Ma alla fine in FUOCO
all’ANIMA Sciascia qualche strale astioso contro il vecchissimo arciprete lo
scocca.
Non penso che in Fondazione Sciascia vi sia quel toccante
testo sciasciano che Domenico Porzio voleva intitolare FUOCO ALL’ANIMA. Quel
toccante testamento spirituale, quella struggente eppure rappresa memoria della
parte terminale della sua esistenza, quella ironica competizione libraria
giammai la riscontro nelle agiografiche celebrazioni
di Sciascia da parte degli Amici della noce di ogni tempo.
Eppure è proprio negli ultimi suoi giorni di vita, dal 30
novembre al 16 dicembre del 1988 che Sciascia, pensiamo con voce fioca e con
corpo consunto ma con mente lucida e con intelletto ancor più acuto, lascia a
futura memoria il meglio di sé. Così ci coglie di sorpresa rievocando qui la
figura del vecchissimo ex arciprete; solo che ora Casuccio viene coperto da una
velatura quasi ostile. Leggiamo in Fuoco all’Anima: «… io prima di fare l’insegnante,
sono stato impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto. Era un mestiere che
permetteva la conoscenza del mondo contadino. Momenti tristi, in cui mancava il
pane, e i contadini erano particolarmente vessati perché consegnassero il
grano. C’era una squadra di polizia che girava per fare delle perquisizioni
nelle case di chi aveva la terra. Un giorno, durante il giro della squadra,
hanno scoperto un contadino che aveva un quintale di frumento in più. E l’arciprete
che ne aveva quindici.
[….] Sono stato chiamato come testimone, per confermare che
i due avevano denunciato una quantità
minore. Ho seguito il processo. Il contadino è stato condannato a due anni, l’arciprete
è stato assolto.»
Come si vede, l’arciprete qui non gode di alcuna simpatia,se
non dileggiato appare comunque in una luce negativa, quasi un sopraffattore, uno che la fa franca con la legge. Le
espressioni quasi affettuose di un tempo, sparite. E c’era un perché. Stralciamo
sempre da Fuoco all’anima.
«Dopo [il suicidio del
fratello] è venuta una sequela di guai, perché mio padre si sentito
responsabile del fatto, di non avergli detto vattene a casa”. Poi è stato preso
da una forma di follia, alimentata dalla arteriosclerosi. Negli ultimi tempi
era diventata anche una forma violenta. Per me è stata un’esperienza terribile,
parlavo con una persona che non mi capiva, non mi sentiva, come un muro.»
Si era dato il caso che in quel periodo il padre di Sciascia
aveva colpito con bastone proprio quell’arciprete. Costui, uomo che tendeva ad
apparire uomo di vita santa, concesse subito il perdono ma usò il suo
ascendente presso la locale caserma dei carabinieri perché gli fosse fatta
giustizia. Pensava a chissà quale complotto. Soffriva di un certa mania di
persecuzione. Buon per Sciascia che aveva amico quel captano che poi immortalò
nel Giorno della Civetta. Seppe
condurre le cose nelle debite proporzioni.
Quanto all’episodio dell’ammasso, mi va di sottolineare che
tutti in paese avevano grano non requisito. In effetti né durante la guerra né
subito dopo a Racalmuto si patì la fame (non considerando però gli sfollati).
La terra era ubertosa e continuava a produrre grano in abbondanza, più che
sufficiente per le esigenze del paese. I grossi proprietari avevano frumento in
abbondanza e in una sorta di mercato nero lo vendevano a prezzi non
eccessivamente esosi a chi ne aveva bisogno. Mio padre ne acquisiva una buona
quantità per nutrirci in famiglia (eravamo in sei) e pensare anche alla suocera
e alla famiglia di mio zio Angelo che stava in guerra nella cosiddetta armata s’agapò greca. Ma credo che rimase
fedele e casto. Mia nonna aveva non più di un tumulo di terra; era buona per
fare apparire alle compiacenti autorità che veniva da lì tutto quel frumento,
tutta la “riconta” insomma.
Per quel che ne sappiamo noi, il contadino - che contadino
non era ma un buon possidente con figlio ufficiale sotto le armi - uomo
alquanto collerico, in pretura si mise a catoneggiare contro guardie e autorità
e addetti al consorzio a suo avviso non intemerati. Per quello che ne abbiamo
scritto in Soldi Truccati a proposito
di un Sindona che veniva a raccattare
frumento a Racalmuto per un lucroso quanto illecito commercio in quel di Patti,
forse una qualche ragione ce l’aveva. Indispettì e da qui la pesante condanna
che non ci risulta abbia davvero scontata. Quanto all’arciprete, fu astio di
prevenuti maggiorenti del momento.
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