ARCIPRETI E SACERDOTI NELLA SECONDA
META’ DEL CINQUECENTO
Don
Aloysio (Lisi) Provenzano
Questo sacerdote traspare dai registri di battesimo e di
matrimonio della Matrice. Il suo ministero sembra discontinuo. Nel biennio
1575-1576 dovette avere funzioni di cappellano ed il suo nome si alterna con
quello di don Vincenzo d’Averna negli atti di battesimo. Ancora nel 1581 è uno
degli officianti della Matrice ed il 19 settembre 1581 battezza Paolino
d’Asaro, fratello del pittore e futuro sacerdote racalmutese.
In tale veste compare sino al 1584, dopo subentrano altri
cappellani come don Paolino Paladino e don Francesco Nicastro. Don Lisi
Provenzano riappare successivamente nei documenti della Matrice, ma come teste
nella celebrazione di matrimoni (ad es. il 28 settembre 1586) o come semplice
padrino in battesimi (come quello di Francesco Castellana del 3.10.1587 ).
La sua presenza a Racalmuto è attestata sino al 1593 come da
un atto di matrimonio, da cui però risulta che il Provenzano non è più
cappellano della Matrice.
La figura di d. Lisi Provinzano emerge invero da un
documento dell’Archivio Vescovile di Agrigento che risale al 31 ottobre 1556.
Se ne ricavano alcuni tratti biografici. Ma soprattutto è la vita paesana a
metà del XVI secolo che traspare. Val quindi la pena di riportarne alcuni
brani.
Siamo
stati supplicati da parte
del Rev. presti Aloysio Crapanzano del tenor seguente: .. da parte del rev.
presti Aloisio Provenzano della terra di Racalmuto, subdito della giurisdizione
di V.S. ... In tempi passati venendo a
morte lo condam ... di Salvo della ditta terra, fece il suo testamento agli atti
dell’egregio condam notaro Vito Jandardoni et per quello inter alia capitula
legao all’esponente pro Deo et eius anima et in satisfatione de suoi peccati
tarì dudici anno quolibet sopra tutti li soi beni hereditari durante la vita di
esso esponente per una missa da dovirisi diri in die lunae cuiusvis hebdomadis
.. in ecclesia Sancti Francisci dictae terrae per ipse esponente. Et mancando,
che tali tarì dudici li havissero li
frati di ditto convento durante la vita di esso esponente, si como per ditto legato
appare in ditto testamento fatto ni li atti de ditto notaro Vito 21 novembre
iiij ind. 1545. Et perché lo esponente si trovao absenti da ditta terra alla
morte del ditto testatore, che havea stato in Palermo et ad altri parti per soi
negotij et non habbi mai notitia di tale legato et li frati di ditto convento
quello si exigero con diri che ipsi voleano dire tali missa.
Appena saputa la faccenda del legato, il sacerdote si
dichiara disponibile alla celebrazione della messa per l’anima del di Salvo. Ma
i frati sono riluttanti e non consentono al Provenzano di celebrare quella
messa nella chiesa del loro convento. Quindi il sacerdote si trova
nell’impossibilità di adempiere all’obbligo nelle modalità volute dal
testatore. Egli non può celebrare
ditta missa
per la repugnantia di ditti frati in la loro ecclesia; pertanto supplica V.S.
sia servita provvedere et comandare che ipso exponente possa satisfare la
volontà di ditto defunto in diri la missa ogni lune cuiusvis hebdomadis in
alcuna altra ecclesia in ditta terra di Racalmuto ben vista a V.S. Rev.da et
comandare alli heredi di ditto defunto che di ditti tarì dudici anno
quolibet staiono de rispondere et quelli
dari allo esponente con la conditione ordinata e fatta per lo defunto che
quando mancasse per sua colpa e defetto recada al ditto convento di santo
Francesco. Et ita petit et supplicat. ..
Il vicario generale dell’epoca don Rainaldo dei Rainallis dà
quindi disposizioni al vicario del luogo perché faccia un’inchiesta e ragguagli
il vescovado.
Quel che emerge con chiarezza è dunque la vita piuttosto
girovaga di questo nostro prete del Cinquecento che per affari si reca a
Palermo ed in altre località ed è tanto affaccendato da non sapere neppure di
un legato in suo favore. Non meraviglia certo che il di Salvo s’induca a
lasciare a favore di questo sacerdote, durante vita, un legato di dodici tarì
per una messa la settimana, il giorno di Lunedì, da celebrarsi nella chiesa di
S. Francesco. Le disposizioni testamentarie pro Deo et anima in remissione dei
propri peccati investivano i vari strati della popolazione. Non sorprende che i
frati siano riluttanti a concedere il permesso di celebrare nella loro chiesa a
sacerdoti secolari. Se messe di suffragio sono da dire, possono benissimo
essere loro ad adempiere ogni volontà testamentaria al riguardo. Ovviamente
percependone le elemosine. A chi abbia dato ragione il Vicario Generale, se ai
frati o a d. Lisi Provenzano non sappiamo, ma propendiamo a credere che sia
stato quest’ultimo a venire favorito. Non per nulla, qualche anno dopo il
sacerdote si stabilisce a Racalmuto e qui svolge funzioni da cappellano.
Il documento è comunque importante perché ci fornisce
qualche dato sul convento e sulla chiesa di S. Francesco. L’uno e l’altra erano
dunque operanti da prima del 1545. Stanziano a Racalmuto padri francescani che
dispongono della chiesa ed erano sottratti alla giurisdizione del vescovo
agrigentino. Nella visita pastorale del 1540-43, il vescovo Tagliavia omette
ogni riferimento ai francescani. Eppure abbiamo motivo di ritenere che essi fossero già insediati. Nel 1548 il
convento possedeva una bottega in piazza e ciò risulta dalla bolla di
riconoscimento della confraternita di S. Maria di Juso datata 21 maggio 1548 ( A.C.V.A. - Registro
Vescovi 1547-48, p. 142).
Con i padri dell’Ordine dei Minori
Conventuali di S. Francesco, ebbe dunque a confliggere don Lisi Provenzano
attorno al 1556 per un legato del 1545. Il convento francescano precede quindi
di almeno 15 anni il 1560, data ritenuta di fondazione dal Tossiniano. Al 1560
risale, invero, il testamento di Giovanni del Carretto che accenna alla chiesa
di S. Francesco ed al convento ma in questi termini:
Del pari
lo stesso spettabile Testatore volle e diede mandato al predetto d. Girolamo
del Carretto, suo figlio primogenito ed erede particolare, di far celebrare
delle messe nel convento di S. Francesco di detta terra. Inoltre dispone che
sia costruita una cappella in un luogo da scegliersi in detta chiesa dal
suddetto erede particolare ed a tal fine saranno da spendere 100 onze entro due
anni dalla morte del testatore. La Cappella è da fabbricarsi per l’anima del
predetto testatore e dei suoi predecessori.
Inoltre decide di venire sepolto
nella chiesa di S. Francesco con l’abito francescano:
Item
elegit eius corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus
ordinis ditti Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.
Anche da qui emerge che S. Francesco
esisteva da tempo.
Il Sac. Lisi Provenzano visse,
dunque, gli anni del suo sacerdozio tra Palermo, altri luoghi e Racalmuto.
Ordinato già nel 1545, all’epoca cioè del testamento del di Salvo, nacque a
Racalmuto qualche tempo prima del 1520. Morì attorno al 1597.
Nel 1584 fa una donazione alla
chiesa di S. Maria Inferiore (di Gesù) di tt. 6 annui, cedendo un censo annuo
su una casa una volta appartenuta a Violante Petruzzella:
Actus
donationis o. - 6.
Pro ven:
Eccl. Sanctae Marie inferioris - cum p.ro Aloisio Provenzano.
Die
xxiiij° septembris xiij^ ind. 1584
Reverendus
presbiter Aloisius Provenzano de Racalmuto coram nobis mihi notario cognitus
pro anima sua titulo donationis et omni alio meliori modo sponte cessit et
cedit ven: Eccl. Sanctae Mariae
Inferioris dictae terrae per eum Mattheo La Paxuta rettore mihi cognito omnia
jura quae et quas habuit et habet in et super tt. 6 census quolibet anno
solvendi contra magistrum Joseph Cachiatore super domo olim Violantis
Petrocella virtute contractus facti in
actis meis die etc.
Testes m.j
Joseph Lomia et Jacobus de Poma.
Arciprete
Gerlando D’Averna
Con bolla pontificia del 13 novembre
1561 ( Archivio Segreto Vaticano - Registri Vaticano - Bolla n.° 1911 - f. 211 e ss.), Pio IV nomina arciprete di
Racalmuto don Gerlando D’Averna (chiamato nel documento Giurlando de Averna).
La bolla viene indirizzata al diletto figlio, arciprete e rettore della chiesa
di S. Antonio di Racalmuto, diocesi di Agrigento.
Pius
episcopus servus servorum Dei. Dilecto filio Giurlando de Averna rectori archipresbitero nuncupato parrochialis
ecclesiae archipresbiteratus nuncupatae Sancti
Antonij terrae Rachalmuti
Agrigentinae diocesis, salutem et apostolicam benedictionem.
E’ del tutto rituale l’apprezzamento
che giustifica la concessione papale del lontano beneficio dell’arcipretura
racalmutese, ma è pur sempre un riconoscimento di meriti:
Vitae ac
morum honestas aliaque laudabilia probitatis et virtutum merita, super quibus
apud nos fide digno commendaris testimonio, nos inducunt ut tibi reddamur ad
gratiam liberalem.
Ci appare oggi strano come una prebenda così striminzita fosse
di concessione pontificia. All’epoca era invece una consuetudine ed il papa
mostra di esserne un custode geloso et attento. Ne fa accenno nel corpo della
stessa bolla, dichiarando illegittima ogni usurpazione da parte di qualsiasi
autorità:
Dudum siquidem
omnia beneficia ecclesiastica cum cura et sine cura apud Sedem apostolicam tunc
vacantia et in antea vacatura collationi et dispositioni nostrae reservavimus,
decernentes ex tunc irritum et inane si secus super hijs a quacumque quavis
auctoritate scienter vel ingnoranter contingeret attemptari.
In un siffatto quadro giuridico si colloca, dunque, il
beneficio di Racalmuto, un beneficio che, comunque, tal Sallustio - già rettore
ed arciprete di Racalmuto - non ha reputato utile mantenere e l’ha restituito
nelle mani del Papa.
Et de inde parrochiali ecclesia archipresbiteratus nuncupata Sancti
Antonij terrae Rachalmuti Agrigentinae diocesis per liberam resignationem
dilecti filij Salustij humilissimi nuper ipsius ecclesiae rectoris
archipresbiteri nuncupati, de illa quam tunc obtinebat in manibus nostris
sponte factam et per nos admissam apud
Sedem predictam vacantem.
L’arcipretura di Racalmuto, cui rinuncia anche il chierico
Cesare, viene alla fine assegnata al D’Averna per i suoi meriti:.
Noi,
quindi vogliamo concederti una speciale grazia per i tuoi premessi meriti, e
assolvendoti da ogni eventuale censura, disponiamo che tu ottenga tutti i
singoli benefici ecclesiastici con cura
e senza cura (d’anime) e tutto quanto ti compete in qualsiasi modo, comunque e
per qualsiasi quantità; ed in particolare gli annessi frutti, redditi e
proventi che costituiscono una pensione annua di 24 scudi d’oro italiani
secondo la ricognizione fatta dalla Santa Sede quando ebbe ad accordarla al
predetto Sallustio, pensione che in ogni caso non supera i sessanta ducati
d’oro come tu stesso affermi.
E vogliamo ciò
anche se sussiste una qualche riforma insita nel corpo delle leggi visto
che la predetta chiesa è riservata alla disponibilità apostolica in forma
speciale e generale.
Pertanto
ti conferiamo il beneficio con l’autorità apostolica che ci compete, giudicando
irrituale ed inefficace ogni altra contraria decisione di qualsiasi autorità
che abbia ritenuto di poterne disporre, scientemente o per ignoranza. E ciò
vale anche verso chi tenterà in futuro di arrogarsi poteri dispositivi.
Intorno a
quanto precede, diamo mandato per iscritto ai venerabili fratelli nostri, i
vescovi Amerin/ e Muran/ nonché al diletto Vicario del venerabile fratello
nostro, il vescovo di Agrigento, affinché loro due o uno di loro, direttamente
o per il tramite di qualcuno introducano Te o un tuo procuratore nel materiale
possesso della chiesa parrocchiale e degli annessi diritti e pertinenze e lo
facciano per la nostra autorità. Non manchino, altresì, di difenderti, dopo
avere rimosso qualsiasi altro detentore, facendoti dare integro il resoconto
della chiesa parrocchiale e degli annessi frutti, redditi, proventi e doti. A
ciò non osti qualsiasi contraria costituzione di papa Bonifacio Ottavo, di pia
memoria, nostro predecessore, né ogni altra decisione apostolica. Del pari,
nessuno può richiedere per sé o per il proprio legato un qualche diritto di
omaggio o un qualunque beneficio ecclesiastico in base a lettere o in forma
speciale o generale, anche nel caso in cui vi sia stato un processo e sia stato
emesso decreto riformatore.
Vogliamo
che tu comunque entri in possesso di detta chiesa parrocchiale, senza
pregiudizio alcuno degli annessi benefici. Se qualcuno dovesse tentare presso
il venerabile fratello nostro, il vescovo di Agrigento o presso chiunque altro
che sia stato dalla Sede apostolica dotato in comunione o frazionatamente nei
beni della chiesa, non gli si accordi costrizione o interdetto o sospensione o
scomunica. Resta ribadito che quanto ad omaggi, benefici ecclesiastici,
relativa collazione, provvisione, presentazione e qualsivoglia altra
disposizione, sia congiuntamente che separatamente, non può provvedersi per
lettera apostolica che non faccia piena ed espressa menzione, parola per
parola, alla presente, la quale ha forza di annullare qualsiasi altra
indulgenza, generale e speciale, di qualsiasi tenore della Sede apostolica.
La complessità della bolla invero illumina poco sulle
peculiarità parrocchiali della Matrice del tempo. V’è un rigonfiamento di
formule curiali, del tutto sproporzionato alla esiguità dell’affare.
