I NORMANNI A RACALMUTO
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero
d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna.
Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per
divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio
dell’islamica sudditanza, durata quasi
due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica
religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al
cristianesimo.
Ma chi erano questi normanni?
Il giudizio storico
moderno resta ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle
ascendenze razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord -
provenienti dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un
secolo nelle terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro
essere degli avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro
maschio rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o
peggio saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla
dal giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura
confessionale. A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero
ebbe con i papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza,
patteggiando e pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di
'legato apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche
spregiudicato religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi
smaccatamente postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere
espressioni pungenti. «La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del
re di Sicilia diritti ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in
Russia sulla Chiesa ortodossa.» ([1])
L'Amari, si è visto,
parteggia per gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora.
Poi, sarà per la poderosa personalità di Ruggero II. Il Pontieri, nella elegante premessa alla
revisione del testo del Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi
equanimi. Denis Mack Smith nella sua Storia
della Sicilia Medievale e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li
chiama «avventurieri provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano
da vivere con profitto come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di
questi erano semplici mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e
depredavano i mercanti, rubavano il bestiame e infliggevano terribili
devastazioni come combattenti salariati, cambiando parte a volontà, o persino
combattendo per entrambe le parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse
alcuni per la spedizione di Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento
del papa, attaccavano i cristiani greci dell'Italia meridionale; e talvolta, trovavano più vantaggioso
fare incursioni negli Stati Pontifici». Di Ruggero, lo Smith dice cose
elogiative ma con qualche tono di scherno inglese. Geniale «sia nei
combattimenti, sia nell'amministrazione», viene giudicato il conte normanno. Ma
la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come colui che «con spietati
saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe stata edificata una famosa
dinastia». ([2])
* * *
Che cosa ne è stato della Sicilia musulmana? di
Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza della Sicilia
normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della prostrazione dei
popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La tragedia di quella
conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli abitanti della
Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche. Supplisce il
poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno quelli che
vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un cognome
propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo arabo,
in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II deportò tanti arabo-siculi.» ([3])
* * *
Dopo i primi cedimenti il Granconte Ruggero si avviò verso un potere
unitario ed una sovranità personale. La tendenza a dilatare il demanio pubblico
prevalse. Ma Racalmuto, come altre terre profondamente intrise di islamismo,
sembrò sottrarsi sia al fenomeno
normanno del feudalesimo sia a quello
accentratore e demaniale dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò
qualche tempo dopo. Crediamo che nei
primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo EDRISI, l’abitato di
Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni, addetti all'agricoltura ed abili nelle colture arboree e negli
ortaggi. Per quello che diremo dopo, il
nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era appunto
«un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni da
seminare ben coltivati.» ([4])
Gli storici stanno ritornando sul controverso tema dei rapporti tra
Ruggero e il papato. Il risultato è quello di rinverdire più che dissolvere i
dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e conventi che puzzano di falso e
di manipolazione. Anche l'attribuzione della stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta
nuove perplessità. ([5])
Del resto in Sicilia,
mancava da tempo ogni forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro
religioso era diverso da quello in cui gli Altavilla erano abituati ad
operare. La religione cristiana di rito
latino era pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in
maggioranza, ci è ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano
poteva esserci ad Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a
Palermo, la cui chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in un primo tempo si mise a favorire i monasteri greci, talora
rifondandoli, qualche volta dotandoli di beni.
Si rese, però, subito conto che ciò non bastava. Era di fronte ad una
chiesa di frontiera, lui in fondo laico. Bisognava avviare un «processo
portatore di scelte di fondo capaci di dar vita, in termini che superassero i
limiti gravi e le insufficienze accumulati in secoli di preminenza musulmana, a
funzionali e organiche strutture ecclesiastiche. Le sole in grado di coordinare
le manifestazioni di pratiche religiose e quindi di vita quotidiana della gente e di riconfermare e rendere
operativa l'alleanza fra Chiesa e politica che affidava un ruolo di protagonista
agli Altavilla e rappresentava
un dato strutturale della
società normanna.» ([6])
Ruggero non ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del
popolo conquistato. Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e
perspicace. Una religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo
progetto politico e forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi
di Melfi col papa latino. Le preoccupazioni
politiche erano ad ogni modo preminenti. Istituire diocesi ma mettervi a capo
uomini di fiducia, allogeni,
chiamati dalla natia Normandia, fu -
ripetiamo - il taglio adottato da
Ruggero nella instaurazione della Chiesa
di Roma nelle terre
della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovadi di Troina,
Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale quale Racalmuto, periferico ed ancora tutto saraceno, nulla
ebbe ad avvertire della rivoluzione religiosa messa in atto da Ruggero. Dubitiamo persino che ebbe notizia di
essere incluso nelle pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata
al vescovo francese Gerlando. Nell'anno 1092, [7] dopo
cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte normanna,
giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando. I confini della diocesi sarebbero stati
definiti da Ruggero
in persona. Il documento, in latino ([8]), può
così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella conquistata Sicilia le sedi
vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui soglio episcopale viene
chiamato GERLANDO. Assegno alla sua
giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove sorge il fiume di
Corleone fin su Pietra di Zineth [Pietralonga]; indi
sino ai confini di Iatina [Iato]
e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al
fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine,
e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa
diocesi lungo il mare sino al fiume Torto; e da qui,
da dove sorge, si
estende verso Pira, sotto Petralia;
quindi sino al monte
alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso,
nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia e da questo punto i confini della diocesi
seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade
(Licata). Questa località divide Agrigento
da Butera. Lungo la costa i confini
della diocesi corrono dal Licata
sino al fiume Belice, che costituisce i confini
con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia la delimitazione, che ad ogni modo esclude
Vicari, Corleone e Termini.»
Se il lettore è stato paziente nel
seguire il zig zag dei confini avrà
subito colto che Racalmuto, quale centro al
di qua del Salso,
venne in quella bolla assegnato a GERLANDO, un vescovo santo ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno, venne descritto dalla pur tardiva storiografia secondo
il consunto steriotipo di uomo
di nobile prosapia, bello, alto,
biondo e di gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro ed il
Picone la riecheggia con questi tratti
descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato
in Besansone, città della
Borgogna, di copiosa
dottrina fornito, eruditissimo
nelle chiesastiche discipline ed
eloquentissimo, trasse alla fede
gran numero di Ebrei e di Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti ci
appaiono più circospetti. In base alle
loro attente letture dei vari 'privilegi' escludono che Gerlando fosse il gran cappellano
del conte Ruggero, carica che
fu di GEROLDO, e quanto al
resto si
rifanno alle postume storie del FAZELLO e del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo anche citato e che
riguardano il vescovo Gerlando, sono postumi e secondo
l'ultima critica paleografica del
COLLURA risalgono per lo meno alla seconda
metà del sec. XII. Quattro tra i
primi sei più antichi documenti della
Cattedrale di Agrigento accennano a tale vescovo di nome Gregorio e sulla sua esistenza storica non sembra lecito nutrire
dubbi.
Il personaggio
non è dunque inventato e questo è già
molto. E il vescovo
ebbe subito fama di santità, come può
arguirsi dal Libellus custodito nell’Archivio Capitolare ove
si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi
dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima,
carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli noi laici è quella sua
facondia trascinatrice di ebrei e musulmani. Nell'agrigentino - ed a Racalmuto
per quel che ci riguarda - si parlava da
secoli arabo e solo arabo. Forse
residuava un uso del greco nei ceppi antichi più tenaci. Questo vescovo borgognone che chissà quale
lingua parlava (pensiamo a quella natìa di Normandia e magari masticava
di latino) dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi che, come
ancor oggi si dice, parlavan turco, e, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue prediche
inventate dal Pirro, se davvero vi
furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia salvifica del vescovo
normanno in mezzo ai saraceni
dell'agrigentino un nucleo di
verità deve pur esservi: forse
Gerlando ebbe qualche successo nello stabilire un certo
colloquio con i potentati locali di lingua araba.
In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti
che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo
Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre -
24 dicembre 1092) - una
falsificazione in forma originale, secondo il Collura -
accenna a nobilati francesi già presenti in Agrigento, a concanonici
che officiano in una chiesa
dedicata a S. Maria, a parenti francesi
da beneficiare con diciassette villani,
due paia di buoi ed un cavallo.
Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato
da un Rogerius che ci avrebbe redento da 'demonicis ... ritibus'
da riti demoniaci (che pure era
la grande religione di Allah). Emerge
il nome di un francese: Pietro de Mortain (nell'originale, invero, Petrus Maurituniacus). Vi è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con
una gamma greca nel bel mezzo della
grafia latina. Principalmente, a
colpirci, è il richiamo allo
strumento giuridico del privilegium
che viene firmato in presenza di testi e
davanti ad un vero e proprio notaio
'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene riconosciuta 'probitas',
probità, ed il suo consiglio viene giudicato 'justus'. Francesi, notai, prebende ecclesiastiche, canonici, vescovi probi ed assennati, ma anche
interessati alle cose terrene,
tutto il mondo della
burocrazia ecclesiastica
romana vi traspare, ed era passato
appena un quinquennio dalla conquista normanna sui saraceni, che ora sono, come si
è visto, villani, schiavi ed oggetto di
pii legati.
AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
Ruggero il Normanno tiene saldamente in mano l’intera diocesi di
Agrigento sino alla sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non esiste ancora:
solo, nei pressi, due centri appaiono di una qualche consistenza, Gardutah e
Minsar. Ci pare di poter sospettare che il primo si trovasse nel circondario di
Montedoro (più propriamente a Gargilata come recentissimi ritrovamenti cominciano
a far pensare); il secondo andrebbe identificato in un feudo nel territorio di
Bompensiere. Nelle precedenti pagine abbiamo illustrato quanto la coeva
letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro in bocca di non potere fantasticare
su un casale corrispondente a Racalmuto, prospero o derelitto sotto i Normanni.
Anche la incrollabile tradizione di una chiesetta a Santa Maria fatta costruire
da un locale barone, il Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica
storica appena avvertita.
Quando le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel nostro
territorio metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti medievali,
potranno aversi elementi per una chiarificazione e per il diradamento del fitto
buio che oggi ci angustia.
Non andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con la conquista
normanna s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima erano i berberi
a dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli arabi, che vengono
denominati saraceni. Esistesse o meno
una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che durò sino al greve riordino
sociale di Federico II. Che cosa è stato il
“villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che
vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di
uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia saperne di più, gli studi di
I. Peri). Contadini islamici, miseri e schiavi da una
parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili, dall’altra.
L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai racalmutesi, con le decime
del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108 (non foss’altro perché non
si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne
per il beneficio di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della
nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200.
Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le
testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad
avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone
aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai
locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria
condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di
insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante
litteram.
La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli era
stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’
Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa
una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in
case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico
interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
La genesi del feudo di Racalmuto
Ripuliti gli esordi feudali dai vari Malconvenant, Abrignano, Barresi e
Brancaleone Doria, resta la vicenda di quel Federico Musca che risulta primo
proprietario del casale di Racalmuto attorno al 1250. Era costui un immigrato
che per abilità propria o per successione poteva disporre di tre centri
nell’Agrigentino: Rachalgididi, Rachalchamut e Sabuchetti. Ci riferiamo all’indiscutibile
diploma che custodivasi negli archivi angioini di Napoli [9] e
precisamte a quello che reca il n.° 209 il cui sunto recita in latino:
Executoria concessionis facte Petro Nigrello
de BELLOMONTE mil., quorundam casalium in pertinentiis Agrigenti, vid. Rachalgididi, RACHALCHAMUT et
Sabuchetti, que casalia olim fuerunt Frederici MUSCA proditoris, et casalis
Brissane, R. Curie dovoluti per obitum sine liberis qd. Iordani de Cava, nec
non domus ubi dictus Fridericus incolebat.
[10]
Era dunque un’esecutoria della
concessione che veniva fatta da Carlo d’Angiò a Pietro Negrello di Belmonte,
milite, di tre casali siti nelle pertinenze di Agrigento, e cioè Rachalgididi,
Sabuchetti ed il nostro Racalmuto, chiamato - non si sa per errore di
trascrizione o per più precisa denominazione - RACHALCHAMUT. Quei tre casali erano appartenuti (olim) a Federico
Musca che Carlo d’Angiò considera un traditore. Quanto al passo successivo che
investe la storia di Brissana, a noi qui nulla importa.
Federico Musca viene privato del
feudo nel 1271: ribadiamo, è questa la data di nascita della storia
racalmutese, almeno fino a quando non si trovano altre fonti scritte o
archeologiche. Per quel che abbiamo detto prima, gli esordi racalmutesi
medievali possono retrocedersi di una ventina d’anni, ma non di più.
Un Federico Mosca, conte di Modica, è noto: a lui accenna Saba Malaspina
colui che l’Amari considera “diligentissimo cronista” [11] per
non parlare del Montaner, del D’Esclot, di Nicola Speciale, di Bartolomeo di
Neocastro, del Sanudo. [12]
«Federico Mosca conte di Modica acquistava
benemerenze in guerra. Nel novembre del 1282 passò in Calabria e conseguì buoni
successi con una comitiva di 500 almogaveri (le truppe a piedi che nel corso
della guerra del Vespro prospettarono la validità dei reimpiego della fanteria,
che sarebbe salita a clamore europeo a non lunga distanza di tempo sui fronti
di Fiandra).»
E successivamente (pag. 46):
«Se la reazione immediata di Carlo d’Angiò fu
più minacciosa che vigorosa, se la cavalcata di re Pietro, nel settembre del
1282, da Trapani a Palermo, a Messina, a Catania, fu più prudente che
difficile, il conflitto poi si spostò prontamente fuori Sicilia. Nel novembre,
il conte di Modica Federico Mosca portava la guerra in Calabria.»
Annota, peraltro, l’Amari: [14]«Il Neocastro, cap. 56, accenna anch’egli ad
una fazione degli almugaveri, diversa da quella di Catona. Dice mandatine 500
presso Reggio e 5.000 alla Catona. Aggiunge poi che Pietro il dì 11 novembre
mandò il conte Federigo Mosca a regger la terra di Scalea, che si era data a
lui. ...»
Se Federico Mosca, conte di Modica,
è, dunque, lo stesso di quello del diploma angioino riguardante Racalmuto,
sappiamo ora che costui dopo l’esonero del 1271 non tornò più in questo casale.
