Nelle mie pluridecennali ricerche di
microstoria racalmutese, debbo ammettere che poco ho trovato sulle figure
femminili di Racalmuto.
In controluce affiora qua e là la
condizione della donna in un aggregato
contadino cui accenna da par suo Leonardo Sciascia in Fuoco all’Anima. Il
prototipo della donna contadina è di sicuro la innominata vedova del Giorno
della civetta (pag.415 e ss. V. OPERE
vl I Bompiani). “Era bellina la vedova, castana di
capelli e nerisimi gli occhi, il volto delicato e
sereno ma nelle labbra il vagare di un sorriso malizioso. . “ E il marito contadino e “confidente”,
innamorato e premuroso.
Sciascia ci lascia una galleria di
figure femminili che al di là della
velatura letteraria sono paradigmi del diverso essere, vivere e morire nella
Racalmuto tra l’Ottocento e i tre quarti del Novecento. Vi è molto cliché. Circospetto, quasi sessuofobo,
Leonardo Sciascia non approfondisce l’argomento pur così misterioso, ambiguo,
mediterraneo. Se in generale la vicenda profonda dell’essere donna è molto
obnubilata, l’essere donna a Racalmuto, retriva e libertina al contempo,
violenta ed affettuosa, generosa e sordidamente avara, presa dall’imperiosa
corsa alla “Robba” verghiana, è subire stigmate
deformanti, inconfessabili, deturpanti.
La donna contadina e moglie di
mafiosi ha connotati palpabili ancora a
Racalmuto. Un accenno irriverente – e per noi racalmutesi umilianti – traspare
in i Vecchi e Giovani di Pirandello. La contadinotta procace costretta a recarsi
a Girgenti ove si celebra uno dei tanti processi di mafia in cui il marito o il
padre o il fratello è coinvolto e travolto ed è disponibile a concedersi per
qualche soldo, Pirandello cinicamente, con disprezzo la ritrae in una sorta di
istantanea sfocata e beffarda.
L’intimo di quella vittima della foia
maschile resta mistero: è psicologia indegna della penna di un pur immenso
scrittore. Anche da questo, da siffatto modo di fare letteratura, abbiamo, sia
pure in negativo la fotografia di quella che è stata la disumana visione nel
Sud, nell’agrigentino, in Racalmuto della condanna maschilista del vivere
muliebre.
In mancanza di attenzioni letterarie
e persino cronachistiche, quel che emerge dal vivere di una donna in una società
repressa e sessuofoba quale Racalmuto è
poca o nulla cosa. Ma qui e là, in un testamento, in un processo per faccende
ereditarie di preti non casti, tra le prurigini di preti archivisti dei libri
della anagrafe religiosa della Matrice, qualcosa traspare, persino sotto veste
di ghiottoneria.
Una figura femminile a tutto tondo è
la vedova del venticinquenne Girolamo del Carretto “occisus a servo” il 2 maggio del 1622. Non so perché
Sciascia indulga a svolazzi di irridente ed ammiccante paesanità quando nelle Parrocchie di Regalpetra di codesta Donna Beatrice, quasi fosse una
secentesca Beatrice Cenci, vuole insinuare sia pure con castissimo dire una
sorta di tresca con un servo, con un inesistente Di Vita.
Di questa Beatrice Ventimiglia in Del
Carretto ne scrivo nel mio La Signoria Racalmutese dei del Carretto, pag. 118 e
seguenti per dovermi qui dilungare. Il mio è giudizio positivo. Donna energica,
bene ammanigliata con il cardinale Giannettino Doria
di Palermo, anche per vincoli di sangue, in tempo di peste manda cavalieri a
Palermo per dotare Racalmuto di qualche ossicino della nuova miracolosa Santa
Rosalia. Recupera la vecchia chiesetta di Santa Rosalia ove pare vi fosse un
ritratto del nostro unico grande pittore Pietro D’Asaro e nella sua veste di
Contessa di Racalmuto la dota di privilegi e di benefici
perenni.
Eppure è vittima della concezione
repressiva delle donne sia della Chiesa sia della autorità laica. Vigeva il
mondualdato: giuridicamente la donna, manco se
contessa, aveva capacità giuridica di agire: in ogni atto pubblico, neppure
negli ardui rapporti con la cancelleria palermitana per i processi di
investitura comitale, poteva redigere atti, fare testamento, stare in giudizio,
concordare il suo “pitazzo” di nozze. Doveva essere
assistita da un “mondualdo”.
E Beatrice
Ventimiglia vedova di Girolamo del Carretto sceglie il suo mondualdo; ed è il fratellastro del defunto marito, don
Vincenzo del Carretto, arciprete a mezzadria con il fratello del pittore D’Asaro della nostra Racalmuto
del terzo decennio del ‘600. Ne nasce una consuetudine così stretta che un
pruriginoso quale mi sento tinge – qui, sì – di una qualche pennellata erotica.