L’arc. D’Averna non pare essere racalmutese. Sembra venire
da Agrigento. E’ un po' nepotista. Con lui si sistema a Racalmuto il sac. d.
Vincenzo d’Averna che è anche cappellano. Appare un vicario a nome don Giuseppe
d’Averna. Fa capolino un chierico: Orlando d’Averna.
Come arciprete, lo riscontriamo con una certa assiduità
negli atti di battesimo dal 12.11.1570 sino al 5.7.1571; poi appare
sporadicamente. Non abbiamo, però, serie complete di atti di battesimo: il
primo quinterno è incerto se si riferisce al 1554 o al 1564. Si salta, poi al
1570-71-72 e quindi al 1575-1576. Quindi il vuoto sino al 1584.
L’arc. Gerlando d’Averna figura ancora il 24 di maggio 1576
in questo atto di battesimo - ed è l’ultima testimonianza di cui disponiamo:
24 5 1576 Joannella figlia di Barbarino Vella
(di)e diPalma;
madrina: Juannella
di Rotulu;officiante: Don Gerlando di Averna.
Va, quindi, fugato il
sospetto che, ricevuto il beneficio dal papa, egli abbia soltanto
percepito i proventi della sua arcipretura e per il resto se ne sia stato
lontano. La sua arcipretura sembra durare oltre 18 anni: è, infatti, nel 1579
che subentra l’arc. Michele Romano.
Don
Vincenzo D’Averna
Ci sembra un parente dell’arciprete d. Gerlando D’Averna, ma
non abbiamo prova alcuna ove si eccettui una qualche singolare coincidenza.
Sicuramente non era racalmutese. E’ cappellano della matrice a partire dal
luglio del 1571. I salti della documentazione parrocchiale ci impediscono di
sapere sino a quando operò assiduamente. Comunque, stando agli atti di
battesimo disponibili, nel successivo periodo che decorre dal 6.11.1575 sino al
21.5.1576 è il sacerdote officiante in n.° 76 funzioni battesimali. Dopo quella
data non lo s’incontra più, ma vanno tenute presenti le interruzioni che si
riscontrano per quel periodo nell’archivio della matrice. Don Vincenzo D’Averna
non appare nel “liber” della parrocchia: ovviamente già nel 1636 si era perso
il ricordo di quel cappellano.
Don
Giuseppe D’Averna
Appare per la prima
volta in un atto notarile della confraternita di S. Maria Inferiore del 31
agosto 1578:
Terrae
Racalmuti Die xxxi° augusti vj ind. 1578. - Notum facimus et testamur quod
Reverendus pater Joseph d’Averna cappellanus, Antoninus de Acquista; Jo Grillo
et Vincentius Macalusio rectores venerabilis
ecclesiae Sanctae Mariae Inferioris ...
Nel 1580 fa da padrino di battesimo a Vincenza Stincuni:
14 2 1580 Vincentia di Gerlando Stincuni e Angela; lo q. don Joseph di
Averna la q. Betta la Carretta'.
E’ poi assiduo come cappellano sino alla data della sua
morte che il ‘Liber’ segna sotto la data del 26 ottobre del 1600 (Liber in quo
adnotata .. cit. col. 1. n.° 13). Una
malcerta annotazione sembra indicarlo come Vicario Foraneo, ma è indizio troppo
dubbio per essere certi che abbia ricoperto tale importante carica. Comunque è
presente nei battesimi dei figli degli ottimati locali come quello di
3 7
1598 Margarita donna di Geronimo don Russo e di donna Elisabetta del Carretto,
per don Gioseppe d'Averna; patrini Vinc. Piamontese et soro Gioanna Piamontese
Elisabetta del Carretto era figlia di Giovanni del Carretto,
conte di Racalmuto e di donna Caterina de Silvestro. Ella fu legittimata il 12
novembre del 1587.
Giovanni del Carretto, fa sposare la figlia, attorno al
1590, con il nobile Girolamo Russo. Costui figura come governatore del castello
di Racalmuto nell’ultimo scorcio del secolo. Un’eco affiora in certo carteggio
scambiato tra il vescovo di Agrigento Horozco Covarruvias e la Santa Sede, come
si è visto nello stralcio di un documento vaticano sopra richiamato.
Clerico
Blasi Averna
Tra il 1579 ed il 1581fa capolino negli atti parrocchiali
tal Clerico Blasi Averna. Di lui non fa menzione il “Liber”: era dunque sparito
persino dal ricordo nel 1636. Nel rivelo del 1593 figura tal Blasi Averna, ma è
un ragazzo di 22 anni che vive con la madre Vincenza nel quartiere di S.
Giuliano: non ha dunque nulla a che vedere con il chierico in questione. Costui
sposerà nel gennaio del 1601 Agata Mastrosimone, come da seguente trascrizione
della Matrice:
7 1 1601 Averna Blasi di Antonino q.am e di
Vicenza q.am con Mastro Simuni Gatuzza di Nicolao q.am e di Francesca; testi:
Muntiliuni cl. Jac. e Gulpi Antonino: Benedice il sac.Macaluso Jo:
Don
Monserrato d’Agrò.
Compare come cappellano della Matrice attorno al 1579, agli
esordi dell’arcipretura Romano, e la sua missione sacerdotale, in subordine
all’arciprete, dura sino al 1594. Sotto la data del 30 aprile 1595 lo
incontriamo negli atti della chiesa di S. Maria di Gesù, di cui è divenuto
cappellano. Nel coevo atto di assegnazione di un’onza di reddito da parte dei
fratelli Vincenzo e Giacomo d’Agrò per avere in cambio la concessione di
sepoltura nella medesima chiesa, don Monserrato d’Agrò fornisce il suo benestare
nella cennata veste di cappellano:
Praesente
ad haec omnia et singula praesbyter Monserrato de Agrò, mihi etiam notario
cognito et stipulante pro dicta ecclesia uti eius cappellano et se contentante
de praesente attu et omnibus in eo contractis et declaratis et non aliter.
Ma negli ultimi
giorni di agosto dell'anno successivo è già infermo e si accinge a fare
testamento. Il suo attaccamento alla chiesa di S. Maria di Gesù è tale da
presceglierla quale luogo della sua tumulazione. A tal fine assegna una rendita
annua di un'onza e 3 tarì.
In un atto
della chiesa del 12 settembre 1596 viene formalizzato il contratto di
concessione in termini che sono uno spaccato del vivere civile e religioso dei
racalmutesi dell’epoca.
Sappiamo dal rivelo del 1593 che a quel tempo il sacerdote
aveva 45 anni. Era nato dunque attorno al 1548. Muore giovane, all’età di 48
anni. Abitava, apparentemente da solo, nel quartiere della Fontana come da
questa nota del rivelo del 1593:
3
149 AGRO' (DI) PRESTI MONSERRATO [Sac:] CAPO DI CASA DI ANNI 45
La cappella desiderata da don Monserrato sorse nella chiesa
di S. Maria vicino a quella di S. Maria dell’Itria e di fronte all’altra ove
era raffigurata l’immagine di S. Francesco di Paola (intus dictam ecclesiam Sanctae Mariae Majoris prope Cappellam Sanctae Mariae Itriae in
frontispicio cappellae Imaginis Sancti Francisci de Paula...). Risulta che
questa fu dedicata a S. Michele Arcangelo ( nell'atto del 1604 si parla,
infatti della dote Cappellae Sancti
Michaelis Arcangeli condam presbiteri Monserrati de Agrò).
Per quel
che ci dice il Rollo della confraternita di S. Maria di Gesù, don Monserrato
aveva almeno quattro nipoti di cui si ricorda nel testamento:
Est sciendum quod inter alia capitula donationis causa
mortis facta per condam don Monserrato de Agrò Paulino, Natali, Joseph et
Joannelle de Agrò eius nepotibus est infrascriptum capitulum tenoris ....
Il nipote Paolino d’Agrò risulta figlio di quel Simone
d’Agrò che approvò la transazione feudale con il conte Girolamo del Carretto
nel 1581 (è il 229° dei presenti nella chiesa maggiore di Racalmuto che diedero
l’assenso il giorno 15 gennaio 1581). Don Monserrato si limiterà ad apporre la
sua firma come teste.
I primi
cappellani:
don
Vincenzo Colichia;
don
Antonino La Matina;
don
Dionisi Lombardo;
don
Antonio Castagna.
Il più antico quinterno di atti battesimali della Matrice è
composto di n.° 26 colonne. In alcune parti è indicata la data del 1554 (ad
esempio 24 di augusto 1554 o die Xbris 1554) in altre 1563 (adi 9 januarii 1563) ed in altre ancora 1564
(junii VII ind. 1564). Non è facile districarvisi. A noi comunque sembra che le
date sia apocrife, aggiunte successivamente. In effetti il fascicolo dovrebbe
essere datato 1563-64, settima indizione anticipata.
Vi vengono segnati i sacerdoti che celebrano il battesimo.
Sono costoro i cappellani della Matrice (operante nella chiesa di S. Antonio).
Non riscontriamo mai la presenza dell’arciprete (né don Gerlando d’Averna, né
quello che si considera il suo predecessore,
don Tommaso Sciarrabba (“Arciprete e canonico della cattedrale di
Girgenti anno 1553”, annota il Liber citato, c. 1 n.° 2).
I cappellani officianti risultano:
don Vincenzo
Colichia;
don Antonino La
Matina;
don Dionisi Lombardo;
don Antonio Castagna.
Il
primo atto di battesimo della Matrice di Racalmuto
Anno
1554 Viene Battezzato il figlio di Gilormo La Licata Inferno
Il
sacerdote celebrante è il rev. Presti Vincenzo Colicchia
La maggior frequenza si registra per don Vincenzo Colichia e
per don Dionisi Lombardo. Entrambi vengono segnati con il titolo di “presti”
(prete). Di nessuno di loro si fa il più
vago cenno nel “Liber”. Nella successiva documentazione del 1570/71, riappare
soltanto il cappellano don Antonino La Matina.
I
cappellani del periodo successivo (1570/1571):
Don
Vincenzo d’Averna;
Don Jo
Cacciatore;
Don
Antonino D’Auria;
Don
Giuseppe Garambula;
Don
Antonino La Matina;
Don
Filippo Macina.
E’ il periodo centrale dell’arcipretura di don Gerlando
D’Averna che spesso presiede alla funzione battesimale. Su don Vincenzo
d’Averna ci siamo già abbondantemente soffermati. Abbiamo pure accennato a don
Antonino La Matina, presente negli atti del periodo precedente del 1564 (o giù
di lì). Sul D’Auria, Cacciatore e Garambula non disponiamo di altri dati. Fra
tutti questi cappellani, il solo ricordato dal Liber è don Filippo Macina (c. 1
n.° 8). Stando ai cognomi, il D’Auria,
il La Matina e Jo Cacciatore possono essere stati benissimo indigeni. Il Macina
ed il Garambula appaiono oriundi.
I cappellani del periodo 1575/76
Don
Vincenzo d’Averna;
don Lisi
Provenzano.
I salti della documentazione disponibile ci portano a questa
quarta indizione anticipata (1575/76). I battesimi vengono ora suddivisi solo
tra il d’Averna ed il Provenzano. Su entrambi ci siamo dilungati in precedenza.
Arciprete di Racalmuto è ancora don Gerlando d’Averna
I
cappellani del periodo 1579/1582:
Don
Michele Abate;
Don
Monserrato d’Agrò;
Don Lisi
Provenzano;
Don
Giuseppe d’Averna.
Nei fascicoli dei battesimi del 1579 appare segnato come
arciprete Don Michele Romano, dottore in sacra teologia (S.T.D.). Nel Liber
vengono citati Abbate (n.° 24), Monserrato d’Agrò (n.° 7) , Giuseppe d’Averna
(n.° 13) e naturalmente l’arc. Romano ( n.° 4). Il Provenzano è segnato come
diacono (n.° 18) non si sa se per errore o perché c’era veramente un diacono
Luigi Provenzano morto il 20 luglio 1600.
I cappellani del periodo 1583/84:
Don
Monserrato d’Agrò;
Don
Francesco Nicastro;
Don
Paolino Paladino;
Don Lisi
Provenzano.
Arciprete del tempo è don Michele Romano che appare in
qualche battesimo. Rispetto al precedente periodo appaiono per la prima volta
don Francesco Nicastro e don Paolino Paladino: entrambi sono annotati nel
Liber, ma senza alcun altro dato all’infuori del nome e cognome.
Don
Giuseppe Romano
Annotato nel Liber (c. 1 n.° 17) si riscontra solamente in
questa nota a margine del libro parrocchiale delle trascrizioni dei matrimoni
1582-1600:
Die
24 ottobris Xa ind.s 1597, mi detti lu cunto don Leonardo Spalletta delli
sponczalicii a mia don Joseppi Romano come procuraturi di mons.r ill.mo.
L’arc. don Michele Romano era morto solo da poco
tempo (28 luglio 1597). Che vi sia un qualche vincolo di parentela, è
congetturabile.
Arciprete
Michele Romano
Ha tutta l’aria di essere il primo arciprete d’origine
racalmutese. Insediatosi attorno al 1579, succede a don Gerlando d’Averna.
Muore il 28 luglio 1597, prossimo al suo
ventennio di arcipretura. Ebbe forse ad acquisire un discreto patrimonio, fatto
sta che il vescovo Horozco intenta una lite al conte del Carretto per
rivendicare i beni successori del defunto arciprete Romano. Il Vescovo ne fa
cenno in una sua difesa inviata al Vaticano, ove fra l'altro si legge:
« [.....]Il detto
Conte di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del
arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti
fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante à detta
Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam
Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per
occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et per non pagare ne lassar
quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran
Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone
sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta
spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in
condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno. »
A distanza
di secoli non è facile sapere chi avesse ragione. Di certo, il Romano durante
la sua vita non si mostra contrario ai Del Carretto. Sul punto di morte è
persino propenso a favorire il conte facendogli - a dire del vescovo - «certi testamenti et atti fittizij,
falsi e litigiosi».