Anche per Illuminato Peri, neppure tornò - almeno stabilmente - a reggere la
contea di Modica che (pag. 31). A lui «sembra essere succeduto nel titolo di
conte di Modica il genero Manfredi Chiaromonte marito della figlia Isabella»,
quello che avrebbe edificato il nostro Castelluccio.
Ma a quale ribellione di Federico Mosca si riferisce il citato diploma
angioino? Non abbiamo notizie aliunde.
Dobbiamo quindi supporre che trattasi degli eventi del 1269. Li abbozziamo qui
sulla falsariga del racconto dell’Amari.[15] Le
truppe angioine riconquistano il castello di Licata, che era stato assediato
dai Ghibellini, nel dicembre del 1268. Nel 1269 si sparse la falsa notizia che
il re di Tunisi stesse per sbarcare. Frattanto Fulcone di Puy-Richard,
sconfitto a Sciacca nei primi del 1267, comandava a poche città che gli
prestavano volontaria ubbidienza. Un frate, Filippo D’Egly dell’ordine degli
Spedalieri, venuto in Sicilia da tempo a combattere per Carlo con la scusa che
stessero per sbarcare i Saraceni d’Africa, agiva da capitano di ventura e
crudelmente (vedasi Bartolomeo de Neocastro, cap. VIII). Ma ai primi d’aprile
del sessantanove re Carlo, ormai sicuro in Continente ove gli mancava solo di
conquistare Lucera per fame, combatté di persona i Saraceni e si accinse a
riportare all’ubbidienza la Sicilia. Nel volgere di pochi mesi cambiò due volte
il vicario dell’isola: prima sostituì Puy-Richard con Guglielmo de Beaumont,
poi costui con Guglielmo d’Estendart. Un grosso esercito agli ordini del solo
D’Egly, in un primo momento, e poi di questi affiancato dal Estendart, ed indi
di quest’ultimo soltanto, fu mandato per
sterminare le forze di Corrado Capece. L’Estendart risultò un feroce capitano
che comunque riscuoteva la fiducia del re, che non mancava di colmarlo di
ricchezze e di onori. Saba Malaspina lo chiama uomo più crudele della stessa
crudeltà, assetato di sangue e giammai sazio (Lib. IV, cap. XVIII).
L’Estendart condusse nell’isola
millesettecento cavalieri con grande numero di arcieri e vi furono associati
oltre 800 cavalieri che stanziavano nell’isola, tra siciliani e stranieri.
Ricominciò davvero la guerra.
Quel condottiero andò da Messina per
Catania all’assedio di Sciacca, ma qui gli piombarono addosso oltre 3000
cavalieri provenienti da Lentini; sopraggiunse Don Federico con cinquecento
soldati scelti spagnoli, chiamati Cavalieri della Morte, e gli angioini furono
tricidati. L’Estendart e Giovanni de Beaumont, con altri baroni, vi trovarono
la morte. Ne seguì un tal terrore che Palermo e Messina trattarono la resa, ma
la trattativa non andò in porto. Il racconto - desunto dagli Annali ghibellini
di Piacenza - non convince del tutto l’Amari che puntualizza: «Manca la data di
questa battaglia; falsa la morte dell’Estendart e fors’anche quella del
Beaumont; Sciacca fu assediata di certo dagli Angioini sotto il comando
dell’ammiraglio Guglielmo, non Giovanni, de Beaumont, poiché ricaviamo che egli
riscosse le taglie pagate da vari comuni invece di mandare uomini a
quell’impresa.» Sappiamo altresì dagli annali genovesi che Sciacca fu
conquistata dagli Angioini.
Anche Agrigento fu assediata dai
francesi, dopo la conquista di Sciacca, che vi avrebbero però subito una
sconfitta. I Ghibellini, astretti da varie parti, riuscivano ancora a mantenere
il controllo di Agrigento, Lentini, Centorbi, Agusta, Caltanissetta.
Gli eventi evolvono con l’assedio di
Agusta. Carlo d’Angiò ordina all’Estendart di portarsi a ridosso della città
siciliana per il colpo di grazia. Vi si erano insediati 1000 armati e 200
cavalieri toscani che la difendevano valorosamente. Il re fece costruire
apposite galee per quell’impresa e le affidò all’Estendart il 29 settembre
1269. L’ordine era di passare a fil di ferro quanti si trovassero nella città.
Essa fu presa per il tradimento di sei prezzolati che di notte aprirono una
porta. Guglielmo d’Estendart fu feroce: non rispettò «né valore, né innocenza,
né ragione d’uomini alcuna.»
Cessata la guerra di Sicilia, Carlo d’Angiò rimise nell’ufficio di
Vicario, il 18 agosto 1270, Fulcone di Puy-Richard «con carico di perseguitare
i traditori e confiscare loro i beni», annota l’Amari. [16]
In tale frangente, ebbe dunque a
verificarsi lo spossessamento del feudo di Racalmuto che dal “traditore” Federico Musca passò al fedele - estraneo e
francese - Pietro Negrello de Beaumont, chissà se parente dei tanti Beaumont
che abbiamo avuto modo di citare.
Sempre l’Amari ci fa sapere che in quel tempo «agli altri fragelli
s’aggiunse la fame. In alcuni luoghi di Sicilia il prezzo del grano salì a
cento tarì d’oro la salma e anche oltre; nei più fortunati arrivò a quaranta
tarì, che vuol dire nei primi almeno al quintuplo, ne’ secondi al doppio o al
triplo del valore ordinario.» Non pensiamo che Racalmuto sia stato coinvolto in
quella sciagura: le sue ubertose terre avranno fornito pane a sufficienza. Ma
il nuovo signore de Beaumont avrà potuto razziare a man bassa per le solite
speculazioni granarie. Si pensi che anche la vicina Milena - all’epoca chiamata
Milocca - finisce in mani di un omonimo: quel Guglielmo di Bellomonte [17] di
cui abbiamo parlato sopra.
Sfogliando i registri angioini, apprendiamo che il padrone di
Racalmuto dal 1271 al 1282, Pietro Negrello di Belmonte, era il conte di
Montescaglioso e il Camerario del Regno del 1271. [18] Non
pensiamo che il conte di Montescaglioso sia mai venuto a visitare queste sue
lontane terre, site in una terra dal nome strano, Racalmuto. Avrà mandato
qualche suo amministratore. Solerte, comunque, nello sfruttare quei contadini
di origine araba, usciti da non molto tempo dalla condizione di “villani”, una
sorta di schiavitù a mezzo tra la servitù della gleba e la remissiva
subordinazione della fede cattolica, vigile nell’inculcare il sacro rispetto
del padrone per il noto aforisma “omnis auctoritas a Deo”. Ogni autorità vien
da Dio. Ed il lontano Negrello era pur sempre un padrone caro al Signore Iddio.
Bisognava ubbidirgli e basta, come al ribelle conte di Modica.
Racalmuto durante i Vespri Siciliani
Dalle brume delle vaghe testimonianze
scritte affiora solo qualche brandello delle locali vicende in quel gran
trambusto che furono i Vespri Siciliani. Se non bastasse, vi pensò Michele
Amari, tutto preso dalle sue passioni irredentiste, a fare del “ribellamento”
del 1282, una fantasmagorica epopea della stirpe sicula eroicamente in armi
contro ogni dominazione straniera. Niente di più falso: i siciliani (ed ancor
più i racalmutesi) sono per loro natura remissivi, acquiescenti, indolenti,
propensi a sopportare ogni autorità, la quale - straniera, o indigena, o
paesana che sia - sempre sopraffattrice sarà; e va solo subita con il minore
aggravio possibile, con il solo, incoercibile, diritto al mugugno (al circolo,
o in chiesa, o presso il farmacista o nel greve chiuso della bettola).
Ancor oggi non si ha voglia di dar peso alle acute notazioni del francese
Léon Cadier sull’amministrazione della Sicilia angioina. [19] Il
Cadier prende le distanze dall’Amari e secondo Francesco Giunta esagera, specie
là dove rintuzza quelli che considera attacchi e calunnie del grande storico
siciliano dell’Ottocento: «la ragione di questi attacchi - scrive infatti il
francese - e di queste calunnie è facile da capire. Il più bel fatto d’arme
della storia di Sicilia è un orribile massacro; per farlo accettare dai
posteri, per potere celebrare ancora il ‘Vespro Siciliano’ come un avvenimento
glorioso dagli annali siciliani, si è fatto ricadere tutto ciò che questo atto
aveva di orribile su coloro che ne erano stati le vittime. Per scusare i
carnefici, i Francesi sono stati accusati di ogni sorta di crimini;
l’amministrazione francese in Sicilia è stata descritta con le tinte più
fosche; Carlo d’Angiò è diventato il più abominevole dei tiranni.»
Ed a noi Racalmutesi del Duemila, il culto dei Vespri ci è stato
inculcato sin da bambini, specie con quel reliquario che è il brutto quadro
raffigurato nel sipario del teatro comunale. [20]
Leonardo Sciascia - che grande storico non lo fu mai - si produsse nel 1973 in
una sua cerebrale superfetazione sul mito del Vespro. [21] Di
rilievo l’inciso: «questo mito [quello del Vespro], che per lui non era un mito
ma la storia stessa nella sua specifica oggettività, Amari difese sempre: ma
certo rendendosi conto che più si confaceva al carattere della riscossa
nazionale che si andava preparando ed al sentimento e al gusto del tempo,
quell’altro della congiura dei pochi che accende il furore di molti.» Da parte
sua, per Sciascia, era ovvio: «i miti della storia servono più della storia
stessa - ammesso possa darsi una storia pura, oggettiva, scientifica.»[22] Ad
ogni buon conto, «dirò - è sempre Sciascia che parla [23] -
che tra tutte le ragioni che adduce [l’Amari] per negare la congiura - di
documenti, di circostanze concordanti e discordanti - la più persuasiva resta
per me quella che dà come siciliano che conosce i siciliani: e cioè che nessuna
cosa che è preparata, può avere successo in Sicilia. In quanto non preparato,
ma improvviso e rapido e violento come una fiammata, il Vespro è riuscito.»
Se il Vespro fu quella “vampa” sciasciana, a Racalmuto non si avvertirono
neppure le più lontane scintille. Non c’era motivo alcuno di ribellarsi. Al
padrone Federico Mosca - siciliano, incombente, collerico, predatore - era
subentrato Pietro Negrello di Belmonte - colto, lontano, fiducioso nei suoi
messi partenopei. C’era da guadagnare, e di certo lucro vi fu: in termini di
libertà, di astuzie, di evasione e di elusione. Scoppiato, dopo il Vespro, il
grande disordine della generale ribellione, ai racalmutesi tornarono comodi il
caos amministrativo e la rapida fuga dei
loro sovrastanti: dal marzo al 10 settembre del 1282, poterono lavorare
i campi seminati, mietere, ‘pisari’, non spartire alcunché con il padrone,
immagazzinare, alienare, incassare e per intero. Il 10 settembre 1282, arriva
da Palermo una missiva [24]
indirizzata “Universitati Racalbuti” [alias Racalmuti] ed è un perentorio
ordine dell’aragonese re Pietro a svenarsi in tasse per armare e mandare 15
arcieri: una richiesta da sbalordire, visto che i locali non avranno capito
neppure che cosa s’intendesse con quel termine latino di “archeorum”. Ma era
una richiesta che un senso esplicito ce l’aveva: l’orgia della libertà era
finita; i padroni ritornavano in sella; per i contadini di Racalmuto, gravami,
imposte, angarie e sudditanze, non solo come prima, ma più di prima.
Racalmuto - si ripete - sorge dopo l’epurazione saracena di Federico II
di Svevia. Federico Musca, o un suo antenato, importa nel nostro Altipiano un
certo numero di famiglie, non si sa da dove; con tutta probabilità trattasi di
marrani sfuggiti, con repentine conversioni, alle rappresaglie della
persecuzione religiosa fridericiana. Sono famiglie di coloni, o divenuti tali
per necessità mimetiche. Il Musca non ne dispone come “villani”, visto che quella
specie di schiavitù è tramontata, ma la loro condizione sociale ed economica è
molto simile. Hanno giacigli poveri in casupole che spesso coincidono con la
disponibilità offerta dagli ampi antri reperibili nel territorio a strapiombo
sotto il vecchio Calvario. Ne vien fuori una suggestiva fisionomia di abitato
trogloditico, per dirla alla Peri. Ma spesso era il pagliaio a sopperire alle
necessità abitative; sorsero le case “copertae
palearum” che qualche decina di anni dopo impressionarono l’arcidiacono du
Mazel, mandato da Avignone a rastrellare tasse aggiuntive per assolvere da un
incolpevole interdetto, comminato per le estranee vicende del Vespro. «Il pagliaio - scrive il Peri non ad hoc ma
pertinentemente [25] - non richiedeva scavo in profondità per le
fondamenta; e quando erano in pietra le basi erano in grossi pezzi sovrapposti
“a secco”, senza ricorso a materiale coesivo. La costruzione si alzava, quindi,
con paglia e fogliame impastato con fanghiglia. Costituito abitualmente da un
vano non ampio, che accoglieva la famiglia e le bestie collaboratrici e
compagne, il pagliaio bastava a offrire riparo dalle intemperie e dava una pur
limitata protezione dal freddo e dai raggi del sole. Gli hospitia magna e le mansiones fabbricate “a pietre e calce” (ad lapides et calces), anche nelle città erano e sarebbero
rimasti per tempo oggetto di ammirazione nella loro rarità. Non si pretendeva dalle abitazioni durata secolare.
E, del corso del tempo e dei tempi dell’esistenza, avevano nozione diversa
dalla nostra quegli uomini che l’esposizione ai rigori, la fatica prolungata e
l’assoluta mancanza di prevenzioni e di rimedi alle malattie, più precocemente
offriva alla falce inclemente della morte. Corpi che la povertà escludeva anche
dal rito pietoso della conservazione nella tomba insieme a qualcosa di caro e
al viatico verso l’esistenza che non dovrebbe avere fine. Ritornavano, con
rapidità, in polvere la debole carne e le fragili abitazioni di quelle
generazioni.»
Il prisco insediamento - se ben comprendiamo i suggerimenti che i
successivi riveli sembrano fornirci - avvenne in quella contrada che dopo ebbe
a chiamarsi di Santa Margheritella, da sotto il Carmine all’antro di Pannella
incluso, dalla Madonna della Rocca sino alle
Bottighelle dell’attuale corso Garibaldi,
tra S. Pasquale e la Piazzetta. Poi, le abitazioni si estesero negli altri tre
quartieri: San Giuliano, Fontana e Monte.
