenza di molluschi terrestri può essere causale,
dato che non sono stati trovati in numero tale da far supporre un loro uso
alimentare.»
Nell’Eneolitico, in zona Rocca Aquilia così prossima alla contrada
Marchesa di Racalmuto, «la percentuale degli ovicaprini è molto alta,
raggiungendo il 71,55%. [..…]La caccia ha un interesse molto limitato con il
3,44% e due sole specie: il cervo e la volpe. […]Tra gli ovicaprini prevale nettamente la pecora, essendo la
capra rappresentata solo da un frontale femminile con cavicchie.»
Risale al Bronzo antico l’utilizzo certo di bovini come animali da
lavoro. Non mancava il cane. Nel Bronzo medio, i maiali tra uno e due anni
venivano utilizzati per la macellazione. Per le pecore «le macellazioni
avvenivano alla nascita, a 3/5 mesi e a 8/9 mesi nei giovani, si hanno resti di
subadulti di 18/24 mesi e di adulti di età media ed avanzata. Si aveva quindi
uno sfruttamento di tutte le possibilità del gregge: latte, carne e lana.» «I
resti di cane sono scarsi e comprendono la mandibola di un giovane compresa tra
uno e quattro mesi. Gli altri frammenti appartengono ad adulti di piccola
taglia. Tra le specie selvatiche sono stati identificati la volpe, il
cinghiale, il cervo e la tartaruga.»
Verso la fine dell’età del Bronzo, la commestione del cane risulta con
certezza: «una mandibola di cane con denti regolari denota la presenza di un
individuo a muso lungo, mentre un frammento di femore con graffi di
scarnificazione sul lato ventrale in prossimità dell’epifisi distale, indica
che anche i cani venivano utilizzati nell’alimentazione.»
Estendiamo a Racalmuto queste importanti “interpretazioni e confronti”
della Wilkens: «Nell’economia di questa area la caccia ha sempre avuto
un’importanza secondaria e solo nel Neolitico di Mandria i resti di animali
selvatici raggiungono una percentuale significativa (11,72%). La tendenza verso
un allevamento misto con forte importanza della pastorizia affiancata da buone
percentuali di bovini e maiali è evidente dall’esame del materiale neolitico. I
bovini sembrano in questa fase destinati essenzialmente alla produzione di
carne e latte, mentre negli ovicaprini, che in tutti i periodi sono costituiti
in massima parte da ovini, sembra prevalere l’interesse per la lana e il latte
rispetto a quello per la carne. […] Nell’Eneolitico si accentua la tendenza
verso la pastorizia a danno principalmente dell’allevamento dei maiali. […]
Negli strati più recenti di Serra del Palco … è presente il cavallo.»
Il cavallo pare che sia giunto tardi in queste zone: «Il cavallo,
identificato solo in livelli di età storica, raggiunge a Rocca Amorella
un’altezza di mm. 1316. Si tratta quindi di un individuo di taglia media. I
resti di asino sembrano invece da attribuire ad animali di piccola taglia.»
In definitiva, «tra gli animali selvatici si nota una certa varietà di
specie nel Neolitico (volpe, lepre, cinghiale e cervo). […] Solo il cervo si
trova con regolarità in quasi tutte le fasi. E’ da notare il tasso nel Bronzo
tardo di Serra del Palco. […] Il daino è presente solo a Rocca Amorella.» Non
mancava il gatto.
In millenni di attività venatoria e di braccognaggio, la facies faunistica di Racalmuto è
radicalmente cambiata. Naturalmente vi ha contribuito l’antropica modificazione
della locale vegetazione. Il degrado degli ambienti per il dissennato utilizzo
di fitofarmaci è stato spesso esiziale. Vi si aggiunga la vulnerazione che le
tante strade hanno determinato nell’ecosistema del territorio..