L’arciprete
Romano deve vedersela con il primo conte di Racalmuto, Girolamo del Carretto -
divenuto tale nel 1576 - e, dopo il 9 agosto 1583, con il successore,
l’avventuroso Giovanni del Carretto, che finirà trucidato a Palermo il 5 maggio
1608. Entrambi furono però signori di Racalmuto che amarono starsene a Palermo.
L’arciprete Romano ebbe a che fare più con gli amministratori comitali, quali
Cesare del Carretto e Girolamo Russo, che non con gli altezzosi titolari. E
l’intesa sembra essere stata buona, anche quando si trattò di stabilire, nel
1581, oneri e tributi di vassallaggio.
Quando
scende a Racalmuto un parente dei del Carretto per battezzare il figlio di un
personaggio eccellente, in quel tempo operante nella contea, l’arc. Romano è
ovviamente presente:
“Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 Diego figlio del s.or Gioseppi
e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare
fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Conbare l'Ill'S.ora Donna Maria
del Carretto''
In ogni
caso, nei raduni del popolo, chiamato ad avallare gravami tributari,
l’arciprete si mantiene, almeno formalmente, al di sopra delle parti e non
appare neppure come teste.
Arciprete
Alessandro Capoccio
Il Vescovo
Horozco lo nominò arciprete di Racalmuto nell’estate del 1598. Il Capoccio
aveva vari incarichi presso la Curia Vescovile di Agrigento e non aveva tempo
di raggiungere la sede dell’arcipretura: mandò due suoi rappresentanti, muniti
di formalissimi atti notarili. Presso la
Matrice può leggersi questa nota apposta al margine di un atto matrimoniale:
«DIE 16 Julii XIe Indi.nis 1598: ''Pigliao la
possessioni don Vito BELLISGUARDI et don Antonino d'AMATO (?) procuratori di
don Lexandro Capozza p. l'arcipretato di Racalmuto come appare per atto
plubico''.» (cfr. Atti della Matrice: STATO DI
FAMIGLIA - M A T R I M O N I - 1582-1600
)
Tre anni prima, don Alexandro Capocho era stato
inviato a Roma, al posto del Covarruvias, per presentare la prima relazione 'ad
limina' dei Vescovi di Agrigento al Papa. Nell'atto di delega del 12 settembre
1595 "Don Alexandro Cappocio' viene indicato come "Sacrae theologie professor eiusque [del
vescovo] Secretarius”.
In Vaticano si conserva il processo
concistoriale di quel vescovo (Archivio Vaticano Segreto - Processus
Concistorialis - anno 1594 - vol. I - (Agrigento) - ff. 30-62.). La
testimonianza del Capoccio è, a dire il vero, schietta e per niente compiacente
(f. 36v e 37).
Sintetizzando e traducendo dallo spagnolo
ricaviamo questi dati:
«Depone il dottor Don Alexandro Capocho,
suddiacono naturale del Regno di Napoli e residente per il momento in questa corte. Egli testimonia che conosce il detto
signor Don Juan de Horoczo y Covarruvias
di vista e solo da due mesi, poco
più poco meno, e di non essere né familiare né parente dell’ Horozco».
Salta
quindi ben dodici domande che attenevano alle origini ed alla vita del futuro
vescovo. La sua testimonianza è quindi molto minuziosa sulla Cattedrale di
Agrigento (circostanza che non ci pare qui conferente). 'Conosceva piuttosto
bene Agrigento per esservi stato due anni, poco più poco meno'.
Per quanto tempo il Capoccio sia stato arciprete di
Racalmuto, s’ignora. Sappiamo che subentrò l'Argumento, nominato nel marzo del
1600. Quel che appare sicuro è che l’arciprete Capoccio non fu presente in
alcun atto di battesimo o nella celebrazione di un qualsiasi matrimonio nella
parrocchia racalmutese di cui per un biennio fu titolare. A sostituirlo nelle
incombenze pastorali fu di certo don Leonardo Spalletta, il cappellano di cui
gli atti parrocchiali testimoniano zelo ed assidua presenza.
I CONVENTI DI RACALMUTO NEL ‘500
CENNI
INTRODUTTIVI
Non crediamo che vi siano
stati conventi a Racalmuto nei primi quarant’anni del ‘500: solo attorno
al 1545 è di sicuro operante il convento di S. Francesco, ove erano insediati i
padri francescani dell’Ordine dei Minori Conventuali. In certi documenti
vescovili che riguardano il sac. don Lisi Provenzano abbiamo rinvenuto elementi
tali da suffragare questa antica datazione del convento. L’altro cenobio che
appare alla fine del secolo, quello dei carmelitani, sorge all’incirca verso il
1575 se diamo credito alla lapide dell’avello del primo priore padre Paolo
Fanara, quale ancora si legge nella chiesa del Carmelo (la chiesa sembra invece
essere esistita già dal tempo della visita del Tagliavia nel 1540 ed è citata
nel testamento del barone Giovanni del Carretto).
Giovan Luca Barberi parla di un convento benedettino presso
Racalmuto, ma gli ereduti locali negli ultimi tempi sono propensi a ritenere
che il chiostro fosse quello di S. Benedetto, in territorio di Favara.
Quanto all’altro convento francescano, quello dei Minori di
Regolare Osservanza, esso, seppure se ne parla già nel 1598, inizia la sua
attività nei primi anni del ‘600.
Per tutto il Cinquecento non vi sono conventi femminili a
Racalmuto. Il primo - quello di S. Chiara - comincerà ad operare verso il 1645.
Convento
di S. Francesco.
Sappiamo con certezza che il 21 novembre 1545 il convento di
S. Francesco era operante. Noi pensiamo che sin dagli esordi furono i padri
minori conventuali ad occupare il convento, sotto l’egida di Giovanni del
Carretto. Pietro Rodolfo Tossiniano, vescovo di Senigallia, accenna a questo
convento racalmutese nel libro 2° della sua Historia Serafica. Il maltese
Filippo Cagliola nel 1644, fa un discorso un poco più articolato e, descrivendo
le “Almae sicilienses Provinciae ordinis Minorum Conventualium S. Francisci”,
prende in considerazione anche Racalmuto in questi termini:
LOCUS RACALMUTI [custodia agrigentina]. suae
fondationis certam non habet notam, cum scripturas omnes grassantis pestis insumpserit lues. Quam ob rem annus
1576 a THOSSINIANO inscriptus, ad reparationem Ecclesiae, post eliminatum
languorem, non ad fundationem referendus; pugnaret siquidem secum Auctor, qui a
Comite Ioanne, certam pecuniam pro Ecclesia reparatione, legatam asserit, anno
1560. Ecclesia denuo excitata, imperfecta iacet, locus iuxta arcem a Friderico
Claramontano constructa, situs amoenus, qui fabricis non spernendis incrementa
suscepit. Ecclesia Divo Francisco dicata.
Dunque non era nota la data di fondazione, per la
distruzione dell’archivio nel tempo della grande peste del 1576. Questo stesso
anno viene indicato dal Tossiniano come data di fondazione, subito dopo la
cessazione del flagello. Ma questi cade in contraddizione con se stesso, dato
che afferma che il conte Giovanni [invero era barone] ebbe a lasciare una certa
somma nel 1560 per riparare la chiesa. La chiesa, invero, di nuovo eretta,
giace ora incompleta vicino al castello edificato da Federico Chiaramonte, in
un luogo ameno e con un notevole chiostro. Essa è dedicata a S. Francesco.
Il barone Giovanni del Carretto, a dire il vero non aveva
tanto pensato alla chiesa ma alla sua tomba. Egli lasciò cento onze per la sua
cappella tombale. Ed altri mezzi per la celebrazione di messe in Conventu Sancti Francisci dictae Terrae,
che dunque nel 1560 era attivo.
Francescani conventuali nel 1593
Da una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone risulta che nel
1593 stanziassero a S. Francesco i seguenti religiosi:
Francamente non conosciamo granché di tutti questi
francescani: abbiamo, ad esempio, alcuni accenni nell’atto di donazione di quel
singolare personaggio che fu Antonella Morreale, rimasta vedova piuttosto
giovane di Leonardo La Licata. Il rogito è datato 9 gennaio 1596 e ad un certo
punto stabilisce:
Et voluit et mandavit ditta donatrix quod dittus Jacobus
donatarius ...debeat ac teneatur supra dicto ut supra donato solvere uncias
decem po: ge: in pecunia fratri Lodovico de Salvo ordinis Sancti Francisci,
filio magistri Rogerij consanguineo dittae donatricis infra annos duos cursuros
et numerandos a die mortis dittae donatricis in antea hoc est anno
quolibet in fine unc. unam in pacem pro
vestito ispius Lodovici pro Deo et eius anima ipsius donatricis et solutis
dictis unc. 10 ut supra dictus Jacobus de Poma donatarius per se et successores
teneatur et debat pro dittis unc. decem anno quolibet in perpetuum solvere
unciam unam redditus supra dicto loco de
supra donato dicto ven.li conventui Sancti Francisci dictae Terrae Racalmuti
eiusque guardiano mentionato pro eo et successoribus in ipso conventu in
perpetuum legitime stipulante in quolibet ultimo die mensis augusti cuiuslibet
anni incipiendo solvere anno quolibet in perpetuum pro Deo et eius anima ipsius
donatricis pro celebratione tot missarum celebrandarum per fratres dicti ven.
conventus
Fra Ludovico de Salvo era dunque un consanguineo della
Morreale. Nella donazione si parla di sussidi per il suo vestiario. Per le
messe v’è un altro legato di un’oncia annua in favore del padre guardiano.
Il guardiano padre Cola Andrea
Gaitano
La Morreale si ricorda di questo priore anche a proposito
della sistemazione della non chiara
vicenda del lascito da parte del marito di
un vestito appartenente a don Cesare del Carretto. In dialetto, ella
dispone piuttosto prolissamente che:
Item ipsa
donatrix pro Deo et eius anima ac pro anima ditti condam Leonardi olim eius
viri titulo donationis preditte post mortem ipsius donatricis ... donavit et
donat ditto ven. conventui Sancti Francisci
ditte terre uti dicitur: una robba
di donna di villuto russo chiaro con li soi passamanu di oro, quali robba ditta
donatrichi teni in potiri suo in pegno del sig. don Cesaro il Carretto, la
somma dello quali pignorationi ipsa donatrici non si recorda, per tanto essa
donatrici voli chè si il detto del Carretto paghira ditto conventu seu suo
guardiano la reali summa per la quali robba fui inpignorata, chè in tali casu
lu guardiano di detto convento chè tunc forte serra sia tenuto restituiri ditta
robba a ditto del Carretto et casu chè il detto del Carretto non si recapitassi
detta robba oyvero non declarira la summa per la quali detta robba sta
pignorata voli la detta donatrichi chè lu guardiano di detto convento habbia di
obtenere lettere di executione et per quella somma chè serra revelato il detto
guardiano debbea detta robba per detta somma ad altri personi inpignorarla et
quelli denari convertirli et expenderli in
subsidio et bisogno di detto conventi et fari diri tanti missi per
l’anima di detta donatrici et il ditto condam Leonardo per li frati di detto
convento et quoniam sic voluit ditta donatrix et non aliter nec alio modo.
Il nome
del padre guardiano doveva essere padre Cola Andrea Gaitano: non è certamente
racalmutese, mentre originari del paese appaiono tutti gli altri sei
fraticelli.
Fra Ludovico de Salvo
La famiglia cui apparteneva fra Ludovico Salvo
è così censita nel rivelo del 1593:
Nel 1602
consegue i quattro ordini minori e pare che non sia andato oltre.
Un’annotazione del vescovo Bonincontro del 1608 farebbe pensare che fra
Ludovico abbia lasciato il convento e si sia secolarizzato. Lo troviamo infatti
fra i chierici sottoposti alla giurisdizione dell’ordinario diocesano:
Ludovico
di Salvo an 26 cons. ad 4 m. ord. die 23 martii 1602 ... S. Francisci
Fra
Ludovico era nato a Racalmuto nel 1581 come da questo atto di battesimo:
Fra Sebastiano d’Alaimo
Semplice
frate nel 1593 ricevette sicuramente gli ordini sacerdotali. Nella visita del
1608 viene autorizzato alle confessioni per sei mesi:
Frater
Sebastianus de Alaimo ordinis S.ti Francisci Convent. ad sex menses
Risulta
dai Rolli di S. Maria quale teste in un atto del 28 ottobre 1597. Null’altro ci
è dato di sapere su questo francescano, sicuramente racalmutese.
Il
Convento del Carmine.
Per il
Pirro questo convento è nobile ed antico ed ai suoi tempi (1540) contava 10
religiosi con 108 onze di reddito. Ne era stato solerte priore per 46 anni il
racalmutese fra Paolo Fanara. La lapide del suo sepolcro fornisce questi dati
biografici:
Paolo
Fanara innalzò, accrebbe e decorò, dotandolo d’immagini, questo tempio; curò
l’edificazione del convento con somma operosità. Visse 71 anni e nell’anno
della salvezza 1621, dopo 41 anni di priorato, morì nella pace sel Signore.
Fra Paolo
Fanara nacque dunque nel 1550; nel 1575 diviene priore del cenobio carmelitano
di cui è fondatore a Racalmuto. Il convento viene edificato accanto alla chiesa
periferica del Carmelo, che stando ai documenti disponibili sorgeva invero da
tempo, a dir poco dal 1540.
La chiesa,
invero, sembra in costruzione al tempo della morte del barone Giovanni del
Carretto che così ne accenna nel suo testamento:
Item
praefatus Dominus Testator dixit expendisse unceas centum triginta in emptione
lignaminum et tabularum facta per
Magistrum Paulum Monreale, et per Magistrum Jacobum de Valenti, de quibus
dominus Testator consequutus fuit nonnullas tabulas, et lignamina; voluit
propterea, et mandavit quod debeat fieri computum per dictum spectabilem D.
Hieronymum heredem particularem, et faciendo bonas uncias viginti septem
solutas Ecclesiae Sanctae Mariae de Jesu,
et uncias undecim solutas pro raubis; de residuo tabularum et lignaminum compleri debeat tectum Ecclesiae Sanctae
Mariae di lu Carminu dictae Terrae Racalmuti, et voluit quod debeat expendere unceas quindecim in
pecunia in dicto tecto, et ita voluit, et mandavit, et hoc infra terminum
annorum trium.