I racalmutesi tengono
molto alla tradizione che vuole la chiesa di Santa Maria come la più antica,
risalente addirittura al 1108: una chiesa - si dice - voluta dai Malconvenant,
che si indicano come i primi baroni del casale. Non è facile farli ricredere.
La ‘notizia’ ha per di più una fonte scritta: quella dell’abate Pirri. Gli
storici locali la danno per certa, ed anche i restauratori della chiesa, negli
anni ottanta del secolo scorso, parlano di facciata “normanna”.
Il Pirri, palesemente,
collega la notizia ad un paio di diplomi che si custodiscono tuttora negli
archivi capitolari della Cattedrale di Agrigento. L’archivio fu oggetto di
studio a cavallo tra il XIX ed il XX secolo per la nota questione delle decime
della mensa vescovile agrigentina. Fu un feroce alterco fra giuristi incaricati
di difendere le ragioni dei grossi agrari della provincia, riluttanti a
riconoscere le antiche tassazioni ecclesiastiche, e giuristi, canonici e
storici di parte cattolica, tutti alle prese con la dimostrazione che
trattavasi di tasse dominicali e quindi di gravami ancora validi.
Nel 1960, il vescovo Peruzzo - ormai, nella quiete voluta dal concordato
del 1929 e nella sudditanza alle autorità ecclesiastiche propinata dal
consolidato regime democristiano - incaricava il grande paleologo Mons. Paolo
Collura di uno studio obiettivo e serio dei tanti vecchi diplomi. La
pubblicazione che ne è seguita è pietra miliare per ricerche del genere.[26] Noi
siamo andati a cercare quelli che riguarderebbero la chiesa di Santa Maria di
Racalmuto ed abbiamo scoperto che non possono attribuirsi al nostro paese. Vi
sono, sì, due diplomi del 1108 e vi si parla dei Malconvenant e della
fondazione di una chiesa dedicata a S. Margherita, ma è evidente che la
località nulla ha a che fare con la nostra Racalmuto .
Si riferisce evidentemente ad alcuni di codesti diplomi, il Pirri nel
fornire notizie su Santa Margherita di Racalmuto, come d'altronde nota lo
stesso Collura ([27]). Ma come si può ben
vedere, sia per le precisazioni del Collura sia per l'ubicazione dei fondi sia
per i toponimi, si tratta di Santa Margherita Belice (o presso i suoi dintorni)
e Racalmuto va senz'altro escluso. ([28]) E’,
poi, certo che Racalmuto non appare mai
in modo incontrovertibile nel carte capitolari di Agrigento che vanno dalla
conquista normanna al 1282. Non è chiaro se ciò sia dovuto ad un tardo
affermarsi del toponimo arabo del nostro paese o ad una sua indipendenza
fiscale nei confronti della curia agrigentina. Noi, come detto dianzi,
propendiamo per la tesi della tarda fondazione del paese di Racalmuto, qualche
decennio prima del diploma del 1271 su cui ci siamo soffermati sopra.
Caducata l'attendibilità della fonte documentale del Pirri, si sbriciola
la narrazione del nostro Tinebra-Martorana sull'argomento. Il Capitolo II ed il
III [29] che
contengono notizie sulla "signoria dei Malconvenant" e su "Santa
Margherita Vergine" che corrisponderebbe "alla nostra Santa Maria di Gesù" sono
destituiti di fondamento storico. Il Tinebra-Martorana mostra solo un'indiretta
conoscenza dell'abate netino. Egli si avvale dell'opera di «Padre Bonaventura
Caruselli da Lucca, La Vergine del Monte
a Racalmuto» e del «Lessico Topografico siculo di Amico - Tomo 2°,
pag.393-4». L'Amico è esplicito nel dichiarare la fonte delle sue notizie sui
Malconvenant e su Santa Margherita Vergine: è il Pirri della Not. Agrig. [30] Il
Pirri fu sicuramente indotto in errore dai suoi corrispondenti del Capitolo
agrigentino. Nasce così il falso storico di una chiesa racalmutese intestata a
S. Maria di gesù, risalente al XII secolo.
L'avallo di Leonardo Sciascia al lavoro del Tinebra Martorana [31] ha
ormai canonizzato tutte quelle 'pretese' notizie storiche su Racalmuto e non
sarà facile a chicchessia rettificarle o raddrizzarle. Malconvenant e chiesetta
vetusta di Santa Margherita-Santa Maria sono usurpazioni storiche cui i
racalmutesi non vorrano rinunciare, tant’è che, ancora nel 1986, il padre
gesuita Girolamo M. Morreale ribadiva quel falso narrando:[32] «frutto
della rinascita normanna fu per Racalmuto il riordinamento del culto. Il conte
Ruggero conferì l'investitura di signore delle terre di Racalmuto a Roberto
Malcovenant che dopo venti anni dalla liberazione vi fece sorgere la prima
chiesa sotto il titolo di S. Margherita vergine e martire, vicino l'attuale
cimitero, dotandola di fondi agricoli che convertì in prebenda canonicale.
Rocco Pirro colloca l'erezione della chiesa nell'anno 1108 e precisa che
avvenne con licenza del Vescovo di Agrigento, Guarino (+1108)» ([33]) Il
mendacio storico è proprio duro a morire, se anche un colto ed avveduto gesuita
vi incappa or non sono più di una ventina di anni fa.
Quanto a falsità
storiche, ancor più salienti sono quelle che confezionate dal Tinebra
Martorana, furono ribollite da Eugenio Napoleone Messana: sono le incredibili
avventure della Racalmuto nel crogiolo della rivolta del Vespro. Vuole il
Tinebra Martorana [34] che
nella lotta tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò si accodò ai baroni
filofrancesi «Giovanni Barresi, signore
di Racalmuto. Il quale raccolta quanta gente potè dai suoi vasti vassallaggi di
Racalmuto, Petraperzia, Naso, Capo d’Orlando e Montemauro, volse le armi contro
il seno della sua stessa patria.» Scoppiata la rivolta del 1282, «Giovanni Barresi, che palesemente aveva
seguito la fortuna dei francesi, e durante il loro dominio era stato in auge,
ebbe la peggio allorché vennero fra noi gli Aragonesi. Premio meritato, fu
spogliato dei suoi domini, che passarono al reale patrimonio. Così la baronia
di Racalmuto appartenne per qualche tempo al regio Fisco e poi fu concessa alla
famiglia Chiaramonte.»
* * *
Il Fazello non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli
incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto
storico è basilare nella storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni
che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+
1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale
castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse accettabile; la
seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello è del
tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito
Amico [35] ed
il Villabianca, quello della Sicilia Nobile [36] - su
un'evidente distorsione di un passo dell'opera storica del Fazello. [37]
Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto
[38]:
Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da re Ruggero l'investitura
di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri
"oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio
Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non sappiamo su
che basi, e così si racconta tuttora dagli storici locali che hanno in tal modo
il destro per appioppare a Racalmuto le vicende avventurose di quella famiglia.
Non è questa la sede per digressioni erudite: tuttavia ci pare di avere
fornito elementi sufficienti per comprovare la validità dei nostri
convincimenti in ordine alla nessuna attinenza dei domini feudali dei
Malconvenant e dei Barresi con Racalmuto, a ridosso del Vespro. Resta da vedere
se possa parlarsi della signoria degli Abrignano.
Il solito Tinebra Martorana (pag. 56 op. cit.) ci propina questa
successione:
«Alla morte del conte Ruggiero
Normanno, sia perché questa famiglia [cioè i Malconvenant] si fosse estinta,
sia perché fosse caduta la fortuna dei Malconvenant, noi vediamo essi perdere domini
ed uffici. Ciò che è indubitato è che il figlio del conte conquistatore, il
gran re Ruggiero, concesse la baronia di Racalmuto alla nobilissima famiglia
degli Abrignano [Minutolo: Cronaca dei Re]. E da questa passò ai Barresi. Degli
Abrignano però non è sicura notizia e di certo, se essi governarono Racalmuto,
fu per breve tempo, perché molti cronisti non ne fanno alcun cenno.» E
tanto è davvero un modo curioso di far storia: ciò che viene asserito come
“indubitato”, diviene subitaneamente - con contraddizione che non dovrebbe
essere consentita - “non sicura notizia”. E dire che Sciascia continuò a
definire quella del Martorana “una buona storia del paese”. [39]
Eugenio Napoleone Messana (op. cit. p. 49) non ha dubbi che «nella cronaca dei
re di Minutolo leggiamo che il re Ruggero II concesse la baronia di Racalmuto
ai nobili Albrignano o Alvignano prima e ad Abbo Barresi dopo. Della
concessione agli Abrignano ne fa menzione solo il Minutolo, altri la omettono e
riportano solo la concessione ad Abbo Barresi.» Evidentemente, né Tinebra
Martorana, né Eugenio Napoleone Messana avevano letto il Minutolo, diversamente
non sarebbero caduti nell’abbaglio. Forse avevano letto soltanto Vito Amico che
nella versione del Di Marzo specifica: «Minutolo Memor. Prior. Messan. Lib. 8
attesta essersi [Racalmuto] appartenuto alla famiglia di Abrignano, dato poscia
a’ Barresi.» Una certa eco vi è anche nel Villabianca: « e la tenne [Racalmuto]
pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273.» Francamente
ci dispiace che nell’equivoco cadde anche il compianto padre Salvo - nostro
stimato amico. [40] Egli sintetizza: «La
famiglia Albrignano - Decaduta la famiglia Malconvenant, Ruggero II concesse la
Baronia di Racalmuto agli Albrignano o Alvignano nel 1130. Tale concessione è
un po’ dubbia nelle storia o, se vi fu, ebbe a durare pochissimo. Certo è che
nel 1134 la Baronia di Racalmuto era già nelle mani dei Barresi.» Un evidente
sunto, con quella aggiunta della data che vorrebbe essere una precisazione e
diviene invece una colpevole topica.
Il Minutolo fu un frate gerosolimitano di Messina che nel 1699 scrisse le memoria del suo “gran
priorato” [41] : raccolse le
dichiarazioni dei vari suoi confratelli sulle loro ascendenze nobili. Essere
nobili era indispensabile se si voleva essere ammessi fra quei frati cavalieri.
Fra D. Alberto Fardella di Trapani nell’anno 1633 asserisce - in buona fede o
fraudolentemente, non sappiamo - che un suo antenato era: «Hernrico Abrignano
dei Signori di Recalmuto, nobile di Trapani, e Regio Giustiziero, e Capitano»
nell’anno 1395. La falsità era talmente evidente da non doversi dare alcun
credito al mendace frate, ma il Minutolo non se ne accorge ed incappa in una
smentita a se stesso, quando trascrive l’albero genealogico dell’altro
confrate, il nobile “Fra D. Alfonzo del Carretto, di Giorgenti, 1617”, il
quale, in coincidenza della pretesa signoria di Racalmuto da parte di Enrico
Abrignano nell’anno 1395, colloca , correttamente, al posto dell’Abrignano, il
proprio antenato, il celebre barone Matteo del Carretto. Ma già un altro dei
due monaci della famiglia Fardella (fra D. Martino Fardella di Trapani 1629) si
era limitato a dichiarare quell’identico antenato come semplice nobile di
Trapani («Enrico Abrignano Nobile di Trapani»).
Gli Abrignano con Racalmuto, dunque, non c’entrano affatto: forse una
qualche parente di Matteo Del Carretto andò sposa al “mercante” Enrico
Abrignano, attorno al 1391.
Quanto ai Barresi, è arduo ritenere che costoro davvero abbiano avuto il
dominio di Racalmuto, in tempi antecedenti al Vespro, anche se il padre Aprile,
scrivendo in epoca moderna, era propenso alla tesi affermativa. Si disse che
Abbo Barresi I o Senior ebbe concesse dopo il 1130 dal re Ruggero il Normanno
vari feudi, Naso, Ucria ed altri Castelli. Da Abbo a Matteo; da Matteo a
Giovanni, la successione in quei domini feudali. Il San Martino Spucches resta
sconcertato dalla contraddittorietà delle notizie fornite dal Villabianca. Si
limita allora a questa secca elencazione: «Il
Villabianca, nella Sic. Nobile, dice che Ruggero re concesse Racalmuto ad Abbo
Barresi (Sic. Nob., vol. 4°, f. 200).
Lo stesso autore dice altrove che l’Imperatore Federico II concesse, dopo il
1222, Racalmuto ad Abbo Barresi che sarebbe stato figlio di Giovanni (di Matteo
di Abbo seniore). A quest’ultimo successe il figlio Matteo: al quale successe
Abbo ed a quest’ultimo il figlio Giovanni. Questi visse sotto Re Giacomo di
Aragona e seguì il suo partito. Re Federico, fratello di Giacomo divenuto Re di
Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e gli confiscò i beni. Da questo
momento comincia una storia certa e noi cominciamo da questo momento ad
elencare i Baroni di Racalmuto con numero progressivo.» [42] Ma,
così facendo, l’esimio araldista, allunga la teoria delle successioni,
ricominciando il ciclo, per cui da Giovanni si passerebbe ad Abbo II iunior che avrebbe avuto dall’imperatore
Federico II Racalmuto nel 1222 (per noi, a quell’epoca, ancora da fondare); da
Abbo II a Matteo II e da questi ad Abbo III, cui sarebbe subentrato Giovanni
Barresi che è personaggio storico distintosi nelle vicende del 1299, di sicuro
signore di Pietraperzia, Naso e Capo d’Orlando.
Scettici sulle signorie
pre-Vespro dei Barresi, non possiamo escludere che, con la restaurazione feudale
di re Pietro, Giovanni Barresi possa essersi impossessato di Racalmuto, stante
la latitanza di Federico Musca, cui invero sarebbe spettata la titolarità della
baronia racalmutese. Con il passaggio tra le fila di re Giacomo d’Aragona -
quando questi dichiarò guerra al proprio fratello, Federico III, che era stato
proclamato re di Sicilia nella ben nota crisi di fine secolo XIII – poté
essersi pur verificata la perdita da parte di Giovanni Barresi del recente
feudo di Racalmuto alla stregua di quegli altri suoi possedimenti siciliani,
finiti sotto confisca.
L’Amari, nella sua guerra del Vespro siciliano, accenna ad
un diploma del 28 dicembre 1300 (1299) tredicesima indizione, anno 15° di Carlo
II d’Angiò, ove Racalmuto e Caccamo vengono concessi a Pietro di Monte Aguto. [43]
Ovviamente si trattò di promesse dell’angioino che non ebbero seguito alcuno.