Resiste, comunque, nella zona la Volpe (Vulpes vulpes crucigera Bech.), avente pelliccia rossastra sul capo
e sul tronco e grigia sulle parti inferiori. Vive in genere tra le sterpaglie
dei campi o trale balze rocciose (come nella cava di Fulvio Russo, al
Serrone). Pare che non sia del tutto
scomparso il Gatto selvatico (Felis
silvestris Schreb.). Tra i roditori sopravvive l’Istrice (Hystrix cristata cristata L.). Pure
ancora presente il Riccio (Erinaceus
europaeus consolei Barr. – Ham.), un insettivoro dal capo largo e con il
muso appuntito. Tutte le parti superiori del corpo sono ricoperte, dalla fronte
alla coda, da aculei di due o tre centimetri di lunghezza. Lepri e conigli non
mancano, anche se ormai non più indigeni, ma provenienti dai paesi slavi ed
immessi nel territorio per ripopolamento, purtroppo senza avvedutezza
veterinaria, e quindi, non di rado, infetti e contagiosi. Lepre comune (Lepus europaeus corsicanus De Wint) e
coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus
huxleyi Haeck.) sono per ora preda -
al Castelluccio, al Serrone, alla Pernice, persino sotto le varie “robbe” di
campagna – di quella fosca genia dei cacciatori locali, per fortuna in via di
estinzione.
Sembrano tornare a volteggiare sulle lande racalmutesi gli antichi
rapaci. Consueti i rapaci notturni quali: il Barbaggianni (Tyto alba Scopp.), dal piumaggio biancastro nella parte inferiore
del corpo e rossastro nella parte superiore, con disco facciale a forma di
cuore in cui sono inseriti occhi relativamente piccoli di colore oscuro, la
Civetta (Athene noctua Scop.) – e
pensiamo al Giorno della Civetta di Sciascia – piumaggio grigio marrone, attiva
nel crepuscolo e nelle prime ore dell’alba, divoratrice di insetti e predatrice
di topi e uccelli di piccole dimensioni. E, poi, il Gufo comune (Asio otus L.) e l’Allocco (Strix aluco L.). A noi fa ancora effetto
l’ansimante gridio dello Jacobbu (strix bubo L.), quando, dopo l’estivo
imbrunire al Serrone, sfreccia invisibile tra i vigneti. E quasi umano è il
richiamo dei piccoli che, sempre al Serrone, la volpe reitera divagando ora qui
ora là nella notturna pastura.
Corvi, cornacchie, gazze, storni, cardellini, fringuelli, allodole,
capinere, tordi, merli, rondini, pettirossi, sono uccelli passeriformi o ancora
non estinti o in fase di piacevole ritorno. L’upupa, ma anche il piccione
selvatico, la tortora, la quaglia, la coturnice di Sicilia allietano ancora i
nostri campi. Rettili, di solito innocui (i familiari scursuna) continuano, in primavera, a spogliarsi delle loro lunghe
squame sui campi, sempreché non uccisi prima dalla superstizioso e biblico
ribrezzo dei contadini nostrani. Lucertole a iosa: dalla Podarcis wagleriana (Gist.) alla comunissima Podacis sicula sicula (Raf.). Sui muri delle case e sulle rocce due
specie di gechi, grandi divoratori di insetti: la Tarentola mauritanica (L.) e l’Hemidactylus turcicus (L.)
E che dire delle lumache: a Racarmutu
aviemmu li babbaluciara, diceva un’ingenua canzone popolare. Babbalucieddi, babbaluci, iudisca e muntuna,
termini familiari a tutti i racalmutesi. Proverbi:
-
Sparaci,
babbaluci e fungi/spienni dinari assà e nenti mangi;
-
Quannu la sorti
nun ti dici,/jettati nterra e cuogli babbaluci;
-
Cu va a sparaci
mangia ligna,/ cu va a babbaluci mangia
corna;
Sciascia, nel suo Occhio di Capra, sapidamente catoneggia sui
detti popolari racalmutesi sulle lumache, a proposito dello sfortunato cui non
resta altro che buttarsi a terra a raccogliere “babbaluci” (v. pag. 113). E la
zoologia sciasciana di Occhio di capra,
oltre allo stesso titolo si estende a questi proverbi:
-
a cuda di surci, per gli amori finiti, a coda di
sorcio, nella noia; (p. 22);
-
a li piedi di lu cavaddru, ( … «nel mondo contadino che io
conobbi non era animale amato: più delicata del mulo e di minor rendimento,
bizzoso, imprevedibile, capace di fughe da una campagna all’altra» …) e cioè
quando si è «senza rimedio: ad aspettare il colpo dello zoccolo» (p. 26);
-
a piedi d’agnieddru, «si dice del naso alla francese»
(p.29);
-
culuri di cani ca curri, «colore indefinibile» (p. 58);
-
e iddu pirchì sceccu si fici? «quasi che l’asino avesse scelto di
fare l’asino così come un uomo sceglie un mestiere, una professione.» (p.67);
-
e lu cuccu ci dissi a li cuccuotti/ a
lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti, «chiarchiaru .. pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli
notturni, di serpi; e vi si caccia col furetto, che spesso nelle tane resta ‘mpintu, impigliato, quasi il labirinto
dei cunicoli fosse matassa che l’aggroviglia. … Come dire agli inferi, a un
luogo di morte in cui tutti ci incontreremo. E senza dubbio vi agisce la
memoria delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al
paese se ne trovano.» (pp-67-68);
-
lu cani di don Miliu – lu cani di
Pinu lu crastu di Pasqua – lu curnutu a lu so paisi, lu sceccu unni va va – lu
pisci di lu mari/ è distinatu cu si l’havi a mangiari – lu puorcu all’organu –
lu sceccu di Silivestru – lu sceccu
zuoppu si godi la via/ la megliu giuvintù a la Vicaria (pp. 83-88);
-
‘mmucca a un cani, modo scherzoso per non dare
risposta a chi vuol sapere ove travasi qualcuno ( 94).