La sessualità femminile a Racalmuto? Un mistero nel mistero, almeno sino al
secolo scorso.
Nello scartabellare gli atti vetusti del tentato
processo di beatificazione del gesuita secentesco La Nuza di Licata, tra i miracoli che gli si accreditavano
c’era quello di guarire con la semplice preghiera certe turbe e certe
deformazioni e certe malattie di parti intime delle donne, che pudicissimamente
una paziente non poteva farsi curare da
nessun medico.
E si partoriva senza igiene alcuna.
Si moriva. Gli atti di morte della Matrice non nascondono alcuni turpi decessi di ragazzine e del frutto
del loro “peccato” subìto in casa di zii cui erano affidate sin da quando
divenute orfanelle nella primissima infanzia.
L’incesto a Racalmuto traspare
piuttosto diffuso in codesta puntigliosa anagrafe religiosa della Matrice. Di
riflesso diviene evidente quanto perversa e terribile fosse la violenza anche in
casa sulle donne. Si sa la civiltà contadina con quella coabitazione densa in un
“dammuso” (e a Racalmuto anche se il tetto di paglia
fu dopo il Trecento manco un ricordo, perdurò l’ammucchiarsi sotto lo scantinato delle
camere “solerate” dei galantuomini) il peccato di lussuria si consuma dovunque e
con chiunque, e le donne subivano quel “peccato” del maschio. Nella società
contadina occorreva far “figliare” intensamente per potere avere più braccia per
la coltivazione dei campi: Liolà di Pirandello, come
dire: lì o là. E la donna subiva, remissivamente, ignominiosamente. Sin nei
primi del Novecento sotto la finestra della ragazza neomadre – il cui bambino veniva prontamente portato alla
ROTA che si trovava a S. Michele (a lu colleggiu) si cantava da parte di discoli
ragazzetti:
ndi li dò, ndi
li d’iddru.
La matri
ssi tu lu patri sopiddru
Ma questo non significa che non dominasse il matriarcato. Il matriarcato
come lo descrisse benissimo Leonardo Sciascia, attirandosi l’ira funesta della
Maraini.
Il Matriarcato a Racalmuto resiste
ancora sia pure molto sfilacciato. L’organizzazione è ancora castale; vi è
ancora la famiglia a contare. La famiglia parte da un capostipite ancora vivente
e si estende ai figli ed ai loro gruppi familiari che ancora dovessero convivere
nella grande casa avita. Nelle campagne si continua a fare “robbe” immense, ora croce e delizia per l’IMU e per la Tarsu
estesa alle campagne. Residuato dunque della concentrazione familiare in una
sola grande casa. A capo vi è quasi sempre una “nonna”. Questione anche del diffondersi della vedovanza
femminile. E la vecchia matriarca è
autoritaria, dispotica, decide tutto: matrimoni, affari,, disposizioni
testamentarie. Accorte concentrazioni della proprietà, persino i nomi di
battesimo, persino la scelta dei padrini. Questo non vuole dire che le donne
della “famiglia” sottoposte alla matriarca stiano meglio dei maschi. Tutt’altro:
le femmine non sono amate dalla matriarca, sono di peso, son dispersive in
quella strana economia curtense. Di solito è il nipotino maschio primogenito del
primogenito della famiglia – il futuro erede universale - che monopolizza tutta
l’affettuosità della vecchia nonna. I regalini per lui sono continui e cospicui.
L’ultima delle nipotine invece e quando
se la guadagna una carezza della vecchia nonna?
Un paradigma di una siffatta
istituzione matriarcale è la vicenda di una Morreale a metà del
‘600. Figura femminile di grande risalto lottò con i terribili parenti dei
Mendola di Favara ( lei andata sposa bambina e presto divenuta vedova), con la
Chiesa, con il Sant’Ufficio. Aveva
persino una schiava nera che tanto impressionò i racalmutesi per via di un petto
sovrabbondante negro. Minni di sclava chiamarono i racalmutesi certi neri fichi prelibati.
Possedeva il più appariscente palazzo di Racalmuto e quel che resta è oggi
proprietà Mulé. Gli atti del processo intentatole dal
Vicario Foraneo e svoltosi nelle sacrestie della Matrice sono oggi sotto chiave,
gelosamente custoditi da Padre Martorana. Ne ho preso, con Padre Puma visione; ne
tratto non approfonditamente in miei scritti. Materia comunque da investigare a
fondo. Sarebbe buon paradigma per focalizzare la condizione della donna nel
SEICENTO persino siciliano. La Maraini bene tracciò la condizione della donna
nobile nel Settecento; qualcosa di analogo può ricavarsi per una giovane
redditiera in un centro della Sicilia Meridionale ancora non minerario. E già quella della
civiltà della zolfara (vedasi Sciascia in Fuoco all’Anima) è tutt’altra cosa. Ma
è argomento perora rinviato
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