Ma quella promessa sa di sonora smentita della tesi che vorrebbe feudatario di
Racalmuto Giovanni Barresi: questi, ora, milita accanto all’angioino, sia pure sotto
la bandiera di Giacomo d’Aragona; non è credibile che Carlo II d’Angiò
arrivasse al punto di confiscare il feudo ad un amico per prometterlo ad un
altro amico. Credibile, invece, che nella cancelleria di Napoli figurasse
ancora la concessione a Pietro Negrello di Belmonte e che si pensasse di girare ora il feudo al
milite alleato Pietro di Monte Aguto.
* * *
Nell’Agosto del 1282
Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con quel misto di albagia spagnola e di
«avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto - come detto - giunge la prima
stangata fiscale datata “Palermo 10 settembre”; il nuovo re esige subito che si
paghi per l’armamento di 15 arcieri.
Sotto la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire la pillola
inviando al nostro periferico casale un resoconto delle sue recenti imprese.
Siamo sicuri che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava
nulla di sapere:
«Doc. X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. [44] Re
Pietro dopo aver enumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uomini tutti di Adrano
le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di Sicilia; e
raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per terra in
Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea, eleggano due
fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci, vengano
a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti i
cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lancieri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22
Settembre al più tardi.
«Simili lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume
Salso.»
«[......] Item et infra fuit scriptum eodem modo videlicet.
« [...] [45] Burgio, Sacca,
Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera,
Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo
[Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»
Nel successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato -
unitamente ad altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe
approntare altri quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da
Messina il giorno 26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai
giudici ed a tutti gli uomini Rakalmuti.
Perché mai questa resipiscenza? Evidentemente, la base imponibile che era stata
calcolata a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i
racalmutesi tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata
ad una tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno
altri 20 fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla
guerra che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente -
contro l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti
racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380
(calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile
consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta,
bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e
quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri:
una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una
maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione
stimata di circa 456.
Re Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si
rivolge ai racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto
aspettato suo arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che
quindi potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”. Fidelitati vestre feliciter nunciamus.
«Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti
burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici giuramenti “corporalia iuramenta” della debita fedeltà e dell’omaggio al re.
Nomini i suoi “sindici” e si inviino davanti al cospetto della “celsitudine”
regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché
annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri, arcieri, uomini armati di tutto punto, di
scudi o di altri tipi d’armatura e «vengano presso di noi Re Pietro in quel di
Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo
mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disubbidisce, incapperà nella
nostra reale indignazione.»
Non v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei
siciliani del 1282 dinanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i
letterati, ci risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento.
Neppure Tommasi di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra
farne accenno sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale storia,
appena “descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra
parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara
povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a
volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.» [46] E
questo sarà un bel dire, ma di scarso senso per quello che davvero avvenne, per
quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”, che ci pare tanto
“narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.
Chi spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni
furono prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma pericolo per
la vita e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per
strade impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e “prosecuti”?
C’è da pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa
al suo della campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà
tradotto la missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si era
autoproclamato Baiulo e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il
farmacista-medico - che lo affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano
di giumente - avranno dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella
lontano Randazzo. Con la ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del
7 agosto del 1577.
La libera universitas di Racalmuto:
1282-1300 ca.
Ne siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi
un ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi
di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto,
la cosa si risolse in una intenzione, non potuta in alcun modo realizzarsi.
Anche la notizia (secentesca) di una assegnazione feudale di Racalmuto a
Brancaleone Doria, è frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili
ragioni cronologiche.
Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe,
sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova,
Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni
trenta del XIV secolo.
Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che
- dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché
si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il
milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un
Federico Musca , comes Mohac, si
rinviene tra i diplomi di Pietro I.[47] Su
tale Federico Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca
scrive:
«....[PAG. 4] entrati che
furono gli Aragonesi nel governo di
questo Regno, appare in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che fu Governatore della Valle di Noto sotto il
Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero
di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .
«Essendo stato anch'egli uno de'
quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux;
così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter
quos - egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad
monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte
bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum
reciperet.» Ma se sia stato costui
discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovato, o forse da altro modo
comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però,
ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo
dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi
successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè
Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non
meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di
Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato
ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli
seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»
[48]
Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma
subito soggetto, agli appetiti tassaioli
del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i
notabili racalmutesi dell’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A
presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici
eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di
Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici
dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che
incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri,
Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La
Licata, de Messana, de Santa Lucia.
Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla
Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di
certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella
che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né
da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel
tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.
Interlocutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei
balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli
fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole
per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala,
viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis
Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo. [49] Il
17 settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i luoghi
di sua giurisdizione ad un celere invio del “fodro” (vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo:
segno che le terre ed i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de
Ferro, milite giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare maestri giurati di sua fiducia: il re,
da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi
intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti
e Baroni, elezione che si era riservata»[50]. Per
di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo di
Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni:
manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare
quegli abitanti nel possesso dei loro beni. [51]
Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di
ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro
... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre
al di là del Salso siano corrisposte ai regi tesorieri.»[52]. Povero Racalmuto, ormai preda di
voraci esattori! Con provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero
Barresi, milite. Non risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto. [53]
Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da
Messina, il 15 novembre 1282, s’ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del
Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di
sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni
per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Salto,
la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni,
circa alla promessa del sussidio.»[54] Ed
il successivo 20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze fiscali.
Re Pietro «incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui luoghi, il
versamento dalle Università al di là del Salso.»[55]
Racalmuto risulta tassato per 15 once, [56] preceduto da:
Licata: unc.
238;
Delia unc. 3;
Naro unc. 166;
Calatarapetta
(sic) Mons maior unc. 6;
Tusa
unc. 2;
Misiliusiphus unc. 4;
Sciacca unc. 250;
Calatabellottum unc. 122;
Agrigentum unc.
380.
Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è
chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
Dopo il Vespro, gli eventi della
Sicilia fibrillano per una cinquantina d’anni. Non è questa la sede per
rievocarli. Michele Amari, nella sua storia del Vespro, ne fa quasi un diuturno
resoconto. Ancor oggi è viva la polemica su quella temperie storica e studiosi
di grande levatura dei tempi nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che
Benedetto Croce, capovolgendo un indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli
angioini dalla Sicilia una nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo
Sciascia ha voglia di essere originale su quello snodo della storia siciliana:
una improvvisa e scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui
si innesta una vorace conquista di un rappresentante dell’ «avara povertà di
Catalogna».
Certo, al papa quella faccenda non
piacque: comminò scomuniche, che si ripeterono più volte per quasi un secolo.
Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne fu totalmente assolto. Che cosa abbia
fatto di così irreligioso il nostro paese da meritarsi un quasi secolare
interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo sicuri: nulla. Così
come per l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime credenti racalmutesi
patirono il terrore dell’inferno per ribellioni (al francese Carlo d’Angiò,
fratello di San Luigi, re di Francia, nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed
autorità civili (insorte nel 1713 per una faccenda di tasse su alcuni rotoli di
ceci del vescovo di Lipari), di cui francamente non ebbero né coscienza e
neppure significativa conoscenza.
Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del
Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese
conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì
passivamente la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei
nobili che corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò
di vivere il 10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del
successore Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe
forse qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non
riuscì a comprendere le ragioni che spingevano i due potenti fratelli (Federico
e Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche
papali, in loco non se ne intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero
colpevoli di nulla (non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti
ragionamenti che preti e francescani si sforzavano di propinare nelle loro
infuocate prediche. Per fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano
lontano, vicino ai posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva
l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si
riusciva a conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi
immigrati e con fertili nozze.
Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due
religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà
rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri
per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le
registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato
sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro
«Rationes Collectoriae Regni Neapolitani
- 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96 abbiamo:
«Martutius de Sifolono pro ecclesia
S. Mariae de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»
In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S.
Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel
retro del foglio n.° 97 ( 97v):
«presbiter Angelus de Monte Caveoso
pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro
utraque tt. ix.»
Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose
per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove
tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum
anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto,
la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba
pontificio.
Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti
officianti a Racalmuto all’inizio
del XIV secolo. Sono religiosi e non appaiono neppure autoctoni; l’uno,
Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di
S. Maria, ed è chiamato
a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310);
l’altro, è il “prete” Angelo di
Montecaveoso, ed è tassato per nove
tarì in relazione all’ufficio
sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo
neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S.
Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna
è mero arbitrio. Il “presbiter” Angelo
de Montecaveoso [57] ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di
Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che
dovevano essere di poco più di un terzo rispetto alle ricche prebende di chi
era titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto
diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.).
La chiesa di Santa Maria era talmente ricca, dunque, da non potersi
ritenere soltanto un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di
feudi o di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino,
e da qui poté nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta documentato
solo a partire dalla fine del secolo XIV. Ma poté trattarsi anche di un
convento, forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e
per l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal
mercato a causa dell’endemico stato di guerra.
Da qui, quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei
suoi Capibrevi dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211». II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san
Benedetto che trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna concordare
con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo Sportivo. Una
volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un convento di s. Benedetto a
Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane traccia,
dei sospetti lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I sospetti si
basano sulle fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo nel mezzo,
che furono quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico Macaluso al
comune, secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per adibirla a
stadio.» Il Messana cita anche un testo di Illuminato Peri, (Manfredi
Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto il foglio
211 che recita «MONASTERIUM SANCTI
BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter
Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum]
existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S.
Benedetto in termini
del tutto critici. Non sappiamo quanto di valido ci sia nel pregevole lavoro di
padre Salvo.
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete
Angelo di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie
corrisposti dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque
averlo. Quattro tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo
migliaio di abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un
centro che non poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio
cilindrico, costruito da Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo
la versione tramandataci dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova
chiesa madre, pensiamo là dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S.
Antonio e cioè, secondo noi, in piazza Castello, in quarterio Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I
documenti vaticani spingono dunque ad una totale revisione della tradizione
(per noi falsa) che gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a
Racalmuto, per il periodo in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo
il paese sorgesse a Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita,
sposata anche da studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale [58]. A Casalvecchio, già alla fine del XIII
secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in
pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:
«Antica
è l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla
peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si
trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio.
Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile,
si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. » [59]
I dati che possiamo ricavare dalle tavole delle
collette pontificie del 1308-1310 non consentono fondate ipotesi su un grande
sviluppo demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione
con le altre località che riusciamo a desumere (Agrigento, Butera,
Caltabellotta, Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata,
Naro, Palazzo Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese
aveva una certa rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla
lontanissima corte papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì non erano poi pesi
intollerabili, ma pur sempre era un prelievo dalla magra economia curtense
racalmutese che veniva dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre
francesi di cui si sconoscevano persino le denominazioni.
Gli emissari pontifici si erano già recati
nell’agrigentino per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo
sotto il dominio di Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu
elevata rispetto a quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il
1310 - in quella sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza
aragonese.
Ci sia di un qualche lume questo confronto:
Denominazione
|
Unciae
|
Tarini
|
Granae
|
Summa
|
|
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per
le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
|
261
|
4
|
8
|
261,4,8
|
|
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per
le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
|
87
|
22
|
10
|
87,22,10
|
|
Differenze
|
173
|
11
|
18
|
173,11,18
|
|
Differenza in
percentuale
|
|
|
|
197,58%
|
Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il doppio di
quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per un
quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310; indirettamente
nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono il canonico agrigentino
Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese, il
francescano Marco d’Assisi, [60] ebbe
dal collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non
sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato
dell’intera diocesi di Agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci
direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo.
In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto
l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia
subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei
vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28
gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu
una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il
Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al
partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla
cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276.
Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostituto Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al
23 agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23
agosto 1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10
dicembre 1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti
rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio
in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da
Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato
dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a
lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile
e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei
primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria,
oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal presule
agrigentino; ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco
(presbiter Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un
balzello di nove tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue
decime o primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli
obbligatori d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo.
L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo
gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio
dell’avara povertà di Catalogna.
FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA
CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
I Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio del secolo XIV. Federico
Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto
costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio del
Trecento, l’attuale fortezza, forse una, forse tutte e due le torri oggi
esistenti. Il territorio era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero
preti e monaci forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal
lontano papa: un piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete
ed un monaco riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte.
Sono ad ogni modo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese.
Forse risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero
ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da costei
sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di
marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIV.
Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto
Federico II Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la
pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci ha propinato in un libro
secentesco, dal fuorviante titolo Cartagine
Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un
ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia
di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di
terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni
“burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e
mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande
storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei Del Carretto su Racalmuto,
quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura
deve farsi risalire al 1400 - che solo negli anni ’novanta del trascorso
millennio chi scrive ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di
Stato di Palermo per un’ostica ma illuminante lettura.
Ma in quell’investitura, scopo,
intento, occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così
esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che
resta particolarmente ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a
quel vantare ascendenze altisonanti: difficile credere a quanto vi si afferma
nei confronti di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto; traluce
invece una realtà ove si scorge la rapacità di codesti esattori delle imposte
dei Martino, quei Martino che risultano più che altro gli avventurieri dell’
“avara povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare
del XIV secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori
e via discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non
quella oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non
escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli
tanto maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Noi abbiamo speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di
Palermo la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più
vetusta ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - venne
riprodotta in un CD-ROM interattivo cui si rinvia. Carta canta e villan dorme:
non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo - disvelati.
Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a giuste
nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di
uxororicidi a comando di principesche padrone dalle propensioni all’adulterio
irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in
“alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove
innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e
Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo
sciasciano.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora
feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente policromi a
testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio, consueto per l’epoca, dei
baroni del Carretto: costoro verso la fine del Cinquecento - dopo un paio di
secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) - hanno voglia di farsi attribuire
un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto; mancano
però l’obiettivo cui particolarmente tenevano: quello di riconoscere il titolo
di marchese che in esordio della loro signoria su Racalmuto avevano
contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto
sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri
ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione che abbiamo
pubblicato ne spazza via ogni briciola di attendibilità. E quel che si scrive su data e struttura del
castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni
sicumera sulle origini storiche del Castelluccio.
Verso il dominio dei Chiaramonte
Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III
d’Aragona - veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che - officiato di tale incarico dal fratello
Giacomo, succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva
ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potentati dell’Isola fino
alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.