Nel 1560,
dunque, la chiesa di Santa Maria del Carmelo era a buon punto e doveva soltanto
completarsi il tetto, cosa che andava fatta entro tre anni. Non è attendibile
quindi quel che dice l’avello del p. Fanara, quanto alla chiesa. Certo dopo il
1575 fra Paolo non mancò di farvi fare opere murarie e migliorie ed a ciò è da
pensare che si riferisca l’iscrizione della lapide.
I
carmelitani racalmutesi del secolo XVI
Nel rivelo
del 1593, questo era l’orrganico del cenobio carmelitano racalmutese:
Fra Paolo Fanara
Nella
visita del Bonincontro del 1608 il priore del carmelo è ricardato fugacemente
come confessore approvatoed indicato semplicemente come “fra Paulo di Racalmuto padre giardiano del
Carmine”.
Fra Paolo
fu molto attivo anche nelle faccende sociali. Lo incontriamo in un documento
del 1614 in cui si briga per consentire
una “fera franca” in occasione della festività della Madonna del Carmine.
«Ill.mo Signor Conte di questa terra. Fra Paulo
Fanara priore del Convento del Carmine di questa terra, dice a V.S. Ill.ma che
per devotione et decoro della festività della Madonna del Carmine quali viene
alla terza domenica di giugnetto [luglio] resti servita V.S. Ill.ma concedere
ché ogn’anno per otto giorni cioe quattro inanti detta festa et quattro poi, si
possa inanti detto convento farci la fera franca di quella di Santa Margarita
la quale si transportao in lo conventu di Santa Maria di Giesu per lo decoro
della detta festa et della terra di V.S. Ill.ma ché li sarà gratia particolare
ultra il merito che per tal causa haverà ut altissimus etc. - Racalmuti Die XX°
octobris XIII^ ind. 1614.»
Nel 1596
lo incontriamo come teste in un paio di atti della confraternita di S. Maria di
Gesù. Non spesso, ma qualche volta assiste pure alla celebrazione del
matrimonio di qualche racalmutese in vista.
Fra Salvatore Riccio di Racalmuto
Dalla
solita visita del 1608 sappiamo che èsacerdote ed è autorizzato alle
confessioni per sei mesi:
Frater
Salvator Riccius Carmelitanus ad sex menses.
A dire la
verità abbiamo dubbi sulla correttezza della grafia del cognome. Se
Racalmutese, ebbe forse a chiamarsi fra Salvatore Rizzo.
Fra Zaccaria Riccio
Anche in
questo caso, il cognome è forse da correggere in Rizzo. Un chierico a nome
Zaccaria Rizzo è presente in vari atti di battesimo ed in atti di trascrizione
matrimoniali della Matrice dal 1598 in
poi. Costui è anche citato nella nota visita del 1608:
cl:
Zaccaria Rizzo an. 25 cons. ad p. t. die 19 decembris 1597 alias vocatus Leonardus
Tratterebbesi
di un racalmutese nato nel 1581 come da seguente atto di battesimo:
Ma resta
pur sempre da appurare se v’è identità fra il fraticello carmelitano ed il
chierico che s’incontra negli atti della matrice e della curia vescovile di Agrigento.
Fra Angelo Casuccio
Nel 1608
lo ritroviamo fra i confessori:
P. Angelo
Casuchia
Stando al
Liber in quo .. sarebbe morto il 4
febbraio 1636 (c. 2 n.° 45). Certo sorge il dubbio che tra il frate carmelitano
del 1593 ed il sacerdote che del 1608 vi
sia identità di persona. Noi siamo per la tesi affermativa e pensiamo ad una
secolarizzazione del giovane fraticello del Carmine. Il Casuccio che s’incontra
in Matrice è chierico tra il 1598 ed il 1600 e figura come diacono in un atto
di battesimo del 30 agosto 1600. Il 12 gennaio 1601 è già stato, comunque,
ordinato sacerdote.
Fra Francesco Sferrazza
Analogo
dubbio sorge per questo fraticello, visto che negli atti della Matrice figura
un omonimo che però viene indicato nel Liber (c. 2 n.° 38) come don Francesco
Sferrazza Fasciotta (ma rectius Falciotta).
A
quest’ultimo di certo si riferiscono gli atti della visita del 1608, ove è
reiteramente citato. Vengono forniti alcuni dati anagrafici:
D.
Franciscus Sferrazza an. 27 cons. ad sacerd. die 17 decembris 1605 Panorm ...
quas dixit amisisse
Costui era
già protagonista a quell’epoca, come emerge dai seguenti passi di quella
relazione episcopale a proposito di S. Giuliano:
Sequitur Cappella transfigurationis
S.mi Dni Nostri Iesu Xristi, quae fuit constructa a Don Francisco Sferrazza
propriis expensis. et adhuc non est completa. Altare d.e Cappellae est decenter
ornatum super quo est Scena trasfigurationis praedictae cum multis imaginibus
aliorum sanctorum, est bene depicta et pulchra, est dotata uncias duas redditus
relictus a q. Antonino praedicti de Sferrazza pro celebratione unius missae qualibet
hebdomada quae celebratur a Cappellano Ecclesiae
Habet etiam dicta Cappella incias X
pro maritaggio inius orfanae consanguineae, pariter relictus iure legati a d.o
Antonino Sferrazza.
Da altri
elementi risulta che trattasi di un membro dell’importante famiglia degli
Sferrazza Falciotta. Sembrerebbe quindi che si debba escludere l’identità con
l’umile fraticello del Carmelo. D. Francesco Sferrazza Falciotta fu peraltro
anche Commissario del Tribunale del S. Officio e morì il 7 maggio 1630.
Se fra
Francesco Sferrazza, carmelitano nel 1593, fu persona diversa, come sembra,
nulla sappiamo all’infuori di quella citazione del rivelo.
Fra Giuseppe d’Antinoro
Dalle
brume documentali dell’archivio parrocchiale dell’ultimo scorcio del ‘500
affiorano alcune figure di religiosi racalmutesi o, comunque, operanti a
Racalmuto: uno di questi è fra Giuseppe d’Antinoro, sicuramente un carmelitano,
che l’11 settembre 1584 è presente nel matrimonio insolitamente celebrato nella
chiesa del Carmine. Per questa inusuale celebrazione era occorso il benestare
del vescovo agrigentino. Il matrimonio era avvenuto tra certo La Licata Paolo
di Paolo e La Matina Antonella di Pietro e di Vincenza. Benedisse le nozze
l’arc. Romano. Ne furono testimoni il noto fra Paolo Fanara ed il citato fra
Giuseppe d’Antinoro. Ne trascriviamo qui l’atto che si conserva nella matrice.
11 9 1584
La Licata Paolo di Paolo e di Angela con
La Matina Antonella di Petro e di Vincenza.= Sacerdote benedicente:Romano
Michele arciprete. Testi: Fanara r. fra Paolo ed D'Antinoro frate Gioseppe.
Nota: foro benedetti nella chiesa del Carmine ex concessione Ill.mi et rev.mi
n. Epi. Agrigentini
Due
religiosi di fine secolo:
fra Antonino Amato;
fra Pasquale Di Liberto
gli atti
di matrimonio di fine secolo restituiscono alla memoria questi due monaci, di
cui però s’ignora tutto: dall’ordine d’appartenenza ad un qualsiasi altro dato
biografico. Quel che conosciamo è tutto contenuto in queste annotazioni
d’archivio:
1
9 1588 Gibbardo Berto Vincenzo con Savarino Francesca di Joanne Benedice le
nozze: Amato frati Antonino. Testi:
Todisco Pietro e Rotulo Pietro
30
9 1596 Mendola (la) Leonardo di Angilo e Paolina con Aucello Antonella di Paolo
e Minichella. Benedice le nozze: Spalletta don Nardo. Testi: Mulioto Giuseppe e
Di Liberto frati Pasquali.
Nella
visita del 1608 è invero ricordato un francescano a none fra Antonino Amato:
che si tratti dello stesso monaco del 1588, non abbiamo elementi per
affermarlo. Questi comunque non figura nel rivelo del 1593. Nella relazione
episcopale del 1608 è indicato in questo stringato modo:
Notamento di confessori di S.to
Francisci: il p.re guardiano - fra. Antonio di Amato.
Chiese, quartieri e facoltà nel
rivelo del 1593
I
ponderosi volumi del rivelo del 1593 non possono essere tutti minuziosamente
setacciati, se non da una squadra di studiosi e con rilevanti mezzi economici.
Dobbiamo quindi accontentarci di alcuni sommari cenni.
A
quell’epoca la terra di Racalmuto era idealmente segnata da un sistema di assi
cartesiani in cui l’ascissa era una linea ideale che dalla Guardia andava al
Padre Eterno e l’ordinata (che all’atto pratico era una sequela di strade
tortuose) partiva dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel mezzo vi era di
sicuro la chiesa di Santa Rosalia (sicuramente in prossimità dell’attuale
Collegio, ma a quale punto non sembra che si possa individuare con certezza).
In tale sistema la parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere di S.
Margaritella; quella di sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di
nord-est era la Fontana ed infine il quartiere del Monte occupava la sezione di
nord-ovest.
All’interno
vi erano località di spicco che negli atti ufficiali servivano per
l’individuazione di case e beni: faceva spicco il rione di Santa Rosalia che in
effetti risultava inglobato prevalentemente nel quartiere di San Giuliano ma
una minima parte debordava in quello di S. Margaritella. Santa Rosalia - che
talora veniva chiamata S. Rosana o S. Rosanna o S. Rosaria, non si capisce bene
se per errata trascrizione o per omonimia popolare o per la presenza nella
chiesa di qualche altra immagine della celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava
tanti personaggi cospicui. Esclusivo appare anche il rione di S. Agata.
La comunità
ecclesiale di Racalmuto nei primi anni del Seicento.
Il nuovo secolo, il XVII, si apre a Racalmuto con un vuoto:
non c’è ancora il nuovo arciprete. Questi viene solo dopo alcuni mesi e si
tratta di
Andrea d’Argomento.
Questo nuovo arciprete di Racalmuto è comunque esaminatore
sinodale ad Agrigento, ed è dottore in utroque
iure; giunge nel marzo del 1600, il giorno della festività di San Tommaso
dottore della chiesa, prende possesso della chiesa arcipretale di S. Antonio,
anche se forse anche lui preferisce la più centrale chiesa suffraganea della
Nunziata. Questo pozzo di scienza immigra a Racalmuto, oriundo da non si sa
quale parte della Sicilia. Forestiero, di sicuro, ma almeno in paese ci viene e
rispetta le novelle costituzioni tridentine. Non muore però come arciprete del
paese; si trasferisce o viene mandato altrove. Ma per l'intero triennio 1600-2
lo ritroviamo annotato qua e là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti
del 1601 rimangono rivelatrici annotazioni come "detti fra Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete;
all’arciprete; palora al s. arcipreti”. Il senso è evidente; non può che
trattarsi del regolamento dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri
termini la quota di spettanza per i funerali (che costavano per le spese di
chiesa, 5 tarì e 10 grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le
“glorie”, i bambini). Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture
avvengono “a lo Carmino” (ed ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo
Fanara, di cui abbiamo fornito cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu) - e vi viene tumulato un
pargoletto della racalmutesissima famiglia Mulé, ed a S. Giuliano (accompagnata
da tutto il clero vi è sepolta una tale Angela Turano, ceppo poi emigrato da
Racalmuto). Sia però chiaro che non abbiamo elementi di sorta per sospettare di
questo arciprete dottore in utroque.
Crediamo, anzi, che sia stato bene accetto e rispettato: un "signore
arciprete", dice il chiosatore dell'archivio parrocchiale.
Dopo il 1602 sino al 10 gennaio 1606, l’Horozco ha traversie
giudiziarie, contese con Roma, deve vedersela con il conterraneo - ma non per
questo meno ostile - vescovo di Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato
dai nobili, è costretto a fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di
obbrobri giudiziari per il tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi,
canonico percettore della prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la
Sacra Congregazione dei Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i
canonici cammaratesi don Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera,
e don Raimondo Vitali: il primo era accusato di pederastia; il secondo di
relazione peccaminosa con la vecchia madre del primo.
La diocesi sbanda e così Racalmuto. Certe carenze d’archivio
parrocchiale ne sono un indice. Il nuovo vescovo Vincenzo Bonincontro, che si
insedia il 25 giugno 1607 e durerà a lungo sino al 27 maggio 1622, dovette
mettersi di buzzo buono per riordinare la sua turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18 giugno del 1608, il novello
vescovo da Canicattì si porta a Racalmuto per la sua visita pastorale. Ne
tramanderà una relazione minuziosa, ricca di riferimenti a persone, chiese,
istituzioni, fatti e misfatti, tale da rappresentare una preziosissima fonte
per la storia di Racalmuto, e non solo quella religiosa.
L’anno successivo, il Bonincontro
ritorna a Racalmuto e completa la vista..
Il Bonincontro trova a Racalmuto una
situazione che doveva essere anomala sotto il profilo del codice canonico del
tempo. Il figlio legittimato - era stato concepito fuori dal talamo coniugale
dall’irrequieto Giovanni IV del Carretto - don Vincenzo del Carretto si era
insediato nella chiesa di S. Giuliano, elevandola a sede parrocchiale. Dove e
quando e se fosse stato consacrato sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma
si guarda bene dall’indagare. Il potente e collerico figlio del prepotente
Giovanni IV non consente insolenze del genere. Neppure il titolo arcipretale e
l’appropriazione di San Giuliano hanno i crismi della legalità canonica. Il
Bonincontro sorvola: ratifica il fatto compiuto. Solo, divide la terra in due
parti approssimativamente uguali: la bisettrice parte dal Carmino ed arriva a la
Funtana lungo un percosso che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo
riusciti a tratteggiare con sicurezza. Non passava di certo per la discesa
Pietro d'Asaro, al tempo un vadduni
pressoché impraticabile, ma lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la
chiesa di Santa Rosalia, posta al centro del paese, ma dalla parte di S.
Giuliano, per irrompere nella parte terminale della vecchia via Fontana.
La parte a sud-est viene lasciata a
questo strano arciprete; quella a nord-ovest, in mancanza di anziani ed
autorevoli sacerdoti, viene assegnata al giovane - è appena ventisettenne -
fratello del pittore Pietro d’Asaro, don Paolino d’Asaro. Di sfuggita annotiamo
che il pittore nel 1609 è già affermato ed una sua tela - oggi purtroppo
irrimediabilmente perduta - viene apprezzata, come abbiamo visto, in occasione
della visita a Santa Margherita, la chiesa congiunta e collegata con quella di
Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo
est pulchrum quadrum dictae S. Margaritae
depictum in tila manu pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il
segretario del vescovo).