L’animale domestico, in una società perennemente contadina come è stata
sinora quella racalmutese, ha avuto ovviamente ruoli primari nella nutrizione,
nell’ausilio nei lavori agricoli, nella caccia, nei trasporti, nello scambio e
persino nei passatempi. Gli atti notarili del Cinquecento, del Seicento, del
Settecento pullulano di contratti di compravendita di muli e giumente, di ginizze e buoi, di asine e pecore e
capre. Un carro trainato dai buoi è quello che portò a Racalmuto la Bedda Matri di lu Munti, secondo
l’ingenua iconografia settecentesca che dell’ex voto affisso nella parete destra del Santuario del Monte. E a
fine Maggio, in prossimità dei grandi lavori
estivi nelle campagne, c’era la rinomata fiera del bestiame di
Racalmuto. Ancora in Matrice – ormai piuttosto defilato – si onora S.Antonio,
cui s’intestava nell’antichità la chiesa arcipretale che era particolarmente
venerato per la protezione che accordava agli animali. Ancor oggi, il 13
giugno, una messa a S. Antonio, propiziatrice di favori celesti per la
salvaguardia del locale bestiame, viene recitata, con devozione e
partecipazione del residuale mondo agricolo. Cavalli e muli bardati, salgono
tuttora la scalinata del Monte, a portare “prommisioni” in frumento. Prima
entravano in chiesa: poi, p. Farrauto ed il vescovo Peruzzo interdissero quella
devota tradizione.
Una terminologia sempre più in disuso entrava persino
nei rogiti: “un mulu di pilu baiu”; una jnizza;
in primis, due muli uno maschio di pilo baio castano et l’altra femina di pilo
bajo;
dui muli maschi, di cojo di pilo morello, marcati allo collo e spalla
destr; un cavallo di pilo sauro, con merco [contrassegno] tundo alla coscia
sinistra con la coruna; un cavallo maurello forzato di bianco con una stilla in
fronte bianca; cavallo stornello con l’armi della razza alla coscia sinistra;
cavallo stornello, muzzo senza grigni [criniera], e senza merco; cavallo
argentino mercato alla coscia sinistra della razza; cavallo bajo, rotato,
facciolo, con tutti li quattro piedi bianchi mercato alla coscia
sinistra della razza; Un maccio [mulo] grande morello mercato allo collo della
razza del Re; una fuschetta falba che dona al scuro; un cavallo bajo chiaro
causolo di tutti li piedi faciolo con un cerro di capilli bianchi sopra la
gregna; dui giumenti di cocchio affrisciunati baj, una delli quali ha lu pedi
darreri malato.
Item uno scavo
masculo chiamato Mustafà di Scandaria, moro di figlio di Abitelle, di comune
statura, brunetto, mustazzi nigri, di età di anni 27 in circa; item un altro
scavo nomine Angelo di Zagaro figlio di Fideli turco, al presente battizzato di
età di anni 18, sbarbato, pocho mustazzi;
un altro scavo nomine Alì, moro, figlio di Solomina, bono, d’età d’anni
quaranta, commune statura, olivastro, barba castagna con alcuni pili bianchi; item un altro scavo nome Alì,
turco figlio di Acudì. di paese di Romania, di età d’anni 35, buona statura,
barba e mustazzi castagnoli; uno scavo d’età d’anni .