Federico III poté detenere il regno di Sicilia per un
quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a
concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un
lungo periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale
baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso
Denis Mack Smith smitizza: «in realtà, - scrive lo storico inglese [61]-
interessi egoistici prevalsero in questa
guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica,
inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattuali e puntuali. Non
crediamo, ad esempio, che se ne ebbero solo distruzioni: anzi, sviluppo
demografico, lavori pubblici per fortificazioni, profitti da
commercializzazioni del grano, necessario al vettovagliamento delle parti in
guerra, sembrano i connotati affioranti da questo travaglio della storia
locale.
Federico III conclude nel 1302 una “pace di
compromesso”: gli bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di
Sicilia: un cedimento di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò.
La guerra ricominciò nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.
Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo
intervallo di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di
innalzare nell’attuale piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di
torri difensive, apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non
convince molto: le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di
là a venire.
Il dotto Fazello, invero, non è che si sbilanci troppo;
si limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra Racalmuto,
centro fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da Federico
Chiaramonte, a cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e poi, a
otto miglia il villaggio di Canicattini.» [62]
Dal passo si evince che lo storico di Sciacca comunque
non aveva dubbi sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata “erecta a Frederico Claramontano”. Ma chi
fosse codesto Federico non è poi del tutto chiaro, potendo anche essere
Federico Chiaramonte I, il capostipite della famiglia, nel qual caso la
datazione della fondazione del Castello retrocederebbe e di molto.
Da dove abbia
tratto la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio
per abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini
circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di
investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di
Racalmuto. Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si
sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili infeudamenti da parte dei
Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso
(capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a
farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di
irrefrenabile visionarietà.
Se poi diamo credito al San Martino de Spucches,
proprio in coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe
fatto erigere il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un
abbaglio: c’è confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani. [63] Per
il San Martino, dunque, «IL FEUDO DI GIBELLINI è in Val di Mazzara,
territorio di Naro, da non confondersi con l'altro sito in territorio di
Girgenti, sul quale sorse poi la terra di Gibellina, eretta a Marchesato.
Appartenne per antico possesso alla famiglia Chiaramonte, dove Manfredo vi costruì la fortezza; in
ultimo lo possedette Andrea Chiaramonte;
questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a giugno 1392 sotto il suo palazzo,
detto lo STERI, ebbe tagliata la
testa.» Una qualche astuzia stilistica cela la confusione in cui si dibatte
il peraltro avveduto araldista. Con franchezza, dobbiamo ammettere che nulla di
certo sappiamo sulle origini del Castelluccio: solo a partire dalla fine del
secolo XIV possiamo essere sicuri della sua esistenza.
Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono
facondi nell’enfiare le rare ed incerte notizie degli storici secentisti che
hanno scritto sulle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua
erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in
encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli,
quello che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del Monte.
[64]
«Decaduta la
famiglia Barrese - scrive il frate di Lucca Sicula - e devoluto
Racalmuto al Regio Fisco fu concesso a Giovanni Chiaramonte Barone del Comiso.
Federico secondo di questo nome terzogenito di Federico primo Chiaramonte
fabricò il magnifico Castello tutt'ora in gran parte esistente. Onde si rifiuta
l'opinione d'alcuni che pretendono il Castello costruzione saracena. Il
Fazzello, Inveges, il Pirri confermano la nostra opinione. Dominò Racalmuto la
famiglia Chiaramonte fino all’anno 1307 passando, pel matrimonio di Costanza
unica figlia del Barone Federigo con Antonio del Carretto, a questa nobile ed
illustre famiglia.»
Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è
ben poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della
emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei
secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto
arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla
crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del
‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero.
Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente al presnto dominio dei
Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto Giovanni
Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del lucchese
sono accettabili, purché meglio chiariti.
Quando, come, in che misura i Chiaramonte si
impossessano di Racalmuto?
Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona,
si è detto che Racalmuto venne alla corte di Napoli assegnato a Piero Di Monte
Aguto e siamo nel 1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo
aveva poche probabilità di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco
ebbe a giungere in loco. La famiglia
agrigentina dei Chiaramonte rivolsero allora i loro occhi a queste terre
alquanto periferiche: Manfredi si assegnò il territorio del Castelluccio (ma
non è certo) e poté benissimo munirlo di una fortezza; il fratello cadetto
Federico II si dichiarò padrone del casale e dell’agro circostante, non
mancando di ergervi l’attuale Castello, sia pure nella sua embrionalità
costituita dalle due torri cilindriche. Costruire torri cilindriche in quel
tempo era divenuta ardua impresa per il diradamento delle maestranze
fredericiane. Ed allora? Un interrogativo che può dissolvere la fondatezza
della congettura che siamo stati per raffigurare. Solo i futuri scavi
archeologici potranno chiarire il mistero: un mistero che si aggrava se i
ritrovamenti di ossame e di ceramiche sotto gli interstizi tra le due torri
dovessero significare presenze abitative o necropoli medievoli antecedenti al
XIV secolo. Le ossa non sembrano invero umane; i cocci sono angusti per
configurazioni significative.
La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da
Illuminato Peri [65] e noi ci accodiamo in
tutta umiltà: «Fu alle soglie del secolo XIV, quando, sotto gli Aragonesi,
mancò un controllo inibente da parte della monarchia, e le concessioni si
moltiplicarono, che i loro feudi e la loro influenza si allargarono; e fu proprio
allora che entrò nella vita cittadina un ramo dei Chiaramonte. Prima, per tutto
il secolo XIII, il feudo non ebbe il sopravvento, e particolarmente nelle
vicinanze della città, non ebbe larga parte neppure la grossa proprietà.»
Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni
di valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi.
Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta
può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del
nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da
Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali
che la avrebbero contraddistinta; sul suo valore atto a «infrenare l’orgoglio dei re e costringerli
ad umiliazioni.»
Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che
nei primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza
Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges [66] che
testualmente così la raffigura:
« Da questo
nobile matrimonio [ e cioè da Federico II Chiaramonte e tale Giovanna] nacque
Costanza unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del
Carretto; Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il
contratto matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di
Terrana à 11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno, come
riferisce Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa
Carretto nel suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27
di decembre 10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di
Not. Pietro di Patti con tali parole: Item instituo, facio, et ordino
haeredem meam universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam,
Consortem Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui
Dominae Constantiae haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate
substituo, ita tamen, quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque
liberis statim anno impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum
Comitem Mohac, et Ioannem de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et
integre revertatur.
2. Venne Costanza
per la morte di Federico Padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta
eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo
genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto:
come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30
d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto
possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per l'immatura morte d'Antonino
suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi bella; nel fiore della sua
gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con Branca, altrimente detto,
Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia nobilissima di Genova; e che
nell'anno 1335 fù Governatore nella Sardegna: Riuscì cotal matrimonio fecondo
di prole. Poiche generò 1. Manfredo; da cui descese Mazziotta, 2. Matteo, 3.
Isabella; moglie di Bonifacio figlio di Federico Alagona; da cui nacquero
Giancione, e Vinciguerra Alagona. La quarta fù Marchisia; che fù moglie di
Raimondo Villaragut, delli quali nacquero Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel
quinto luogo nacque Leonora, moglie di Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la
7. & ultima si fù Genebra.
3. Costanza, restando la seconda volta Vedova,
finalmente si morì in Giorgenti, havendo prima fatto il suo testamento, e
publicato il 28 marzo 1350 nominando suoi esecutori testamentari il suo
primogenito Manfredi, il vescovo Ottaviano Delabro ed il priore del convento di
S. Domenico.»
Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte
ebbe la disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per
la testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro
si specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro
il riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza
Chiaramonte. [67] Si tratta dell’atto transattivo
in cui Gerardo cede al fratello Matteo del Carretto, a titolo oneroso:
«omnia iura
omnesque actiones reales et personales, universales, directas, mixtas
perentorias, tacita, civiles et expressas,
que et quas praedictus dominus Gerardus, tamquam primogenitus, habet et
habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice
domine Constantie de Claramonte eius avie, quam eciam hereditatis magnificorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam
domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto, eius fratris,
quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et
eciam quocumque alio iure competente
domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in baronia
Racalmuti ut primogenito magnificorum
quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris/ eius territorio castro et
casali, nec non in bonis burgensaticis videlicet territorio Garamuli et
Ruviceto Siguliana terminis, cum onere
iuris canonicorum civitatis
Agrigenti ... .. ..et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate
Agrigenti iuxta hospitium magnifici
Aloysii de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum
quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte
occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu
Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris
vacuis vineis, et toto districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte
orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris
quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis
bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius
territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et
censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum spectantiis in
omnibus et singulis bonis stabilibus,
castris, villis baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus.»
Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado
vende e avendone il potere di vendita
concede e per tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al
magnifico ed egregio don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello,
presente e compratore, che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori,
in perpetuo, tutti i diritti e tutte le azioni reali e personali, universali,
dirette, miste, perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto
don Gerardo, come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di
successione o ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua
nonna, nonché per diritto ereditario riveniente dal quondam magnifico signore don Giacomino [Jacobinus]
del Carretto, suo fratello, così pure per diritto di successione ed eredità
riveniente da quondam magnifico Matteo
Doria ed anche per qualunque altro diritto spettante al detto don Gerardo
per qualsiasi ragione, occasione o causa e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come
primogenito dei defunti suoi magnifici genitori ed erede di suo fratello
Giacomino - ed al pertinente territorio, castello e casale, nonché in ordine ai beni burgensatici siti nel territorio di Garamoli, Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con i gravami verso i
canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un tale palazzo
esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico Luigi di
Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S. Matteo ed ai
casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte orientale, e
prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini. Del pari, viene
venduto un giardino che chiamano “lu jardinu di l’arangi” posto nella contrada
di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero distretto ove
scorre il fiume della detta città nella parte orientale e confinante con la via
pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso gravano gli oneri che
ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il predetto atto si estende
a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi esistenti nella città di
Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su tutti e singoli beni
stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e burgensatici ovunque esistenti
nell’intero Regno di Sicilia.»
E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di
Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio
del Carretto - che Costanza ebbe dal
primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del
Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì
che a Matteo del Carretto giungono anche i beni dello zio paterno Matteo Doria,
figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.
Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda
feudale di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano
estranei alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve
periodo in cui la baronia sembra in mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così?
Purtroppo, un documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di
meglio esplicare - revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre
racalmutesi furono di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici,
mentre l’egemonia feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del
XIV secolo. Racalmuto subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina
procurò con la sua strategia politica e con i suoi ribellismi. In che misura?
anche qui un mistero.
E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di
Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che
all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattutto la figura femminile
di Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli -
Manfredi, Giovanni il Vecchio, Federico
II - ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di
Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il signore di Racalmuto al
tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi, a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re
Federico III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella
contea di Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di
Napoli e Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto
della Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la
concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra
sua dimora che si chiamò Steri
(l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore presso l’imperatore Arrigo VII di
Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314 capitano giustiziere di Palermo.
Muore attorno al 1321, lasciando come suo erede il figlio Giovanni I.
Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca
Palizzi. Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che
assediava Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella
difesa di Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di
Calabria. Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di
Palermo. Il Picone [68] ci
assicura che «Giovanni possedette in Girgenti e nel suo territorio case palagi
castella, e terreni che egli economizzava, e nel 1305 permutava il suo casale Margidirami, o di Raham come leggesi in alcuni diplomi, colla chiesa nostra, e ne
riceveva in corrispettivo il casale Mussaro,
col suo fortilizio coi casamenti, e i terreni che lo cingevano, perché la
chiesa non bastava a mantenerlo e custodirlo. - Così egli aumentava le sue guarnigioni
nelle vicinanze della città.» Sarà stato per questo e mal leggendo il Musca
(Ruolo n.° 23) che i nostri storici locali hanno dato la stura a tutta una
serie di falsi, propinati ingordamente, sulla baronia di codesto Giovanni
Chiaramonte su Racalmuto. Quest’ultimo muore nel 1339.
Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca
direttamente: signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311,
lasciando erede la figlia Costanza.
Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita
la contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321;
sposa Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene
ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui
ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta:
aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la
moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare
in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il
Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al
nemico, partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane.
Muore frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337
dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara.
Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo.
Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in
loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero
degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro
razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza
eredi maschi.
L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte
travolge l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro
politico di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico
III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone -
hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o
al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.
Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino
Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento
di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi
receve l’investitura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo
(1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi di sorta per
articolare una qualsiasi risposta. Nel 1351 Manfredi II diviene vicario
generale del Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353,
lasciando erede il figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di
Aragona).
Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la
contea di Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339
partecipa con il fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re
Pietro II.
Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e
diviene governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla
conquista di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina
Cameriere Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353
partecipa con il nipote Simone alla sollevazione di Messina contro Matteo
Polizzi. Concorre alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle
distruzioni a danno dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli
dei Chiaramonte, conti di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV.
Possiamo solo congetturare che Racalmuto
- stante anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta
titolari della baronia - sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei
Chiaramonte. Federico III sale ancora nella scala degli onori pubblici
divenendo nel 1361 Pretore di Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano
Giustiziere di Palermo. Muore nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.
Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia
Aragona, costituisce una parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di
potere di quella schiatta trecentesca siciliana. Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la
sollevazione di Messina del 1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e
della sua famiglia, voluta da Simone, dallo zio Federico III e da altri congiurati.
Nel 1353 eredita i titoli ed i beni dei Chiaramonte. Diviene signore di Ragusa.
Trovatosi a capo della fazione dei Latini, allo scopo di avere il sopravvento
sulla fazione dei Catalani, congiura contro il sovrano e chiama in Sicilia il
re di Napoli, in nome del quale egli presidia Lentini e Federico governa
Palermo. Chiede a Luigi d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona, sorella del re
Federico IV che lo stesso Luigi teneva prigioniera a Reggio. Non venendo
accolta la sua richiesta, pare che si sia avvelenato, oppure che gli sia stato
propinato il veleno. Muore senza lasciare successori legittimi nel 1357. La
meteora di Simone Chiaramonte sembra non avere neppure lambito Racalmuto:
altrove era il teatro delle gesta di questo turbolento personaggio.
Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani.
Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello
di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo.
Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S. Giovanni e
Misilmeri. Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.
E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di
Federico III: sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di
Modica, la signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro
Giustiziere del regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città
ed il castello di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli
succede nel contado di Modica Manfredi III.