Giovanni
IV del Carretto, familiare del Santo Ufficio, ma per interessi e per sottrarsi
a tribunali laici molto meno accomodanti, non dovette essere molto religioso.
Quel figlio legittimato che faceva il prete nel suo lontano feudo di Racalmuto
doveva apparirgli come un povero diavolo che si arrabattava per superare le
umiliazioni del suo essere stato concepito in toro non benedetto. Gli echi
della vita religiosa della sede della sua contea gli saranno pervenuti, ma molto
affievoliti, lasciandolo nella totale indifferenza. Non vi è documento che
comprovi la sua presenza, anche saltuaria, a Racalmuto. Ma appena seppellito
quel truculento conte, il figlioletto deve raggiungere la lontana dimora di
Racalmuto, così diversa dai fasti di Palermo.
GLI ARCIPRETI DI RACALMUTO SOTTO
GIROLAMO II DEL CARRETTO
Don Vincenzo del Carretto, arciprete
di Racalmuto lo fu (o volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura
risulta passata a tale Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. ()
Secondo il prof. Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi
arciprete del nostro paese:
1613 PIETRO CINQUEMANI
RETTORE e poi
nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber in quo a f. 1, n°. 11 come «D.
Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano
ancora tale nel 1615, ma l'anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il
7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di
Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi
atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo
la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42).
Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili a Racalmuto, tristi, lieti
e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto,
vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una
con una bolla che si conserva in
Matrice; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel
centro del paese.
*
* *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi
del comitato dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a
Racalmuto nel 1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha
quasi nove anni; finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del
Carretto che, per eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene
frattanto arciprete della importante
comunità ecclesiale di Racalmuto. Non ci sembra un prete molto degno. Non
finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo
esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta
intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica
ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei
suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesa dell’Itria, può far
sospettare ancor di più, ma può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma
soprattutto “balio e tutore” dell’illustre conte, deve vedersela con le
procedure della successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi
cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità.
Tergiversa. I processi di investitura mostrano una sfilza di rinvii a richiesta
appunto di codesto strano arciprete. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra
del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2
settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di
Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio
risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia.
Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del suo nuovo protetto, il
nostro Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di
battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa
parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28
octobris XI ind. 1597
Ba: lo
ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D.
Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona conti et constissa di
Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et excellentissimo don
Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia
et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo
pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni;
la sua futura sposa ha appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati
anagrafici contenuti nel noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il
matrimonio avverrà comunque attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la splendida Beatrice
Ventimiglia sedicenne (nell’atto di
donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del
Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe
comunque modo di interessarsi alla scottante questione del terraggio e del
terraggiolo. Se ne è parlato sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei
gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo
comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori
dello stato di Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da
un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e
chiudere le annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000
scudi che al saggio allora corrente del 7% potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel
che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o
iniqua; sappiamo però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di
vassalli (soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli
abitati feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei
profughi che non vollero essere
tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò allora di
ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via
fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di
ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo già detto.
Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni
sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria
se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza un
anticlericale spumeggiare.
In una memoria del 1738 , quando lo
stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la
vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene
inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello
stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano
terre fuori del territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni
salma di terra coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse
di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa
tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la
misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di
terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima
specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si
ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano
sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre
1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal
terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di
Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo
studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del
terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il
giovanissimo conte Girolamo II concordava con l'agostiniano di S. Adriano, fra
Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e
separate: non relazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno
all'antico; l'altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della
pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei
racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli
agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non
mancarono certo a Racalmuto.
Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia
pur superficiale lettura dei documenti rende incontrovertibili.
Fra
Diego La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di
Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il
1622, come vorrebbe Sciascia e come disinvoltamente si continua a scrivere).
Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei
sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe
la sventura di finire in un convento che già nel 1667 () si tentava di
scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da
brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di
rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più
pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre
mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo
indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di
battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una
imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621
(ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente
si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione
corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni
assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine
raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che
in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre
Matranga ().
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di
fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore
Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche del monaco
agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se
deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina,
gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a
qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel
retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’
Sagramenti .. superstizioso ... empio
... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime
innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più
consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da
'fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo
‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un
individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le
campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse
invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del
Sant’Uffizio; o dalla giustizia
ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal
Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia
ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano
alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco
Cavarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta
in latino, ove malaccortamente il
presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et
proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del
Porto del capoluogo agrigentino. () Da un contesto di canonici libertini e
concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e
dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della
lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del
suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia -
doveva pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla Congregazione
sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono
molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro
ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più,
et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e
quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e
laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei
sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino,
e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che
sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ().
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al
quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto
opposta a quella data dallo scrittore.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego,
il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo
segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli
inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il
beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però,
tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto
sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione
essendogli stato trovato nelle “sacchette”
“un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal
crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per
Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il
fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe
tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi
arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del
Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la
vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe
dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego
scrisse di sua mano con mille spropositi
ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli
atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come
corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri,
il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se
un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto
d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina -
erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da
scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi
ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un
invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni
si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito
secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S.
Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del
convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto
appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al
terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta
scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una
bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del
contemporaneo p. Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che
si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di
religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le
campagne dell'Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi
qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si
imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero
della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i
padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna,
ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i
militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all'uomo fu
immediata e proficua. I 'ladri di passo' ebbero subito segnata la loro sorte:
furono senza indugio giustiziati sul posto. ()
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E
tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione
cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato
Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto
di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio
Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre
1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di
42 anni - «susceptis sacramentis
penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae
Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis
capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia
Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato
condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia,
spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il
suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in
Matrice, nella fossa comune." ()
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi
conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le
sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo
già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo
stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo
elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto
plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del
Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti
subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P.
Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate
agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà
di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E
Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel
linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza
dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore”
op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il
Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare
di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno
di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente
religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin
troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto
scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione
era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure
peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle
corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato”
così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del
Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece
franca da un irridente assassinio.
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio:
del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del
taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma
parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro
la chiesa. Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana.
Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto
attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì,
il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico
martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di
testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura
ostica.
Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina
fu Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle
tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare
addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il
titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia
agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era
una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La
Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera
identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al
condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15
marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente letto:
Eodem
[nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di
Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug.
[giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don
Paolino d'Asaro] p./ni [patrini]
iac.° [
illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna]
di Ger.do [Gerlando] di
Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal
tenace concetto la presenza a
Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime
della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza
dell'esecuzione dell'agostiniano fra Diego -
di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l'aria di essere lo stesso
che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina
ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo
scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e
prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore
di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo
Sciascia. A noi risulta, invece, - come
si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente
assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle
Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi,
è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a
Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo
una polisa con il diavolo per
risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla
nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia
irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento
fraticello di Racalmuto.
Assistito dal notaio racalmutese
Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto
di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni
che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro
anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del
Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non
appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco
per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di
morte sulla nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di
Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno
successivo, un servo spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo
fede totale alla trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si
conservava?) nel sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale
torna molto acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato
come quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per
aspirare ad un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e
distinti, vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della
«Madonna della Catena» (le pretenziose note
di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo
III del Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero
inverosimili.)
Quel sotterfugio della consegna
dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia
documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27
luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella conservatoria notarile
della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di
mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto
nato il primogenito destinato alla successione nella contea.
Nel cartiglio del Carmine il conte
Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622.
Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla
colonna n.° 83, n.° d'ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto
fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si
aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di
questo conte ucciso a soli venticinque anni.
Gli
arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime,
allo Sconduto era succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un
quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore
nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo
d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e
qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare il merito della moderna
Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto
sulla sponda del fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può
arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è
anche per quei tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si
chiama Traina come lui, di nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se
effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti sono
religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto come don Filippo
Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la pacchia veleggeranno verso
altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina. Particolare menzione merita codesto
don Giuseppe Traina che nel 1639 figura come economo della Matrice, incarico
che ricopre nel 1645; nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete.
Era stato nel frattempo costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di
donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato taluni pretesi diritti di
mora per mancata corresponsione del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV
e dei suoi eredi Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi
l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle
pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di
Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue erogazioni che il convento è
costretto a subire in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie
note spese che appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di
Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione,
pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore
ragionieristico.
Il giovane arciprete Tommaso Traina s'impania
nella transazione con gli eredi di don Santo d'Agrò: sobillatore ci appare
l'esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della
Matrice don Santo d'Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato
rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in
favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta
allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra
ed a destra dell'attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere
ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l'esecutore
del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da
rogito notarile. Il rogito cadde sotto l'attenzione di Tinebra Martorana,
procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da
quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel
po' po' di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non
manca di sorprenderci. A dire il vero l'alumbriamento
più che nel casto sacerdote Santo d'Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani
scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su
Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non
foss’altro d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo
troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla
ricostruzione della storia dei del Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo
per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco
Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura agiografica ha su di lui
profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina
muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:
30/8/1648
Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il
d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto
d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice
chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice,
si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il
vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro,
cessa di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece
incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri
ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa
il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione
sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un
protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua
Storia della Sicilia.
Religione, clero ed altri aspetti
nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al Traina, frattanto, era subentrato
nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia.
Porta con sé un parente sacerdote,
don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino
Morreale viene giubilato e deve emigrare.
Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco
Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo
censimento di Racalmuto conservato in Matrice.
Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già
in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa
servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella.
(il solito censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a
Racalmuto la moglie ed i figli
dell’infelice Giovanni V del Carretto.
La contessa ha i suoi guai: deve
risolvere i problemi del recupero dei beni feudali che sono stati requisiti dal
re per l’alto tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono,
come si è detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in
teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il
nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita
Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della
fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei
lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED
ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto
incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la
penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore
Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal
vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal
vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità
diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar
Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro
notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di
d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d.
........ onze -/ 12.
La pia
contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per
la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di
Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il
28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo
pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa in opera delle colonne della
Matrice - quelle di cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo
Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo
passo e studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica”
per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori
dell’entroterra contadino, come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio
1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:
1664 SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius
matricis Ecclesie
Viene sepolto in
Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S.
Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore
Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666.
Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete
racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per
lasciare un segno profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile
nella cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della
Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite:
debolezza del nipote che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si
pensi quale ofelimità potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di
Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4
gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658
sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - +
15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli
spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una
cattedra durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, +
14 agosto 1696. Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27
agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per
il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana).
Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo
teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio -
sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico
e sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il
vezzo di preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento
della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto
all’incauto comportamento di alcuni catapani
che avevano tentato di applicare
l'imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene -
del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente
per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia
Apostolica).
Se, un moribondo - ossessionato dalla sola
paura dell'inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un
confessore e non l'avesse avuto per l'interdetto dei fagioli, era destinato
alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia agrigentina forse è in
grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i tanti, troppi, nostri
antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a
Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore -
tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D.
Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi
ministri, che concorsero al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E
soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico
della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città
e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e
armata mano levò il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro
vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera
circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti
vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase
ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo.
Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una
bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire
cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora
era quella all’aperto a li fossi. Solo
che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono
con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non
avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole
e dai cani randagi.
Quelli che venivano sepolti in
chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la
gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope
ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente
poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola
all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in quel derelitto
cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un
parlare e scrivere poco ... latino
(nell'accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in
eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali”
S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S.
Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus
Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari fece autorizzare
l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui
parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte del prof.
Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne fa nominare i mansionari.
Contro la devastante peste del 1671
nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non
annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello
economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi
morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante
primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva
drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a
racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la tassa del macinato
per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che
rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il
neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del
padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di
“paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento
degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed
in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e
delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato
convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di
Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi
preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua
chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.
Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale
Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S.
Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò
ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui
memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare
alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.
Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli,
di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza
decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello
che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo
consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non
sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo
fare altro che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia
di Girolamo e Giuseppe del Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto
1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale
carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da'
Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu
eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone.
Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di
camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposo nelle prime sue
nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia
ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI.
Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696.
Risale al 20 settembre 1699 una relatio
ad limina del Vescovo di Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali
che i vescovi erano tenuti a fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di
Trento sullo stato della propria diocesi). Là
troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la
pena di richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso
dalla documentazione degli archivi
statali.
''RECALMUTUM - Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti
sotto la cura di un arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto
tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento
scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore canonice' da
parte di sacerdoti vestiti con
paramenti canonicali (Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di
religiosi:
- dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;
- dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;
- dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3
laici;
- dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due
laici;
- una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S.
Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e due laici.
Reputo qui di
rappresentare che questi religiosi, dopo avere accettato di accudire all'ospedale, non hanno giammai pensato di
rinunciare all'istituto ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito
dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non
vi sono forze per costringerli a
rinunciare ai proventi o a lasciare i locali del convento.
Sorge un monastero di monache sotto la regola del terzo
ordine di San Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due
novizie e 5 converse.
Oltre alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima
segnalate, vi sono quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei
laici.''
Sul
vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari
riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è
profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto
(1755-1802)
Bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante -
quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia nelle vicende della
famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di
dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite
manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri
ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari contrapposizione
con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra nell’intricata
storia del beneficio del Crocifisso.
Quando, il Tinebra Martorana - un famiglio della discutibile
consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a scrivere la storia del
paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un documento giudiziario -
che invece di venire custodito negli archivi del Comune, sta fra le carte
private del barone Tulumello - per dileggiare un Savatteri, la famiglia ostile
ai suoi protettori, che fra l’altro lo facevano studiare da medico a spese
dell’Amministrazione comunale.