. . in circa nome Odeo Fazz.l di
Bona, figlio di Fuit, mor; item una scava nome Aramundi di Zaffi di anni
quaranta in circa, bona statura, capilli nigri con alcuni signi al
barbarozzo; un’altra scavotta d’età
d’anni dieci nome Naclara figlia di Alburascar di Bona, moro; item un’altra
scava nome Fileze di detta Bona, matre di detto Nazar d’età d’anni quaranta in
circa, figlia d’Alì capilli nigri, mercata a la frunti e barbarozzo con alcuni
stizzi azoli.
Presso la Chiesa Madre abbiamo rinvenuto quest’accenno ad una compera di
buoi, da servire per il trasposto dal favarese feudo di S. Benedetto di colonne
per l’edificanda Matrice nel 1655:
A Giulio Pisano onze
vinti e tt.rì undici, quali si ci hanno pagato per havere andato alla città
della Licata con Stefano Garlisi et alli feghi attorno per cumprare altri
boi di carrozza per portare le colonne della d.a fabrica…
|
Da un rivelo del 1658 è possibile trarre un quadro dei
possessori di bestie da soma in quel di Racalmuto. Molto attendibile per motivi
fiscali:
·
il
numero dei fuochi era di 1239 per 5.165 ;
·
in
paese vi erano 52 cavalli;
·
le
giumente, invece, in minor numero, appena 38;
·
i
buoi, 218 a testimonianza del fervore dei lavori agricoli;
·
le
“vacche di aratro”, n.° 191.
Pecore e capre non vennero conteggiate; e crediamo anche gli
asini.
Asini e muli s’intensificarono nell’Ottocento con
l’esplosione delle miniere di zolfo. Fu il tempo dei “vurdunara”. Scrive
Francesco Renda, nel libro di storia che abbiamo citato (p. 118): «Il solo
trasporto dello zolfo […] fino alla vigilia dell’unità richiese l’impiego di 3.000
uomini e di 10.000 muli, una vera e propria armata in permanente stato di
mobilitazione.» Fino all’entrata degli americani, nel 1943, la teoria di asini
con il loro carico di “balate” di zolfo era consueto per le trazzere che da
Quattro Finaiti, Cozzo Tondo e dintorni si portavano alla stazione ferroviaria.
Noi ne abbiamo ancora vivo il ricordo. E l’afrore delle urine che stagnavano
nelle solite pozzanghere è rimasto memorabile: già, l’asino doveva soffermarsi
sempre al solito posto per le sue evacuazioni uretrali. Piuttosto recente l’uso
del carretto, appena le carrozzabili lo permisero. E dopo, utilizzando i dissestati Moss degli americani, la
meccanizzazione, il trasporto su camion.
La caccia, più che per nutrimento, è stata uno sport, una
passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel
feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare
tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a
tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il
bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don
Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una volgare guardia
campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo
famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di
quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un
fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della
Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva leggere il racconto del
processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi
si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via
Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta,
passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu
da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci
seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso
vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante era stato il barone;
l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta.
Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero
totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a
Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone
Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale - rimase “un reduce dalle patrie galere”,
come può leggersi in missive anonime che
si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia. Va
letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [i]
«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli
nobiliari, ndr] sta che al mio paese,
dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi,
l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e
di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più
vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un
cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era
invaghito.
«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era sindaco,
o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e forse
minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il barone
gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello abbeverava
la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile condizione
della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il barone, mi si
faceva un racconto minuzioso: ma in
segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue spie, venire
a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità piuttosto
orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di lupara, di
schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire popolare la
canna, forse perché data all’ecce homo
come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè
inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»
Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra del
delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio dei
conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia campestre.
Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera anonima avverso i Tulumello – quando
la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata – ce ne ragguaglia
con insinuazioni maligne. Certo, ora la nuova guardia comunale Leonardo
Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si scriveva
anonimamente al Cadronghi:
«Eccellenza. - Il
sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole.
Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con
cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano
reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita
di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio
destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di
abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono
inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati.
Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di
circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera
manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la
villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e
Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il
maestro didattico della malavita. Et similia.»
L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà del XX secolo:
se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso non si
ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si pagava un
riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette dai
soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o meno
provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore del
gesuita padre Scimé (Garibardi), cui
fu sequestrata la scecca mentre
zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per
l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.
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