E’ costui un
personaggio centrale, di grande spicco a mezzo del Trecento. Abbiamo documenti
vaticani che compravano che il vero padrone di Racalmuto è ora lui: Manfredi
III Chiaramonte appunto, avendo in subordine i Del Carretto o avendoli
estromessi, non sappiamo. Figlio naturale di Giovanni II (secondo La Lumia,
Villabianca e Pipitone Federico), sposa in prime nozze Margherita Passaneto e
poi Eufeminia Ventimiglia. Nel 1351 domina in Lentini e Siracura. Partecipa
alla congiura contro il re con Simone Chiaramonte. Nel 1358 chiede aiuti al re
di Napoli contro il re di Sicilia ed i Catalani. Finalmente, nel 1364 si
riconcilia con il Sovrano, riporta Messina, ancora in mano degli Angioini ,
all’obbedienza di Federico IV (detto il Semplice) dal quale viene onorato della
carica di Grande Ammiraglio. Nel 1365 ottiene dal re la contea di Mistretta, la
signoria di Malta, della città di Terranova, di Cefalà. Fu padrone delle terre
di Vicari, Palma, Gibellina, Favara, Muxaro, Guastanella, Carini e Comiso, Naro
e Delia, oltre ad altri feudi intorno a Messima. Manfredi III si trasferisce
nel 1365 da Messina a Palermo. Nel 1374 eredita dal cugino Giovanni III il
contado di Caccamo e i feudi di Pittirana, S. Giovanni e Misilmeri. Ma in
quell’anno è divenuto tanto potente da impedire al re Federico IV di sbarcare
in Palermo per l’incoronazione ufficiale. Nel 1375 può conciliarsi con il Re e
gli viene concessa la signoria di Castronuovo con Mussomeli, che da lui prende
il nome di Manfreda. Nel 1377, alla morte di Matteo, viene investito dal
Sovrano della contea di Modica, comprendente vari feudi. Nel 1378 fu uno dei
quattro Vicari che governarono la Sicilia durante la minore età della regina
Maria. Conquista nel 1388 l’isola delle Gerbe e viene investito dal papa Urbano
VI del titolo di Duca delle Gerbe. Nel 1389 dà la figlia Costanza in sposa al
re Ladislao di Napoli, che però la ripudia dopo la rovina dei Chiaramonte.
Muore nel 1391 lasciando eredi delle sue sostanze le figlie. Per un bastardo,
il destino ebbe in serbo una sequela di ascese da capogiro. Con chi non fu concepito in
legittimo talamo il potere di una sola famiglia tocca l’acme: ma subito dopo fu
il tracollo, per imprevidenza, per intrusione nelle cose di Sicilia della casa
regnante ispana, per il gioco della politica a dimensioni divenute sovranazionali.
E Racalmuto tornerà nell’alveo di una dimessa baronia delcarrettiana.
Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte
di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte
comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale
Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza
la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo
nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno
dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e
decapitato dinanzi allo Steri il 1°
giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle
vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando
più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti catalani. Racalmuto può finire -
o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico,
appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino e, dopo la morte di Andrea, si rifugia con aderenti e
amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per
andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna
mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel
Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non
sono i Del Carretto ad avere peso sull’umano vivere locale; forse una
intermittente incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per
il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo
contadino; quello sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche;
quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese,
confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle
torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei
loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si
fosse trattato di benefattori.
Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura
dei Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di
grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti
notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica
di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una
dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una
provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha
l’attenzione del Chronicon Siculum
(CVIII) e del Villani (XI, 108). [69] Nel
novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella napoletana
che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débâcle. Il cronista
coevo ci racconta che i Siciliani «furono debellati, e presi così che non uno
di essi sfuggì, se non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale disfatta
vollero rilasciare e rimandare». Fra i nobili catturati furono Giovanni
Chiaramonte (di cui abbiamo detto prima), il comandante della flotta, Orlando
d’Aragona fratello naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale del
defunto re Pietro d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da Palermo,
Vincenzo Manuele da Trapani. E, per quello che a noi più preme, Matteo Doria.
Questi per adempiere all’impegno contratto per il riacquisto della libertà
dovette vendere la tenuta di Fontana Murata del valore di 1500 onze per 500
onze. [70]
Matteo Doria era figlio di Brancaleone Doria e di Costanza Chiaramone, proprio
quella che aveva avuto per marito di primo letto Antonio del Carretto con cui
aveva generato il nostro Antonio II del Carretto. Questi e Matteo Doria erano
dunque fratelli sia pure soltanto uterini. Matteo Doria aveva per fratello
germano Manfredo (ribelle a Federico III, ma reintegrato nei beni; esule e poi
stabilitosi ad Agrigento) e le tante sorelle: Isabella, Marchisia, Leonora,
Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte fu dunque donna molto feconda: tre
figli maschi da due diversi mariti e ben cinque figlie femmine (per quello che
se ne sa). Nelle tante doti che dovette fare rientrò mai Racalmuto? Davvero
venne assegnato in esclusiva ad Antonio II del Carretto? Ed il riafflusso dei
beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti di cognome Del Carretto annetteva anche la nostra baronia? Misteri
del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado di dipanare. L’Inveges va
invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo, faccia pure.
Se seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare
che Manfredi Doria abbia spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il
De Gregorio [71] ci pare in definitiva
piuttosto perplesso. Ai fini della nostra storia, i Doria non ci paiono,
comunque, di particolare rilievo, ragion per cui non abbiamo dedicato molte
ricerche su tale ceppo di mercanti e navigatori genovesi, approdati ad Agrigento
che fu provvida pedana per una fortuna feudale che li fa assurgere a cospicui
rappresentanti della nobiltà sicula trecentesca.
Dalle brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei
Del Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I
Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza,
quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo
escludere, sulla base degli agiografici loro storici alla Inveges o alla
Giordano, ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure
se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia
o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo pervenne ai carretteschi. E ad
investigare sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture
di nessuna fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio
Napoleone Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle
fantasiose enfiature araldiche può farvi ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del
Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio
Antonio II Del Carretto. Vi è però una sola fonte e sono le carte
dell’investitura di Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o
parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo
secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in
seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione
sulla circostanza di un Antonio II Del
Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì far fortuna in compagnie di
navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del
marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza
fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua
nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di
codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal
marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra
che si siano divisi quel marchesato in tre parti. A Corrado andò Millesimo, ad
Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato
stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota,
al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è
presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel
1263. [72]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi
ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del
padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292
stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che
sposa Catterina dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di
Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto
avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di
Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli
prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da
Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali appare tutrice nel 1361. Gli
succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote Lazzarino II
operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre
Antonio del Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo
indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte
- sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, il primo cui si
accredita la baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi
nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di
padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre
Racalmuto nel 1344 per atto del Notar
Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle
notizie dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto ad un
certo punto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato a Genova, come detto.
Là si sarebbe arriccchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là
sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del citato atto ove
possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del Carretto. «Infine il predetto don Gerardo promise,
sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia tutti i privilegi, le scritture e i rogiti
relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto,
che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam
don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il
detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto
ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli,
mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente
quelle tenute date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione della
detta vendita.»
[1]) Benedetto Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari
1947, 9^ ed. pag. 71.
[2]) Denis Mack SMITH,
Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza Bari 1973, vol. I pag. 21.
Questo libro e il suo autore furono cari a Leonardo SCIASCIA. La gelosia degli
storici siciliani fu persino patetica. Ecco, ad esempio, casa pubblica Santi
CORRENTI a pag. 29 della sua Storia di Sicilia come storia del popolo
siciliano, Longanesi Milano 1982 «...a lodare il Mack Smith per il suo 'stile
provocatorio' rimase il solo Leonardo Sciascia, che però si rifece
clamorosamente, facendo decretare al suo amico inglese gli onori del trionfo,
in una speciale manifestazione organizzata a Palermo il 6 aprile 1970, niente meno che al palazzo dei Normanni:
onore mai concesso a nessuno storico, e assolutamente sproporzionato al merito
dell'opera (e il primo a stupirsene fu lo stesso Mack Smith).» Secondo il
Correnti, anche Francesco Brancato, Giuseppe Giarrizzo, Gaetano Falzone,
Francesco Giunta, ed altri, avrebbero storto la bocca di fronte alla storia
siciliana dell'inglese Smith. La quale, invece, è oggi universalmente
cosiderata un classico, come tante altre opere dello storico inglese.
[3] ) Leonardo Sciascia, La
Sicilia come metafora, Mondatori Milano 1979, p. 12. E potremmo citare
“Occhio di Capra” ove l’arabismo scasciano plana addirittura nell’onirico.
[4]) EDRISI, Sollazzo
per chi si diletta di girare il mondo,
libro I, pag. 94 in Biblioteca Arabo-Sicula, a cura di Michele Amari,
Roma 1880.
[5]) «Un problema complesso e
contraddittorio», le cui fonti sono giunte a noi in copie del XVII e XVIII
secolo. S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, op. cit.
pag. 543.
[6]) S. Tramontana, "La monarchia normanna e sveva", op.
cit. pag. 541.
[7]) Secondo i
BOLLANDISTI [ACTA SANCTORUM BOLLANDISTORUM, collegerunt ac digesserunt
Joannes BULLANDUS, Godefridus
HENSCHENIUS, Societatis Jesu Theologi - "De S. GERLANDO - Episcopo
Agrigentino in Sicilia", addì 25
febbraio, tomo III, Antuerpiae, apud Iacobum Meursium, 1658 p. 590 ss.] - autori secondo il COLLURA [op.cit. p. XI] della "migliore dissertazione su
S. Gerlando" - il primo vescovo di Agrigento post saraceno potè essere
consacrato dallo stesso pontefice
Urbano II nello stesso anno in cui questi
salì al soglio pontificio (12 marzo 1088). Ma è congettura che viene
avanzata solo sulla base di un'asserzione
del PIRRO che vuole Gerlando consacrato da Urbano II
"ex pontificio diplomate". L'assegnazione dei confini diocesani da parte di Ruggero è però del
successivo 1093. Al 1092, il COLLURA - sulla base anche del primo documento capitolare di Agrigento - fa
risalire l'inizio dell'episcopato di Gerlando. Peraltro, un documento - Libellus, c. 18B - afferma: «complens
duodecim annis beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino vicesimo quinto die mensis februarii [1104]».
Il conto con il 1092 dunque torna. Ed il primo documento dell'archivio di Agrigento porta la data
appunto del 1092. [Puntuali, come sempre, le notizie e le note critiche in
proposito del Collura, op. cit., p. XI e
p. 3]. Il PICONE parla del 1090 [op. cit. p. 823], ma incidentalmente e senza alcun supporto
critico.
[8]) «Ego Rugerius ... in conquisita Sicilia
episcopales ecclesias ordinavi, quarum una est Agrigentina Ecclesia, cuius episcopus vocatur GERLANDUS , cui in
parochiam assigno quicquid intra fines
subscriptos continetur, [ ... ], videlicet, a loco ubi oritur flumen de
subtus Corilionem, usque desuper petram de Zineth, et inde tenditur
per divisiones Iatinae et
Cephalae, et deinde ad divisiones Bichare; inde vero usque
ad flumen Salsum, quod est divisio Panormi et Therme, et ab ore
huius fluminis, ubi cadit in mare,
protenditur haec parochia de
iuxta mare usque ad flumen Tortum, et ab hoc, ab inde ubi oritur,
tenditur ad Pira de subtus Petram Heliae, atque inde ad altum
montem, qui est supra Pira; inde autem ad flumen Salsum ubi iungitur cum flumine
Petra Helie, et ex hoc flumine sicut ipsum descendit ad Limpiadum, qui
locus dividit Agrigentum et Butheriam;
atque inde per maritimum usque ad flumen de Belith, quod est divisio Mazariae,
et aduch tenditur sicut hoc flumen currit usque de subtus Corilionem
, ubi incepit divisio, exceptis Bichara et Corilione et Termis.»
Questo documento è pubblicato sub
2) dal Collura, ["Le più antiche
carte ...", op. cit. p. 7-18], ed è sottoposto ad una esegesi molto
accurata. Del resto trattasi del diploma fondamentale della Chiesa agrigentina normanna. Noto al Fazello, fu
ripreso dal Pirro [I, p. 695 A-B] e se ne occuparono STARABBA, LA MANTIA,
GARUFI, PICONE, RUSSO, BERNARDO, FULCI, PUNTURO, SALVIOLI, WINKELMANN,
LAURICELLA, KEHR, CASPAR [v. Collura, op.
cit., p. 7]. Il documento edito dal Collura viene considerato "una
copia incompleta della seconda metà del
XII secolo. Altre copie, ma tardive, dell'intero diploma si conservano in
Palermo, Archivio di Stato, in 'Prelatiae
Regni', I, codice n. 54, CC.109A-110A [I], redatta il 10
febbraio 1509, ed in 'Liber
Regiae Monarchiae Regni Siciliae', I, codice n. 56, cc. 49A-51A [L],
redatta il 3 gennaio 1555 (apografo del
1770; l'originale è conservato nell'Archivio di Stato di Torino)"
[op. cit. p. 7].
Il FAZELLO, il religioso di
Sciacca nato nel 1498 e morto nel 1570, fu il primo a scrivere su questo documento [Tommaso FAZELLO, "Storia di
Sicilia, Deghe due", Palermo 1830, tomo II p. 86]. I padri bollandisti si
avvalsero dell'opera del Fazello, ma
ancor di più di quella del Pirro, per la loro dissertazione sul documento
e su S. Gerlando [cfr. Acta Sanctorum Bollandistorum, op. cit., p. 590 e
ss.]. Anche il Picone [op. cit. appendice I] riporta il testo con
note critiche, ma copia pedissequamente dal Pirro. Il quale [ Sicilia
sacra, t. I, p. 695 e 696], non ha sottomano i documenti originali di
Agrigento e si avvale di corrispondenti locali.
Considerano autentico il documento WINKELMANN, LAURICELLA, KEBER, CASPAR,
GARUFI, JORDAN e SCADUTO; sono per la falsità: BERNARDO, FULCI, STARABBA,
PUNTURO e SALVIOLI.
Nell'opera del Netino può leggersi, anche, la Bolla di papa Urbano II di
ratifica, del 10 ottobre del 1098.