Quello sui cui il Tinebra trama è il carteggio del
Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che riguarda il nostro
sacerdote:
«17. La
Gran Corte dia le pronte provvidenze di giustizia, onde li cittadini non
soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16 - Li naturali della terra di
Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo esattore ed amministratore Prete
d. Giuseppe Savatteri nell'esigenza del terragiolo dentro e fuori di questo
stato, quanto nell'avere agumentato la Baglìa a tutti li poveri giornalieri,
formando una Cascia o Statica come anche esatte a forza di prepotenze
pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie e pratticando molte
estorsioni.
«Pregano
l’E.V. di ordinare il conveniente per non vedersi pur troppo soverchiati.»
Al Tinebra Martorana mancano competenza e penna per
fronteggiare la complessa vicenda della lotta al baronaggio siciliano da parte
del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione dei laici del Settecento e
del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che trova). Il Tinebra, dunque,
compatta scarne e disparate “notizie storiche” in un capitoletto sul Settecento
e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 - Soprusi praticati dal sac. Giuseppe
Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a
Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere
anticlericali. Nessuna ricerca storica,
da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo
Sciascia :
«Ecco il rapporto di un altro funzionario al Tribunale della
Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i
poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo di un’evidente lettera
anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del malevolo arciprete
Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il Savatteri aveva affilato
le armi per l’usurpazione del beneficio del Crocifisso.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il
Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias
Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote
Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la
cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le
cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di
Napoli, che è quanto dire.
D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì nella peste del 1802; il
Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e Brutto, 27 februarii 1802
d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come beneficiale della Communia. Il
Savatteri faceva però parte della neo-confraternita della Mastranza. Non pare
molto diligente nell’annotare le messe che era tenuto a celebrare per i
confrati defunti: subisce delle sanzioni. Così risulta annotato in registri
della confraternita.
Abbiamo prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci
pare opportuno riportare alcune annotazioni disseminate nei registri
parrocchiali della Matrice.
1713 (Morti dal 1714 al 1724)
Dopo il 28 agosto 1719:
L’interditto fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D.
Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con il consenso della S. Sede nella
Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di
Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D.
Giuseppe Garucci (?) Can. Teo. E Vic. Generale Apostolico con l’Autorità della
S. Sede.
Morti 1707-1714 (Die 3 7bris 1713 VII Ind.)
Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum
interdictum generale locale in hac terra Racalmuti.
Battesimi 1711-1716 - pag. 450.
Ad perpetuam rei memoriam Die tertio septembris septimae
inditionis 1713 Vigilia Sanctae Rosaliae nostrae Patronae hora vigesima, fuit
affixum interdictum in Civitate Agrigenti et in eiusdem Dioecesi ab Ecc.mo et
rev.mo D.no D. Francisco Remirens Episcopo dictorum
Archipresbitero D.re D. Frabritio Signorino 1713.
Il Lo Brutto fu personaggio di spicco; arciprete, in
simpatia delle varie autorità vescovili, di famiglia presso l’ultimo conte Del
Carretto, dispensatore di benefici e di mozzette clericali, finì – come si
disse – sepolto in Matrice, osannato da una lapide a spese del nipote dottor
Antonio Pistone:
Matrice ex Cappella dell’Annunziata.
Monumentum hoc mortalitatis, quod jure sacelli propriis sibi
facultatibus ascito, ante aram Virginis huius templi patronae, familia Brutto
paraverat, doctor don Antonius Pistone, hic situs, velu optimus heres,
honorifico lapide, qui suos suorumque cineres decentius conderet, exornatum
curavit, votumque expletum est. -
Kalendis Septembris MDCC - Post eius obitum anno sexto.
(Stemma - Pampini - leone alato ... elmo chiomato del milite)
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA
AUSTRIACA
Se
volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio
spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare
riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia;
alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude
in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del
1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo
l’osservanza dei Capitoli del regno.
Il vescovo Ramirez che prima di recarsi in esilio lancia
l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso periodo:
l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che cadde il 7
agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20 ottobre 1735) lo
chiudono sotto un duplice profilo:
quello feudale, ma in senso involutivo, visto che si ritorna ad una feudalità
vessatoria che la morte dell’ultimo conte del Carretto nel 1710 aveva di molto
rilassata, e sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli arcipreti
d’estrazione locale, molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco Torretta
inizia una serie di racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure come
“economo-vicario” ) che si protrae – fatta eccezione per la scialba arcipretura
di Antonio Scaglione - sino ai nostri
giorni.
Sull’interdetto
del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare.
Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di
cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da die compagnie di
Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9
cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale
viene ripartito il c.d. “donativo”.
Col passaggio sotto l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento
della morsa militare e l’ordine pubblico ne risente: resta celebre il caso del
bandito Raimondo Sferrazza di Grotte, tra i cui affiliati un qualche
racalmutese vi dovette essere. Lo Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30
aprile 1727. Iniziò la sua attività criminale vera e propria nel 1723. Vittima
dello Sferrazza risulta tale Mariano Calci di Racalmuto.
Da Prizzi arriva a Racalmuto il successore di d. Fabrizio
Signorino: don Filippo Algozini, che non dura più di un quinquennio. Muore nel
1735 e pare non abbia lasciato un buon ricordo nei suoi confratelli se costoro
si limitano ad annotarne la morte sul LIBER, al n° 220 seccamente, senza alcuna
sottolineatura. Invero era stato un arciprete alquanto vivace, piuttosto energico
e sicuramente preciso ed ordinato. Ci lascia un tariffario che illustra ad
abbondanza quanto fiscale fosse la Chiesa di allora: veramente tassava dalla
culla alla tomba come abbiamo avuto modo di rappresentare una volta in una
nostra mal tollerata conferenza alla Fondazione Sciascia. I balzelli venivano
pudicamente denominati diritti di stola;
il maggior peso si aveva per i matrimoni per i quali vi è una casistica tanto
puntigliosa quanto invereconda; ecco, infatti, l'ampia gamma di aliquote per tasse
matrimoniali dovute alla locale Matrice.
1731
Tariffario
dei diritti di stola per il matrimonio celebrato in chiesa, a Racalmuto, sotto
l’arciprete Algozzini, originario di Prizzi:
Sponsali 1731 al 1738
LIBER PROCLAMARUM
PRO NUPTURIENTIBUS ET ORDINIS SACRIS INSIGNIRI CUPIENTIBUS
E ANNO 1731 QUO FUI IMMISSUS
IN HAC MATRICI RACALMUTI
EGO PHILIPPUS ALGOZINI PRITIENSIS
S.T.D. ARCHIPRESBITER USQUE AD ANNUM 1770
TASSA PER
L'INCARTAMENTI
se la sposa esiste in questa terra
LE SPESE SONO CIOE'
PER LETTA REGOLARE AL PARROCO DELLA TERRA DOVE
ABITA IL
SPOSO-------- T. 1
SEDE DI
DENUNCIE---------- T. 2 10 GRANI
ORDINE
PER IL COPIARI TESTES T. 1
LETTERE
ALLA G.C. : T. 1
P.
SOVRATASSA DI DETTA LETTERA
NELLA
QUALE DONA LICENZA
DI
SPOSARSI T. 1
TASSA T. 3 10
GRANI
-----------
---------------------
-----------
T. 10 0
..
LETTERA
REG.RE AL PARROCO T. 0 10 GRANI
TESTI
T . 2
??
T. 1
LIC.
REGOLARE
T. 2 10 GRANI
TASSA
DELLA LETTERA DI GI.GNTI T. 10 GRANI
// 15
GRANI
-----------
---------------------
-----------
T. 7 5 GRANI
SE
PERO' LA SPOSA E' FUORI PARROCCHIA
ORD.
DEL COPIARE LI TESTES T. 1
SEDE DI DENUNCIA T. 2 10
Dobbiamo
però alla penna dell’Algozini un preciso inventario delle ricche suppellettili che ormai dotavano
la Matrice; in più abbiamo una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo
della locale arcipretura, in uno con la raffigurazione dell’interno della
chiesa dell’Annunziata, nonché con altri dati di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini lascia, comunque, in sospeso la questione del
quadro della Maddalena che si continua ad attribuire a Pietro d’Asaro;
l’arciprete si limita ad annotare: “Altare di S. Maria Maddalena: item il
quadro con la figura di detta Santa” e non ne indica l’autore; per lui – come
per noi – l’autore è anonimo. Se una congettura personale è permessa, tendo a
credere che il quadro sia stato commissionato dall’Agrò in prossimità del 1637
(molto dopo dunque dalla datazione 1622 di cui a pag. 66 del Catalogo del
1985), in nome e per conto di qualche confraternita della Matrice o della
Fabbrica; consegnato agli eredi, costoro con l’accordo del 1641, s’impegnano a
sistemarlo nella già operante Cappella della Maddalena, il cui spazio
antistante viene acquisito per la “carnalia” del sacerdote defunto e dei suoi
eredi, previa destinazione alla “Fabbrica”
di un censo annuo di un’oncia, prescelto tra i legati del sac. Santo
Agrò. Singolare è il fatto che nel 1731 si è perso il ricordo della tomba del
sacerdote benefattore e l’Algozini si limita ad annotare che «non sono
sepolture sotto le predelle dell’altari” e che in tutta la chiesa le gentilizie
di specifici “patronati” sono solo quattro ed appartengono ai « fratelli del
SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo Brutto ed agli Acquista”». Ma già a
partire dal 1654 non si rintraccia nei libri contabili della Fabbrica il
cennato censo di un’oncia dell’eredità Agrò.
L’elaborato algoziniano che si conserva presso l’archivio
vescovile di Agrigento ci fornisce un insostituibile spaccato della comunità
racalmutese in pieno regime austriaco. Il 28 giugno 1731, l’arciprete consegna
al visitatore pastorale un folto fascicolo di «notizie che dona il Molto Rev. Dr. Filippo Algozini archipresbitere di
detta terra, alle dimande nelle istruzioni dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo
Gioeni, vescovo di Girgenti per la visita pastorale.» Quel celebre vescovo
era di recente nomina (con bolla pontificia dell'11 dicembre 1730, esecutoriata
in Palermo il 5 gennaio 1731) e all'inizio dell'estate è già a Racalmuto per un
controllo ficcante e pignolo. Fornisce un questionario dettagliatissimo cui
l'arciprete deve dare esaustive risposte. Una fatica improba per lui, ma buon per
noi che siamo così in grado di disporre di una stratigrafica ricognizione della
comunità di Racalmuto a quasi un terzo del Settecento.
Unica la parrocchia, ma quindici le chiese “secolari”, nove
nell’abitato e sei nelle campagne; inoltre sei sono quelle dei “regolari”. In
totale ben 21 luoghi di culto e cioè:
le n° quindici “secolari” sparse per il paese:
la Matrice
chiesa sotto titolo della SS.ma Annunciata ; il Rettore ed
Amministratore il M.to Rdo Archipresbitere Dr D. Filippo
Algozini;
Oratorio
del SS.mo Sacramento sotto titolo di S. Tomaso d’Aquino, il Rettore il sud.o
Dr D. Filippo Algozini Archiprete, ed i congionti Mo
Scibetta e Mo Giuseppe di Rosa, che l'amministrano;
Chiesa
sotto titolo di S. Maria del Monte, il Rettore clerico coniugato Agostino
Carlino, Rdo Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito congionti, che
l’amministrano;
Chiesa
sotto titolo di S. Rosalia, amministrata dalli Giurati di questa terra come
Padroni;
Chiesa
sotto titolo di S. Anna, il Rettore clerico coniugato D. Calogero Sferrazza
congionto a Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele che l’amministrano;
Chiesa
sotto titolo di S. Micheli Arcangelo, il Rettore e Amministratore il Rev. Sac.
D. Francesco Pistone;
Oratorio
sotto titolo di S. Giuseppe, il Rettore Dr. D. Giuseppe Grillo ,
notaio Nicolò Pumo ed Ignazio Mantione congionti;
Chiesa
sotto titolo di S. Maria dell’Itria amministrata dal Rev.do Sac. D. Pietro
Signorino Beneficiale;
Chiesa
sotto titolo di S. Nicolò di Bari amministrata dal R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò
mansionario della Catredale di Girgenti, e per esso dal R.do Sac. Dn Isidoro
Amella procuratore.
Queste le annotazioni che riguardano le chiese di campagna,
denominate “chiese fora le Mura”:
Chiesa
sotto titolo di S. Maria della Rocca, il Retttore o amministratore Sac. D.
Vincenzo Avarello;
Chiesa
sotto titolo di S. Maria di Monteserrato, in cui si celebra la povera festa
dalli pij devoti;
Chiesa
sotto titolo di S. Maria della Providenza amministrata da D. Paolo Baeri
Patrono;
Chiesa
sotto titolo di S. Marta amministrata da Pietro Mulè Paruzzo procuratore;
Chiesa
sotto titolo di S. Gaetano amministrata dall’Ill. Marchese di S. Ninfa come
Padrone;
Chiesa
sotto titolo del SS.mo Crocifisso, amministrata dal Rev. Sac. D. Antonio La
Lomia Calcerano fondatore.
Dichiarato che non vi erano “cappelle ed oratori domestico”
(queste saranno di moda alla fine del Settecento e si protrarranno sino alla
seconda metà del XX secolo), ecco la descrizione dei monasteri che sono “cinque
conventi de’ regolari ed un monastero di Donne”:
Convento
di S. Maria del Carmine;
Convento
di S. Francesco de Padri Minori Conventuali;
Convento
di S. Maria de Padri Minori osservanti;
Convento
di S. Giovanni di Dio de’ PP. Fateben fratelli;
Ospizio di
S. Giuliano de’ PP. di S. Agostino della Congregazione di Sicilia;
Monastero
de Monache dell’ordine di S. Francesco.
E si precisa che all’epoca non vi erano conventi soppressi.
A Racalmuto operava un ospedale “sotto la giurisprudenza dei
Padri fatebenfratelli giusta li loro privilegi”. Non vi erano ancora monti di
pegno.
In compenso operavano due confraternite e cinque
“compagnie”.
Confraternità
di S. Maria di Giesù, li Rettori sono Pietro Casucci, Pietro d’Agrò, Vincenzo
Missana e Giovanne Farrauto; si fanno ogn’anno nella Prima domenica di gennaro;
Confraternità
di S. Giuliano, li Rettori sono Giovanne d’Alaymo, Ippolito Fucà, Giuseppe
Savarino e Vito Mantione, il loro governo dura anno uno, incominciando dalla
Prima Domenica di Gennaro;
Compagnia
del SS. Sacramento, Governatore il Mo R.do D. Filippo Algozini,
congionti Mo Giacinto Scibetta e Mo Giuseppe Di Rosa, il
loro governo dura tre mesi, incominciando dalla domenica infra "octavam
Corporis";
Compagnia
del Thaù fondata nella Chiesa di S. Anna, Governatore D. Calogero Sferrazza,
congionti Sigismondo Borsellino e Diego Emmanuele; dura il loro officio tre
mesi, incominciando dalla Domenica più prossima all’otto che ch’incide del
mese, li presenti furono fatti all’8 Giugno 1731;
Compagnia
dell’Anime del Purgatorio fondata nella Chiesa di S. Micheli Arcangelo,
Governatore Raimondo Borcellino minore, congionti Rev.do Sac. D. Santo Farrauto
e Santo La Matina Calello; il loro officio dura quattro mesi incominciando
dalla Prima Domenica di Gennaro;
Compagnia
di S. Maria del Monte, Governatore Clerico Coniugato Agostino Carlino,
congionti R.do Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio Busuito; il loro officio
dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Settembre;
Compagnia
di S. Giuseppe, Governatore Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro Pumo ed
Ignazio Mantione; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla seconda
domenica di Gennaro.
Ci viene fornito un dato anagrafico di notevolissima importanza:
sapendo quanto precisi erano gli uomini della Chiesa, possiamo essere certi che
davvero a Racalmuto, nel giugno del 1731, c’erano 1200 famiglie con 5.134 anime
o abitanti che dir si voglia (in media 4,28 componenti per ogni nucleo
familiare). Nutritissima la compagine ecclesiastica: 28 sacerdoti, di cui però
ammalati cronici 24. In ogni modo un sacerdote ogni 42 famiglie oppure ogni 183
abitanti. Ecco l’elenco:
Il Mo Rev. Archipresbiter Dr D.
Filippo Algozini;
Il Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario
Foraneo;
Sac. D. Filippo Cino;
Sac. D. Francesco Pistone;
Sac. D. MichalAngelo La Mendola;
Sac. D. MichalAngelo Rao;
Sac. D. Ignazio
Laudito;
Sac. D. Paulo Spagnolo;
Sac. D. Gerlando Carlino;
Sac. D. Antonino
Macaluso;
Sac. D. Francesco
Torretta;
Sac. D. Gaspare
Casucci;
Sac. D. Vincenzo
Casucci;
Sac. D. Leonardo La
Matina;
Sac. D. Calogero
Pumo;
Sac. D. Giovan
Battista Pumo;
Sac. D. Antonino
Mantione;
Sac. D. MichalAngelo
Savatteri;
Sac. D. Isidoro
Amella;
Sac. D. Vincenzo
Avararello;
Sac. D. Francesco De
Maria;
Sac. D. Antonio La
Lomia Calcerano;
Sac. D. Baldassare
Biondi;
Sac. D. Pietro
Signorino;
Sac. D. Orazio Bartolotta;
Sac. D. Antonino
d'Amico minore;
Sac. D. Ignazio Pumo;
Sac. D. Santo
Farrauto.
Ma le vocanzioni non mancavano; erano già diaconi: Melchiore
Grillo ed il nostro Servo di Dio padre Elia Lauricella. Baldassare d’Agrò aveva
ricevuto l’ordine minore del suddiaconato; c’erano 7 accoliti: Francesco
Grillo; Vito Gagliano; Vincenzo Amendola; Antonino Busuito; Giuseppe Alferi;
Ludovico Amico; Diego Martorana; semplici esorcisti: Gaetano Raspini e Grispino
Tirone; giovani lettori: Emmanuele Cavallaro; Vincenzo Alfano; Santo di Naro;
Calogero Vinci; Leonardo Castrogiovanne; un solo ostiario: chierico Ignazio
Picone; i chierici tonsurati erano Orazio Sferrazza, Francesco Savatteri e
Nicolò Milano. Tutti gli ottimati racalmutesi, o almeno quelli che cominciavano
ad esserli nel secolo dei lumi ma anche dell'irrompere di una nuova classe,
quella borghese, vi sono rappresentati. Le famiglie escluse, non sono ancora di
riguardo. Tra queste i Tulumello che poi domineranno. I Matrona mancano perché
ancora non scesi a Racalmuto.
Alcuni signori amano essere chierici “coniugati”, forse per
i benefici del Santo Offizio: D. Domenico Grillo; D. Calogero Sferrazza; D.
Paulo Baeri. Ad un livello inferiore troviamo i chierici “coniugati” Agostino
Carlino, Francesco Farrauto e Giuseppe Chiovo.
La pletora dei sacerdoti era però
eccessiva e non tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno
disponevano di un pur ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da
potere essere autorizzati al sacramento della confessione: solo cinque, oltre
all’arciprete, erano facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci:
Gaspare, don Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La
Matina.
E passiamo ora ai conventi. Iniziamo dai Carmelitani.
Il priore era un racalmutese DOC: il sacerdote padre Carlo
Maria Casucci, assistito dal sac. D. Pietro Paolo Roccella. Il padre lettore,
il sac. Antonio Monticcioli era in trasferta a Trapani. Stavano al Carmine, a
beneficiare delle laute rendite i fratelli – i “fratacchiuna” – fra Elia
Salemi, Fra Angelo La Rosa e fra Gerlando Montagna.
I francescani conventuali erano quelli del convento di S.
Francesco; dovevano essere in quel momento in crisi: un solo sacerdote, padre
Giuseppe Cimino – che giureremmo essere di Grotte, e fra Paulo Surci (semplice
“fratello”).
Non così invece a S. Maria di Gesù: quattro sacerdoti,
venuti tutti da lontana via a godersi le tante rendite (P. Michelangelo da
Lentini, P. Ludovico da Licata, P. Giovan Battista da Mussomeli e P.
Bonaventura da Canicattì) e quattro “fratacchiuna” (fra Pasquale da Racalmuto,
fra Gaetano da Cammarata, fra Giiovanni Battista da Racalmuto e fra Geronimo da
Racalmuto). Stavano al convento attiguo alla chiesa; appartenevano all’ordine
francescano dei Minori Osservanti; coltivavano le feraci terre ove ora c’è il
cimitero e sino al 1866 riuscivano a cavarne del buon vino, sia pure con
alterna fortuna.
A S. Giovanni di Dio, adibito soprattutto ad ospedale, non
c’erano sacerdoti ma solo due “fratelli”: fra Bernardo Sassi e fra Vincenzo
Mercante, decisamente forestieri. Le lamentele fatte al Papa da parte del
vescovo Ramirez non erano poi infondate.
Il convento di S. Giuliano doveva essere chiuso da almeno
mezzo secolo ed invece eccocelo vivo e vitale – sia pure ora inquadrato
nell’ordine di S. Agostino della Congregazione
di Sicilia. Quanto sia ricco lo vedremo quando commenteremo una
dichiarazione dei redditi, con annesso stato patrimoniale, del 1754. Qui
dimorano tre sacerdoti (P. Agostino da Racalmuto, P. Ignazio da Geraci e P.
Anselmo da Adriano) e tre "fratelli" (fra Giuseppe da Racalmuto, fra
Agostino da Racalmuto e fra Giuseppe da Caltanissetta). I fratelli laici
dovevano sguinzagliarsi per le campagne per la "ricerca", le
elemosine in natura, ad onta delle cospicue rendite.
Ed ora è il turno del convento delle monache di S. Chiara.
Vi pullulano ben 22 recluso, in uno spazio che per quanto ampio costituiva una
specie di carcere per donne di diversa estrazione, di diversa età e persino di
diversa cultura. Venivano sepolte nella graziosa chiesa della Batia. Ora, il
pavimento della vecchia chiesa è ridotto a sala di conferenza. I loro resti
umani vengono calpestati senza rispetto alcuno, senza un ricorso, senza un
fiore. Almeno quelle derelitte del 1731 ricordiamole qui, con come e cognome.
L’abbadessa era suor Domenica Rizzo ed è dubbio che fosse di
Racalmuto. Le fungeva da vicaria suor
Rosa Renda. Provenivano da famiglie di spicco: suor Gesua Maria Lo Brutto, suor
Maria Stella Sferrazza, suor Maria Lanciata Di Benedetto, suor Maria Grazia
Casucci, suor Maria Crocifissa Signorino, suor Claradia Amella, suor Maria
Gioacchina Brutto, suor Angelica Maria Signorino, suor Francesca Maria Biondi,
suor Maria Scolastica Signorino; da forestieri o da famiglie non altolocate che
riuscivano a sistemare le figlie superflue tra le cosiddette clarisse, ove il
pane quotidiano era almeno assicurato: Suor Giuseppa Maria Caramella, suor
Pietra Margherita Zambito, suor Maria Serafica Zambito, suor Carla Maria
Provenzano, suor Antonia Maria Raspini.
E con loro, le novizie Vita Vinci e Orsola Guadagnino. Tre
“converse” – all’ultimo gradino di quella opprimente gerarchica monastica –
erano tutte del luogo: soro Geronima Martorana, soro Elisabetta La Licata e
soro Angela Rizzo. Un tratto di penna dell’Algozini e poi più nulla per queste
vite umane, per queste vittime di una condizione femminile settecentesca,
echeggiata appena dalla Maraini quando ebbe a raccontare la lunga vita di
Marianna Ucria. Ma qui non c’è neppure il benessere del dominio aristocratico.
I benefizi ecclesiastici sono appena quattro: uno è in
possesso dell’arciprete e gli altri sono semplici: quello di S. Antonio viene
goduto da d. Gaspare Casucci; l’altro di S. Maria dell’Itria da don Pietro
Signorino, quello che lascerà tanto alla chiesa del Monte; ed infine quello di
S. Nicolò di Bari assegnato a don Gaspare d’Agrò.
I mansionari, i preti salmodianti a pagamento in Matrice,
sono ancora dodici, come aveva voluto il fondatore, l’arciprete Lo Brutto e, a
scorrere la lista, ci si sorprende che autorizzati a ricevere le confessioni
sono solo d. Salvatore Lo Brutto, d. Gaspare Casucci e d. Francesco Torretta;
gli altri (don Filippo Cino, don Francesco Pistone, don Vincenzo Casucci, don
Giambattista Pumo, don Isidoro Amella, don Gerlando Carlino, don santo
Farrauto, don Antonino d’Amico e Matina e don Antonino d’Amico e Morreale) sono
bravi a cantare le ore canoniche ma non sono ritenuti all’altezza delle
confessioni, specie delle donne. Per converso don Baldassare Biondi e don
Leonardo La Matina vengono ritenuti idonei ad impartire l’assoluzione dai
peccati, ma sono per il momento tenuti lontano dai benefici economici che il
cantare Vespro e Compieta fa conseguire. Don Nardu Matina non sarà mai
beneficiale venendo a decedere nel 1733 (LIBER, n° 216); Baldassare Biondi (+ 29
ottobre 1771) farà carriera, diverrà vicario foraneo e raggiungerà la
ragguardevole età di 82 anni (LIBER, n° 284).
Racalmuto non ospita eretici o scomunicati; è tutto sommato
morigerato e rispettoso della religione e dei precetti della chiesa. L’Algozini
può così rispondere all’apposito paragrafo del questionario:
Non vi
sono scomunicati, , né sospesi, interdetti o che non abbiano adempito la
communione paschale, o non osservato le feste, né publici usurarij,
concubinarij, adulteri, solamente Lorenzo Scibetta è diviso da sua moglie che
ostinatamente abita in Aragona, Diego di Giglia da Maria sua moglie che pure
ostinatamente non lo vuole, siccome Giuseppe Lo Brutto di Gaetana d’Anna sua
moglie; né pure vi sono giocatori scandalosi
né inimici;
Vi sono
due maestri di scuola, rev.do sac. D. Calogero Pumo ed il Diacono D. Melchiorre
Grillo;
Quattro
medici fisici dr. D. Giuseppe Grillo, dr. D. Giuseppe Amelli, rev. Sac. D.
Ignazio Pumo, ed il clerico coniugato D. Calogero Sferrazza;
Chirurghi
dui il clerico coniugato D. Giuseppe Sferrazza e D. Antonino Amelle;
Due
levatrici, Angela Rini e Maria Schillaci, ambi di buoni costumi e sanno la
forma del Battesimo.
Seguiamo ora, passo passo, come l’arciprete Algozini
descrive la Matrice:
Il titolo
della chiesa è Maria SS.ma dell’Annunciazione ;
Si celebra
la festa nel giorno proprio;
Non vi
sono abusi;
La chiesa
non è consecrata;
Il Padrone
è il vescovo;
Fu eretta
alli 20 giugno 4a Ind. 1621;
Nella
Cappella di S. Maria del Suffraggiov’è la Liberazione dell’Anime ogni lunedì e
nell’ottava de morti ad septemnium per breve concesso dalla Stà di Benedetto
XIII di fel. mem. a 17 settembre 1728 e nessuno altare ha Padrone.
Della struttura della Chiesa
Questa
Chiesa Matrice è construita con due ordini di colonne, con che si forma la nave
e due ali;
Ha
semplice tetto;
Non dona
umidità;
Vi sono
sei finestre, cioè tre con vitriate e tre senza;
delle
quali entra vento;
le pareti
della chiesa in alcune parti sono di piedre quadrati, in alcune con
incrostatura in alcune incolte;
senz’erbe;
La fabrica
da pertutto ben soda;
senza
veruna servitù;
v’è choro
situato nell’altare maggiore dell’istesso sito della Cappella;
senza
sedili o stalli distinti, ma fra breve vi si faranno ad eccitazione del detto
rev. Archiprete;
non v’è
separazione di luoco per le donne;
il
pavimento è di gisso intiero.
Disponibili anche notizie sullo stato dell’edificio e sul
suo assetto interno:
Tocca alla
Maramma la reparazione che ha onze 3.15.6 di rendite annue e cioè: dal sac.
Isidoro Amella onze 2; dal rev.do sacerdote don Vincenzo Casucci e consorti
tarì 13.19; da Antonino di Salvo Ruggeri tarì 4.10; dagli eredi di Giovan
Battista Petruzzella e consorti tarì 10.10; da Giovanne d’Alaymo Trombetta tarì
8.5; dall’erede di Salvatore Corbo tari 8.2.