Il Pirro utilizzò il diploma agrigentino, donde tutti
gli altri editori tra cui il MANSI,
il CARUSO, il PICONE, il RUSSO e il PUNTURO [Collura,
op. cit., p. 21]. Nel 1960 il documento viene edito criticamente dal Collura
[op. cit. doc. n. 5, p. 21-24], secondo il quale "nel complesso il testo
della bolla è sincero".
[9] ) I
REGISTRI DELLA CANCELLERIA ANGIOINA - VOL. VIII - A CURA DI JOLANDA DONSI' GENTILE -(Ricostruiti
da Riccardo FILANGIERI con la collaborazione degli Archivisti Napoletani) vol.
VIII 1271-1272 Napoli 1957
[10]
) Reg. 1271.A, f. 246. Fonti: De Lellis
l.c. Dal Secreto Sicilie - cfr. op. cit. pag. 65 La località viene nell'indice,
a pag. 333, riferita a Racalmuto (veramente
sta scritto: Racalnuto). Per De Lellis l.c. bisogna intendere: Carlo De
Lellis, Notamenta ex registris Caroli I. Trattasi di un manoscritto. Il
documento trovavasi già pubblicato in una analoga opera: REGESTA CHARTARUM
ITALIAE - 'GLI ATTI PERDUTI DELLA CANCELLERIA ANGIOINA' - transunti da Carlo de
LELLIS, pubblicato sotto la direzione di Riccardo Filangieri, a cura del R.
Istituto Storico per il Medio Evo - Roma 1939 - Vol. I a cura di Bianca
Mazzoleni - Il testo palesa molte difformità, sia pure solo formali. [v. pag.
55]
967 - Petro Negrello de Bellomonte militi, exequtoria concessionis
casalium in pertinenciis Agrigenti, videlicet Rachalgididi, casale Rachalchamut
et Sabuchetti et casale Brissane, nec non domus in qua habitat Fredericus
Musca proditor; que casalia
Rachalgididi, Rachalchamut et Sabuchetti et dicta domus fuerunt Frederici et
casale Brissane devolvit per obitum sine
liberis quondam Iordani de Ceva. - (f. 246)
Vi appunta la sua
attenzione ( ma con qualche inesattezza): Illuminato PERI: Uomini, città e
campagne in Sicilia dall'XI al XIII secolo - Laterza, Bari 1978. Nella nota n.
6 al cap. XXI (cfr. pag. 331 e 332) riduce in questi termini l'assegnazione di
Racalmuto: La nuova lotteria feudale dai
Reg. ang. (e cioè: I Registri della
Cancelleria angioina, ricostruiti da R. Filangieri di Candida e dagli
Archivisti napoletani, Napoli 1950 sgg. - cfr. pag. 294) .......RAHLHAMUD e
altri casali già di Federico Mosca e Giovanni de Ceva ( VIII, pag. 65, a Pietro
Nigrel de Bellomonte) ...
La nota riguarda il
seguente passo di pag. 266: «Erano espressione, nell'insieme, e con maggiore
evidenza i secondi, del movimento nella cerchia dei feudatari di Sicilia
verificatosi sotto Carlo d'Angiò: una lotteria che toccò intiere terre e casali; ma che, se non
mise in circolo una feudalità
irriguardosa per ambizioni fondate su reale potenza, non creò neppure un solido
aggangio alla dinastia. Anche perchè i nuovi signori non foruno accompagnati da
un seguito che avesse presa sul tessuto demico o valesse quanto meno a
contenere prevenzioni e risentimenti, nostalgie seppur strane e aspettative
magari vaghe ...»
[11] ) Michele Amari - La
guerra del Vespro siciliano - Milano 1886 - vol. I - cap. X pag. 3.
[12] ) Michele Amari - La
guerra del Vespro siciliano - Milano 1886 - vol. I - cap. IX pag. 339 e pag.
340. Cfr. in particolare la nora sub 1) di pag. 339 che bene inquadra la
questione del diploma del 30 dicembre 1282, base della narrazione dei fatti che
vedono tra i protagonisti appunto il nostro Federico Mosca, indicato come conte
di Modica.
[13] ) Illuminato Peri - La
Sicilia dopo il Vespro - Uomini, città e campagne 1282/1376 - Bari 1981, pag.
31.
[14] ) Michele Amari - La
Sicilia dopo il Vespro ..., op. cit. p. 345.
[15] ) Michele Amari - La
Sicilia dopo il Vespro ..., op. cit. p. 55 e segg.
[16] ) Michele Amari - La
Sicilia dopo il Vespro ..., op. cit. p. 65.
[17] ) Arturo Petix - Da
Milocca a Milena - Milena 1984, pag. 27.
[18] )
Nell'inventario dei Registri Angioini compilato nel 1568 al n.12 leggiamo:
«Item uno altro registro di carta ut supra intitulato Registrum Regis Caroli I°
anni 1271, comincia 'Scriptum est Bayulis' e finisce 'ultimo augusti XV
indictionis' di carte n. 248.» Cfr. pag.
248: PROVISIONES SEQUENTES DIRIGUNTUR SECRETIS SICILIAE. - Cfr. pag. 250 : N.
966 Petro Negrello de Bellomonte ...
etc. c.s. Pietro, Conte di
Montescaglioso, Camerario del Regno, BEAUMONT (de) o BELMONTE ( cfr. pag vol.
VIII 127, 128, 145, 173, 187, 191, 199 etc.) NEGRELLO PETRO DE BEAUMONT (cfr.
pag. 65 e 182). Cfr. pag. 145 (n. 246) -
Mandatum pro mutuo unc. C cum Petro de
BELLOMONTE, Montis Caveosi et Albe Comite, Regni Siciliae Camerario. Reg. 1272, XV ind. f. LXVIII, t) De Lellis
l.c. n. 580.
[19] ) Léon Cadier -
L’amministrazione della Sicilia angioina, a cura di Francesco Giunta -
Flaccovio editore Palermo, 1974 -
[20] ) Sul sipario non è poca
la letteratura sinora accumulata. Citiamo a caso: Gaetano Restivo: quel sipario
abbandonato, in Malgradotutto, novembre 1993, f. 2MT; Aldo Scimé: Perché
rinasca, in Malgradotutto, settembre 1994, f. 3MT; Leonardo Sciascia su
l’Espresso (1978?) citato dallo Scimé;
[21] ) Leonardo Sciascia - Il
mito del Vespro, Sciacca 1982, pag. 21.
[22] ) ibidem,
pag. 13.
[23] ) ibidem,
pag. 14.
[24] ) Ci riferiamo al
documento VIII che Giuseppe Silvestri pubblicò nel 1882 tra i “Documenti per
servire alla storia di Sicilia” - Prima Serie - Diplomatica - vol. V - Palermo
1882 - “De rebus regni Siciliae” (9 settembre 1282-26 agosto 1283). Documenti
inediti estratti dall’Archivio della Corona d’Aragona - Documento VIII - pag. 8
(Palermo 10 settembre 1282, ind. XI) - «.... universitati RACALBUTI. Archeorum
XV».
[25] ) Illuminato Peri -
Uomini, città, e campagne in Sicilia, dall’XI al XII secolo - Bari 1978, pag.
12.
[26] ) Paolo Collura: le più
antiche carte dell’Archivio Capitolare di Agrigento -Agrigento 1961
[27]) Come ebbi a scriverti a
pag. 5 e seguenti del mio precedente malloppo si tratta del seguente passo
della Notitia contenuta a pag. 697 della Sicilia Sacra del Pirri: «XIV. Warinus, sive Guarinus eiusdem coenobii
monacus ... in episcopatu Agrigenti, Dragoni successit an. sal. 1105. uti
ipsemet memoriae prodidit in quondam privilegio. Anno incarnationis dominicae 1108 praesulatus mei anno IV. Rogerii
junioris consulatus, forte comitatus,
anno III. Robertus Malconvenant cum
Giliberto consanguineo suo milite perfecis in praedio suo sub honore S.
Virginis Margaritae templum, illudque multis auxit praediis. ac Gilibertus
clericali tonsura decoratus illa bona in praebendam Canonicatus Ecclesiae
Agrigentinae dedit, dummodo tres libras incensi anno quolibet 15. augusti in
festo S. Mariae persolveret. De hoc Roberto Malconvenant domino praedii, quod
nunc est oppidum Rayalbuti [sottolineatura nostra, n.d.r.], atque eius filio Guillelmo Malconvenant
Magistro Justiciario Magn. R. C. ....
[28]) Gli altri due accenni
del Collura alla nostra chiesa di S. Margherita sono: a) Documento n. 27 [pag.
63-65] e b) Libellus (c 16 A [rectius c.17
a], n.d.r.]), pag. 304.
Il Documento sub a) non ci è di molto aiuto per la nostra
ricostruzione: esso si limita ad includere in uno scarno elenco [pag. 65] la "Ecclesia Sancte Margarite virginis, incensi libras. III". Per
il Collura non vi sarebbero dubbi: si tratta per lui del beneficio dei nostri
due documenti nn. 8 e 9 sopra riportati [cfr. nota n. 2 di pag. 65 del
Collura]. L'elenco si intitola CENSUUM INDICULUS e viene datato prima del 1177. Quell'accenno
all'onere delle tre libbre d'incenso sembra dargli ragione.
Molto più complesso è il discorso sul documento sub b). Il
riferimento è al «Libellus de successione pontificum agrigenti et institutione
prebendarum et aliarum Ecclesiarum dyocesis, sicut ex relatione cognovimus
precedentium seniorum et ipsi inspeximus in eodem statu». Il Collura
data questo la stesura di questo Libellus nel "1250 o comunque,
giacché il documento più recente (n. 74) è del 1252, non più tardi del
1260" [pag. XXII]. Il passo che ci interessa è il seguente: «Sancta Margarita [e qui il Collura
annota: "S. Margherita Belice (cfr. docc. nn. 8-9), n.d.r.] beneficium cuius est
terra sua et burgenses in spiritualibus et temporalibus cum platea et
mercedibus». Al riguardo non son proprio certo che il Collura abbia
ragione. Il precedente passo recita: «Quatuordecim debet habere Ecclesia Agrigentina et non
amplius. Subsequencia fuerunt beneficia: ..» e segue l'elenco dei benefici
tra i quali quello citato di Santa Margherita. Non si può quindi escludere che
prima del 1250 vi sia stata una generale ristrutturazione di tutti i benefici
canonicali della curia Agrigentina (prima infatti di parla di una prebenda «insituta de camera pro auctoritate legis»)
e in quel frangente si attribuì ad un canonicato (che sappiamo dal Pirri essere
stato nel XVII secolo il XVIII°) il beneficio di Racalmuto, denominato più o
meno appropriatamente di Santa Margherita nel ricordo o falsando il vetusto
beneficio del Malcovenant, che peraltro si riferiva a S. Margherita Belice.
Un'astuzia curiale non è poi tanto impensabile ed inconsueta.
[29] ) Nicolò
Tinebra-Martorana - Racalmuto, memorie e tradizioni - Racalmuto 1982, pagg.
55-57.
[30] ) Cfr. l'Appendice al
volume del Tinebra-Martorana, pag. 199.
[31] )
Addirittura elogiativo asserendo il grande scrittore che «il libro, per i
racalmutesi, per me racalmutese, va bene così com'è: col gusto e il sentimento
degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l'autore, con l'aura
romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre» (op. cit. pag. 9).
[32] ) P. Girolamo M.
Morreale, S.J - Maria SS. Del Monte di Racalmuto - Racalmuto 1986, pag. 23.
[33]) In effetti si ignora
l'anno della morte del Vescovo Guarino o Warino che addirittura potrebbe essere
avvenuta attorno al 1128 (Cfr. Collura P. , Le più antiche carte..., op. cit.
pag. XII)
[34] ) N. Tinebra Martorana,
Racalmuto, op. cit. pag. 60 e segg.
[35]) Vito Maria Amico Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi
secundi pars altera, Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma
pos. 1.24.C. 19/24] In proposito, il passo in latino di pag. 115 è il seguente:
« ... Barresiis subinde datum [Racalmuto,
cioè]; Joannes subinde eiusdem familiae ad Andegavensium partes deficiens, secum opida sibi subdita
traxit, Petrapretiam, Nasum, Rahalmutum et alia.» Gioacchino Di Marzo ne fece questa
traduzione: « .... dato poscia a' Barresi;
poichè Giovanni della medesima
famiglia essendosi ribellato in pro delle parti angioine, seco trasse i soggetti
paesi Pietraperzia, Naso, Racalmuto ed altri.»
[36]) F. M. Emanueli e Gaetani
- Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore [copia anastatica
dell'edizione Palermo 1759 - Parte II, libro IV, pag. 199 e segg. Invero, l'A.
sembra voglia far ricadere la colpa al padre Aprile. Noi, a dire il vero, non
abbiamo avuto modo di consultare l'opera di questo storico siciliano che
scrisse nel 1725. Disponiamo solo di una bibliografia del Bresc ovè è così
segnato: Francesco Aprile, Della
cronologia universale della Sicilia, Palerme, 1725, XXIV-808 p. [centré sur
Caltagirone]. Vedi Henri Bresc: Un monde méditerranéen - économie et société
en Sicile - 1300-1450 - Palermo 1986, pag. 48. Ad altri studiosi
quindi il compito ed il gusto di correggerci ed eventualmente integrarci.
[37]) Anche se non l'artefice
primo della fantasiosa baronia racalmutese dei Barrese, il Villabianca è
responsabile degli abbagli storici degli ereduti di Racalmuto - a cominciare
dal padre Bonaventura Caruselli da Lucca [Sicula], non proprio indigeno,
dunque, ma pur sempre autore principe del racconto della 'venuta' della Madonna
del Monte. Questi a pag. 2 del suo libretto Maria
Vergine del Monte in Racalmuto, Palermo 1856, testualmente annota:
«L'ultimo di questa dinastia fu Giovanni Barrese, il quale al riferire del padre Aprile (Cron. Sic. cap. 1 f. 164)
[corsivo ns.] si rese indegno del dono, oscurando col più turpe tradimento la
fede siciliana. Nella guerra tra Carlo d'Angiò Conte di Provenza e Manfredi lo
Svevo Re legittimo del regno di Sicilia e Napoli fu il primo che vilmente
desertò le bandiere del suo Re, e passò al partito Angioino acquistandosi il
nefando nome di traditore della patria e del suo Re, una marca indelebile di
eterna infamia, e la perdita totale di tutti i beni, giusto e ben dovuto premio
dei traditori. Ma l'infamia a chi tocca: il vespere Siciliano manifestò al
mondo il valore dei figli di Sicilia, e la lor fedeltà ai legittimi Sovrani.»
La frase che abbiamo riportato in corsivo svela la totale sudditanza del p.
Caruselli dal Villabianca (a parte la diversa pagina: 164 al posto di 144,
evidentemente un mero errore). Ecco infatti cosa aveva scritto il celebre
autore della Sicilia Nobile a pag.
199 e ss. - parte seconda, libro IV: Racalmuto «credesi indi concessa dal Rè
Ruggieri Normanno figlio del liberatore testè accennato ad ABBO BARRESE in
consuso con quelle Terre, che sotto l'aggettivo di pleraque oppida per conto di
esso Barrese numera FALZELLO nella sua Stor. di Sic. dec. 2. lib. 9. cap. 9 f.
184 avvegnachè sullo spirare del secolo decimoterzo stava ella in potere di
Giovanni BARRESE, il quale al riferire
del Padre APRILE Cron. Sic. f. 144 c. 1 [corsivo nostro] fu il primo tra i
Baroni del nostro Regno, che nelle guerre fatte dall'armi dei Collegati
Angioini in quest'Isola passasse al loro partito col suo vassallaggio
consistente nelle Terre di PIETRAPERZIA, NASO, RAGALMUTO, CAPO D'ORLANDO, E
MONTEMAURO, terra oggi disfatta, situata in quel monte, che si alza fra la
Città di Piazza e 'l MAZZARINO presso il fiume Braeme. Sicchè dichiarato
fellone esso Giovanni, cadde Tal Baronia nelle mani del Reg. Fisco.» (Vedasi:
F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore
[Copia anastatica dell'edizione Palermo 1759] - RAGALMUTO - [pag. 199 e ss.
Parte II Libro IV).
Il padre Caruselli sicuramente non consultò il p. Aprile,
come noi del resto. Ma fu abbaglio suo personale quello di credere che Giovanni
Barrese sia stato privato delle sue terre per aver tradito Manfredi a favore di
Carlo d'Angiò, grosso modo tra il giugno del 1265 ed il febbraio del 1266. Le
turbolenze di Giovanni BARRESE avvennero invece nella contesa tra i due
fratelli Federico III e Giacomo II d'Aragona e cioè tra il 1298 ed il 1302,
circa vent'anni dopo il Vespro siciliano: Illuminato Peri (vedasi La Sicilia dopo il Vespro - uomini, città e
campagne 1282/1376 - Laterza Bari 1982, pag. 39) data la dissidenza di quel
nobile attorno al 1299 (ed era solo signore di Pietraperzia, Naso e Capo
d'Orlando, come da pag. 39 e nota 44). Il padre Caruselli non era ovviamente
ferrato nella storia medievale della Sicilia, e l'intrigo degli eventi lo
giustifica. Ma quell'accenno ai Vespri Siciliani ebbe grande fortuna. Il
Tinebra Martorana, con la sua «aura romantica e un tantino melodrammatica», per
dirla alla Sciascia, vi si buttò a capofitto vergando il capitolo IV su
Racalmuto e la famiglia Barrese (pag. 58 ed. 1982). Eugenio Napoleone Messana
diviene incontenibile - da pag. 54 a pag. 58 - nella sua storia su Racalmuto
(ed. 1969). Purtroppo anche il valido padre Calogero Salvo cade nella trappola,
in ispecie a pag. 25 del suo Ecco tua
Madre - Racalmuto 1994. Non si
lascia ingannare, invece, da quell'ambiguo parlare di un passaggio "ad
Andegavensium partes" dell'Amico l'avv. Francesco San Martino De Spucches:
Egli bene inquadra la congiuntura storica: «Questi [Giovanni Barrese] - scrive
a pag. 181 del quadro 783, op. cit. -
visse sotto Re Giacomo d'Aragona e seguì il suo partito. Re Federico,
fratello di Giacomo, divenuto Re di Sicilia, dichiarò esso Giovanni fellone e
gli confiscò i beni. Da questo momento comincia una storia certa e noi
cominciamo da questo momento ad elencare i baroni di Racalmuto con numero
progressivo...»
[38]) F.
TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRAEDICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC PRIMUM
IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS - Panormi ex
postrema Fazelli authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes Mattheus
Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad Praetorium, sub
Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense iunio. [Biblioteca Nazionale -
manoscritti e libri rari - 10.7.E.5] Barrese (origine e genealogia) pag. 592 -
De rebus .. posterioris decadis liber nonus - cap. Nonum
Hic genus suum ad Abbum Barresium,
cuius pater ex proceribus, qui cum Rogerio Normanno ad propulsandos Sarracenos in Siciliam venerunt, unus fuit,
ut Rogerij Regis diplomate constat, hoc ordine refert. Ex Abbo, qui
Petrapretiam, Nasum, Caput Orlandi, Castaniam, et pleraque alia oppidula à
Rogerio Rege adeptus est, Matthaeus.
[39] ) Leonardo Sciascia -
Morte dell’Inquisitore - Bari 1967, pag. 181.
[40] ) Sac. Calogero Salvo -
Ecco tua Madre - Racalmuto 1994 - pag. 24.
[41] )
MEMORIE DEL GRAN PRIORATO DI MESSINA - RACCOLTE DA FRA DON ANDREA MINUTOLO dei
baroni del Casale di Callari, e feudi di Boccarrato - Cavaliero Gerosolimitano
1699 - dedicate all'illustrissimo Eccellentissimo Signo mio Padrone
Colendissimo il Signor Fra D. Giovanni Di Giovanni de Principi di Tre Castagni
; Gran Priore di Messina, e già di Barletta, Capitan Generale della Squadra
Gerosolimitana, e Condottiero di quella di N.S. Innocenzo xij nel 1692-1693. In
Messina - Nella stamperia camerale di Vincenzo d'Amico 1699 - Con licenza de'
Superiori.
[42]) Avv. Francesco San
Martino de Spucches - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia,
dalla loro origine ai nostri giorni (1925) - vol. VI, Palermo 1929, pag. 181 e
segg.
[43] ) Michele Amari - La
guerra del Vespro siciliano, vol. i - Milano 1886, pag. 386.
[44] ) Cfr. l’opera
precedentemente citata del Silvestri, Vol. V Palermo 1882, pag. 9 e segg.
[45] ) cfr. ibidem
pag. 12.
[46] ) Leonardo Sciascia,
presentazione della mostra di Pietro d’Asaro, Racalmuto 1984, pag. 20.
[47] )
cfr. raccolta dei Documenti per servire
alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI - Appendice - Messina 30
dicembre 1282 - pag. 687.
d ) ) [CARUSO,
Storia di Sicilia par. 2. lib. I. f.19].
a ) [Vedensi le Allegazioni del Dottor don Emanuele lo Giudice fog. 8. e 96. fatte
a favore del Principe della Riccia per l'esecuzione della Chiaramontana reintegrazione
stampate in Palermo 1755. f. 96].
[48] )
Francesco M. Emanuele e Gaetani, marchese di Villa Bianca - DELLA SICILIA NOBILE - Palermo 1759 - Parte Seconda - lib. IV,
pag. 4 e segg.
[49] ) Documenti per servire
alla storia di Sicilia, Vol. V 1882, cit. doc. XXI p. 24.
[50] ) cfr. DSSS, vol. V, cit.
p. 66 doc. n.° LXVIII.
[51] ) ibidem, pag. 131 - doc. n.° CXLI.
[52] ) ibidem, doc. n.° CCXXIX.
[53] ) ibidem pag. 203.
[54] ) ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII.
[55] ) ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV.
[56] ) ibidem pag. 295.
[57] ) Montescaglioso (Matera), comune: 9900 ab., a 352 m s.m.
Centro agricolo tra la valle del fiume Bradano e la gravina di Matera. Anticamente si chiamava Severiana. La
contessa Emma vi fondò verso la fine del XII secolo un monastero intitolato a
San Michele. L’imperatore Federico II lo dotò nel 1222
[58] ) Girolamo M. Morreale,
S.J. - Maria SS. Del Monte di Racalmuto, Racalmuto 1986, pag. 23 ove, tra
l’altro, leggesi: «La distanza tra Casalvecchio (Racalmuto) e la Chiesa di S.
Margherita, circa tre chilometri, fa pensare che a Casalvecchio ci fossero
altre chiese officiate da Sacerdoti.»
[59] ) DIZIONARIO COREOGRAFICO
DELL'ITALIA a cura del prof. Amato AMATI
- Milano (Vallardi) - (1869) voce: Racalmuto.
[60] ) Su tale collettore
pontificio vedi la comunicazione di M.H. Laurent O.P.: I vescovi di Sicilia e
la decima pontificia del 1274-1280, in Rivista di Storia della Chiesa in
Italia, anno V n. 1 - gennaio aprile 1951, pag. 75 e segg. Lo studio serve
anche per notizie sui vescovi agrigentini dell’epoca e per rettifiche di errori
del lavoro di P. Sella: Rationes decimarum Italiae ... Sicilia [= Studi e
testi, 112], Bibl. Vaticana 1944. Gli spunti critici vengono rispresi dal
Collura (Le più antiche carte ...], libro dal quale traiamo le note sui vescovi
agrigentini che soprintenderono alla tassazione ecclesiastica di Racalmuto a
cavallo dei secoli XIII e XIV.
[61] ) Denis Mack Smith -
Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari 1973, vol. I, pag. 101.
[62] )
Tommaso Fazello - Storia di Sicilia - Presentazione di Massimo Ganci -
Introduzione, traduzione e note di Antonino De Rosalia e Gianfranco Nuzzo -
Vol. I - 1990, Regione Siciliana - Assessorato Beni culturali - pag. 482.
L’originale recita in latino: « Ad duo hinc p.m. Rayhalmutum sarracenicum
oppidum [pag. 231] occurrit: ubi arx est à Frederico olim Claromontano erecta,
quam Gibilina arx ad 4.p.m. excipit. Et deinde 8.p.m. Cannicatinis pagus....» da
F. TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRADICATORUM
- DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT
TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS Panormi ex postrema Fazelli authoris
recognitione. Typis excudebant, Ioannes Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara,
in Guzecta via, quae ducis ad Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini
M.D.LX. mense iunio. Il testo latino distoglie da azzardate ipotesi sulla
fortezza “saracena” che la non felice traduzione del passo potrebbe
solleticare.
[63] ) Non c’è ombra di dubbio
che il Fazello parlando di un castello costruito da Manfredi Chiaramonte in
Gibillina, intende riferisrsi alla località del trapanese. «da Misilindini ...
verso ponente è lunge tre miglia Saladonne, e poi dopo un miglio si trova
Gibellina castello, dove è una fortezza fatta da Manfredi di Chiaramonte,»
secondo la vetusta traduzione del P.M. Remigio Fiorentino (Della Storia di
Sicilia ... volume primo, pag. 625). E
l’Amico (op. cit. pag. 267) sembra alquanto perplesso ma in definitiva
si capisce bene che parla della Gibellina trapanese: «Et paulo infra Sala
Donnae et M. postea pass. Gibellina, ubi arx a Manfredo Clamonte erecta adhuc
extat.» Non sappiamo perché il T.C.I. nella sua guida della Sicilia del 1968
attribuisca invece il castello a Enrico Ventimiglia, che l’avrebbe edificato
nella 2a metà del ’300 (pag. 241). Del pari si attribuisce il
castelluccio racalmutese ad Abbo Barresi: «a 5 km. si sale a d. sul monte, ove
si trovano avanzi notevoli di una fortezza del Chiaramonte, del sec. XIV, ma
fondata nel ‘200 da Abba (sic) Barresi.»
[64] ) P. Bonaventura
Caruselli, minore osservante di Lucca, Maria
Vergine del Monte in Racalmuto, Palermo 1856, pag. 18.
[65] ) Illuminato Peri, Per la
storia della vita cittadina e del commercio nel Medio Evo - Girgenti porto del
sale e del grano - in Antichità ed alto Medioevo - Studi in onore di A. Fanfani
I - Milano 1962 - pag. 598.
[66] ) A. Inveges - La
Cartagine Siciliana, Palermo 1651, pag. 228-9. Le psotume notizie dell’Inveges
sono comunque da accogliere con le pinze. Anche i diplomi citati possono essere
dei colossali falsi. Il Peri mette sull’avviso quando scrive (vedi op.cit.
prima, pag. 607 n. 43) «La natura del libro dell’Inveges lascia dubitare che la
sospetta falsificazione ebbe fini araldico-celebrativi piuttosto che giuridico
patrimoniali.» Il sospetto, il Peri ce l’ha per il documento di dotazione del
monastero di S. Spirito da parte della madre di Federico II Chiaramonte,
Marchisia Prefolio. L’illustre storico, quel documento segnato dall’Inveges con
tanti elementi indicativi, non riuscì a trovarlo né nei citati archivi del
vescovado e del capitolo di Agrigento e neppure tra le pergamene del monastero
di Casamari, «che, a stare al testo del doc., ne avrebbe ricevuto copia.»
[67] )
ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni
1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181 -
[68] ) Giuseppe Picone -
Memorie storiche agrigentine - Agrigento 1982 - pag. 479.
[69] ) Chronicon Siculum = Anonimy Chronicon Siculum ab anno DCCCXX usque ad
MCCCXXVIII (...) et ad annum usque MCCCXLIII, in Bibliotheca, II, pp. 107-267. Giovanni, Matteo, [Filippo] Villani,
Cronica, ed. di Firenze 1823-1825
(Margheri), in 8 voll.
[70] ) A.S.P., Notai, I, 117 -
Bartolomeo de Bononia, (ff. 71r-73r dell’8.6.1345, 105r-106r del 13.5.1345 e
atti allegati non registrati).
[71] ) Domenico De Gregorio - Cammarata,
Agrigento 1886, pag. 127. Il colto studioso annota: «il Fazello parla di
Manfredi: “venne intanto il re Ludovico a Camerata al governo della quale era
Manfredi Doria il quale era stato fatto anche ammiraglio, essendosi estinta la
contumacia di Ottobon suo fratello” [Fazello o.c. p.475]». Sottolinea le
opposte tesi degli altri storici di Cammarata e, dubbioso,
soggiunge «forse la cosa potrebbe risolversi ricorrendo all’uso di
nominare dei governatori in nome del vero signore, forse allora Manfredi era
governatore e castellano di Cammarata a nome del fratello Corrado.» Per la
genealogia dei Doria, noi abbiamo seguito - acriticamente - il Picone.
[72] ) G. A. Silla - Finale
dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola - Cenni e Memorie -
Finalborgo 1922, pag. 93.
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