S’amministrano
dalli quattro deputati della chiesa che sono il rev. Archip. Dr. D. Filippo
Algozini, il rev. Vicario Foraneo D. Salvatore Lo brutto, don Francesco Pistone
e don Gaspare Casucci.
L’Algozini ci informa che «v’è dentro la Cappella del SS.mo
Sacramento di questa Chiesa Madre la compagnia del Santissomo Sacramento;
l’officiali sono l’antedetto rev.do arciprete dr. D. Filippo Algozini, M°
Giacinto Scibetta e M° Giuseppe di Rosa.»
Aggiunge: «Dentro questa Matrice chiesa non vi sono cappellanie se non
le sacramentali che adesso sono il rev.do sacerdote D. Francesco Torretta ed il
rev.do sacerdote D. Leonardo La Matina.»
Abbiamo peraltro «un beneficio di S. Antonio Abbate posesso
come sopra dal rev.do sac. Don Gaspare Casucci.» Al servizio della Matrice sono
i chierici Pietro Santo Maura e Santo di Naro: il loro stipendio e di 8 onze,
quattro pagari dal rev. Arciprete, due dalla Cappella del SS.mo Sacramento,
onze 1.10 dalla Cappella di Maria del Suffraggio e tarì 20 «d’altre tre
Cappelle in ragione di tarì 6 per una, oltre tarì 10: incirca di venti.»
Ed ecco, di estremo interesse storico, la descrizione e la
disposizione degli altari:
Vi sono
quattordeci Altari, il Maggiore;
quel del
venerabile;
della
SS.ma Annunciata;
di S.
Maria del Suffraggio;
del SS.mo
Crocifisso;
di S.
Vito;
di S.
Giovan Battista;
di S.
Leonardo;
di S.
Antonio Abbate;
di S.
Ignazio;
della
Ss.ma Assunzione;
delli S.ti
tré Reggi;
di S.
Giuseppe;
di S.
Maria Maddalena.
«Per quante diligenze s’abbiano fatto – soggiunge
l’arciprete – non si sa dell’erezione di ciascheduna.» Nel dettaglio: «Sono
l’altaretti conservati nello stipite e non ve ni sono portatili; sono intieri
nelli sigilli delle Reliquie; ve n’è uno [altare] privilegiato di S. Maria del
Suffraggio; nessun altare ha padrone; non hanno rendite per suppellettili e
manutenimento, se non quelli che si devono contribuire dalli celebranti secondo
la tassa e reduzione ultimamente fatta. L’altare però di S. Ignazio ha tarì 19
annui dovuti cioè: tarì 12 da Pietro Mulè paruzzo in virtù di contratto per
l’atti di not. Michelangelo Vaccaro a 10 settembre 7a 1713, e tarì 7
dal notaio Michelangelo Vaccaro in virtù del contratto per l'atti del quondam
notaio Francesco Pumo a 11 gennaio X a ind. 1717.»
Gravano sugli altari vari pesi per messe:
La
cappella del SS.mo Sacramento messe n° 163;
Cappella
della SS.ma Annunciata messe n° 58;
Cappella
di S. Giuseppe messe n° 144;
Cappella
delli S. Tré Reggi messe 3;
Cappella
di S. Maria del Suffraggio messe n° 914.
«Oltre d’altri sei Cappellanie cotidiane trattenute dalla
detta Cappella del Suffraggio, secondo denota la Tabella in Sacrestia.»
L’inventario
del Casucci.
Questo l’arredo della chiesa e degli altari secondo l’inventario del tempo:
«Questo è l’inventario
di tutti i beni mobili e stabili semoventi, frutti, rendite, raggioni azzioni e
spese di qualsiviglia sorte della chiesa Matrice di Racalmuto, sotto il di Primo
Aprile 1731, fatto per me D. Gaspare Casucci Economo di detta Chiesa con la
presenza e l’assistenza delli Rev.di Sac. D. Filippo Cino e D. Gerlando Carlino
previamente informati dei beni, frutti e rendite, e sono l’infrascritte:
La sudetta
chiesa Matrice è posta nella strada del
Castello a frontespizio della Piazza; ha d’un lato le case di M° Giuseppe Di
Rosa e dall’altro le case della ven.le Compagnia si S. Giuseppe.»
Qui il Casucci si addentra in una ricostruzione storica che
non sembra avvalorata dai documenti da
noi investigati. Ad ogni buon fine, quella ricostruzione casucciana la
riportiamo egualmente:
«Fu finita di fabriche
l’anno 1620: benedetta con licenza di Monsignor Vescovo di Girgenti sotto li 20
Giugno di detto anno.» A nostro avviso, c'è qui l'abbaglio della strana
ripartizione della parrocchia tra don Vincenzo del Carretto e don Paolino
d'Asaro del 1608 ed il successivo ricongiungimento delle due parti in capo alla
chiesa dell'Annunciata sotto un unico arciprete che a noi risulta essere don
Filippo Sconduto. Il Casucci non ci pare molto ferrato nella storia della sua
chiesa.
Attendibile invece quando parla delle Cappelle, di cui
curava in definitiva l’amministrazione:
La
Cappella della SS.ma Annunciata fu fondata e dotata da D. Gaspare Lo Brutto e
Leonora d’Asaro con obbligo di 58 messe. [..] Li superlettili di detto Altare,
come di tutti gli altri altari e chiese sono li seguenti:
In primis
una Cappella bianca di lama, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipoli
e palio;
Item una Cappella
violacea di lama, con suoi Tunicelle, casubula, cappa, stole, manipoli e palio
d’altare;
Item una
cappella virde, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipoli e palio
d’altare;
Item una
Cappella rossa, con sue Tunicelle, casubula, cappa, stole manipole e palio
d’altare;
Item una
Cappella nigra di felba con scuti
ricamati, con sue tunicelle, casubula, cappa, stole manipole e palio d’altare;
Item una
casubula di stolfo russa , con sue stola e manipole;
Item una
casubula bianca d’asprino con manipola e stola;
Item dui
casubuli nigri, con suoi stole e manipoli;
Item dui
casuboli violaci usati con stole e manipoli;
Item trè
casubuli russi usati con stoli e manipoli;
Item una
casubula bianca raccamata di seta usata con stola e manipole;
Item una
casubula verde usata con stola e manipole;
Item sei
cammisi boni, cioè tre di tela d’Olanda e tre di tela sottile, con suoi cingoli
ed ammitti;
Item altri
tre cammisi usuali per la giornata, con suoi cingoli ed ammitti.
Altare maggiore
In primis
un quadro di S. Pietro e Paulo di Pittura, con cornice scartocciata indorata
d’oro;
Item n°
sei candilieri con suoi vasi e rami usati;
Item n°
sei tabole per ornamento dell’altare, indorate di mostura;
Item una
cornice dell’altare indorata di mostura;
Item la
carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due
tovagli d’altare;
Item un
tappito vecchio per detto altare.
L’ulteriore precisazione che abbiamo dall’Algozini, datata
1° giugno 1731, parla anche di un dischio
foderato di damasco verde usato.
Altare della SS.ma Annunciata
Item la
statua della SS.ma Annunciata con l’Angelo, di ligname indorati di mistura;
Item un
Reliquario di Ligname indorato di mistura con sue reliquie dentro;
Item due
candilieri con sua croce usati;
Item una
carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due
tovaglie usate per l’altare;
Item una
cornice indorata di mistura per detto Altare;
Item tré
pialli d’altare usati;
Item un
lampero di ramo.
In più, stando all’integrazione dell’inventario da parte
dell’Algozini: sei candileri con suoi
vasi novi indorati di mistura con sei rami di talco novi.
Altare di S. Maria del Suffraggio
Item un
quadro di pittura con sua cornice indorata;
Item sei
candileri con la croce e sei vasi;
Item sei
rami usati;
Item
quattro candileri piccoli;
Item una
carta di gloria col’imprincipio e lavabo con le cornici indorate di mistura;
Item Item
due tovaglie d’altare;
Item un
palio di seta violaceo e bianco con cornice indorata di mistura per detto
Altare;
Item un
lamperi di ramo novo.
Altare del SS.mo Crocifisso
Item
l’Immagine del SS.mo Crocifisso con la croce indorata;
Item un
quedretto di Maria delli Setti Dolori con sua cornice;
Item
quattro candileri con sua croce usati;
Item una
carta di gloria con l’Imprincipio e lavabo; con “concice indorata” (v.
Algozini);
Item un
palio d’altare di pittura con cornice indorata, che è “di
stolfo violetto e rosso con gallone d’oro, novo” (vedi inventario del 1° giugno
1731).
Integra l’Algozini: sei
candileri con sei vasi indorati di mistura novi; sei rami di talco stagnolati
novi;
Altare di S. Vito
Item
L’imagine di S. Vito di ligname;
Item una
tovaglia ed un palio d’altare usati.
Altare di S. Giovanni Battista
Item un quadro con la figura di detto santo
con la cornice;
item
l’imprincio e lavabo usati, item un palio di pittura;
itemdue
candilera vecchi, ed una croce senza pede.
Altare di S. Leonardo
Item un
quadro con la figura di detto santo;
Item una
tovaglia ed un palio di pittura;
Altare di
S. Antonio Abb.
Item la
statua del santo di ligname;
Item
quattro candileri con sua croce e rami vecchi;
Item la
carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
Item una
tovaglia per detto altare;
Item un
palio d’altare di pittura;
Item un
lamperi di ramo.
Altare di
S. Ignazio.
Item il
quadro con sua cornice indorata di mistura;
item
quattro anegli per candeleri;
item una
croce usata;
item la
carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
item un
palio d’altare di pittura con cornice indorata di mistura.
Altare della SS.ma Assunzione
Item il
quadro con sua cornice;
item
quattro candileri vecchi;
item carta
di gloria con l’imprincipio e lavabo vecchi;
item un
palio d’altare di pittura con sua cornice.
Altare delli santi tre Reggi
Item il
quadro di pittura;
item due
candileri con sua croce
item la
carta di gloria con l’imprincipio e lavabo.
Altare di S. Giuseppe
Item la
statua di detto santo con il suo Bambino di legname indorati
Item sei
candileri con suoi vasi e rami usati, e croce;
item la
carta di gloria con l’imprincipio e lavabo
item un
palio d’altare di seta vecchio con sua cornice;
item due
tovaglie per detto altare.
Altare di
S. Maria Maddalena.
Item il
quadro con la figura di detta santa;
item sei
candilera con la croce, quattro vasi e quattrorami;
item la
carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
item palio
d’altare di seta con cornice indorata di mistura.
Altare del SS.mo Sacramento
Item una
custodia di marmo con suo tabernacolo indorato. Item un Padiglione di seta
violaceo con sua guarnizione d’argento;
item
quattro candileri con sua croce;
item
quattro vasi per li rami;
item dui
tovaglie per l’altare;
item un
palio d’altare di seta con sua cornice indorata.
L’Algozini aggiunge: due
padiglioni di tela stampata; un portaletto di damasco rosso con suo gallone
d’argento usato; sei candileri con suoi vasi e rami di talco stagnolati, una
campanella nova per servizio delle messe e due padiglionetti per l’ogli santi.
Ovvio che è la sacrestia ove sono custoditi paramenti sacri,
ornamenti vari, addobbi ed altro.
Significativo l’inventario, anche perché potrà un domani servire per un
museo parrocchiale veramente rievocativo della vita religiosa dei nostri
antenati, contadini e pii.
Item dui
crocifissi per la preparazione;
item dui
chiomazzelli per detta preparazione verdi usati;
item altri
dui di tela per detta preparazione;
item due
coverte di tela per detta preparazione;
item uno
stipo grande con altri due piccoli a lato novi;
item due
coverte per il fonte battesimale di seta violetta con frinza ed altra di coiro
con frinza, usati;
item due
dischi;
item
un’ombrella per il fonte battesimale;
item
quattro lanterni novi;
item una
coverta di tela rossa sopra la boffetta della cridenza;
item un
portale di tela per l’organo;
item una
stola di stolfo rossa;
item altra
stola di damasco di diversi colori;
item una
fodera per l’ombrella;
item un
palio d’altare dinnanzi il battisterio;
item una
sponza di ramo;
ietm un
lamperi di stagno;
item una
pisside con il piede di ramo;
item un
altro vaso a forma di pegno con il piede d’argento per il stabile;
item un
baldacchino d’asprino con li quattro asti indorati;
item un
stendardo d’aspino, con altri due palietti del medesimo drappo;
item un
ombrello del medesimo drappo d’asprino con n° venticinque campanelli d’argento
di bolla;
item altri
sei palietti, cioè due di stolfo e l’altri di diversi colori, con suoi lanterni
ed asti;
item altro
baldacchino bianco ed un stennardo usuali;
item altro
tosollino più grande per la sfera;
item una
sfera grande con il piede d’argento con la lonetta indorata;
Item
l’incensero e navetta con sua cocchiarella d’argento;
item una
sponza d’argento ;
item tre
calici con piedi di ramo indorati, con tre patene;
item altro
calice con il piede d’argento con sua patena;
item una
cocchiara d’argento per il fonte battesimale;
item dui
vasetti d’argento per l’oglio santo del battesimo;
item altro
vaso per l’oglio santo dell’estrema unzione;
item tre
paviglionetti per il vaso del SS.mo Viatico;
item tre
portaletti per la custodia;
item una
tovaglia bianca di taffità con guarnazione d’argento;
item altra
tovaglia di taffità bianca vecchia;
item cinque
corporali;
item n°
undeci veli di calici di tutti colori usuali;
item n°
dieci borze con suoi palli di diversi colori;
item
cinque messali usuali;
item
quattro missaletti;
item una
cassetta con tre vasi di stagno con l’oglio santo;
item un
rituale e graduale vecchi;
item dui
calamara di stagno con una bussola nel battisterio;
item un
particolario; item un sicchetto di ramo;
item due
boffette nella sacrestia, tre cascie vecchie, un scabello, un genuflessorio,
tre tovagli di facci, dui chiomazzella di felba russa usati, un crocifisso per
il Pulpito, una cappa e tonicella neri lavorati, item tre incerati, un tisello
(o tusello v.s.) di legname, un triangolo di ferro con cilio di cera, altro
triangolo per le tenebre;
item
quattro campanelli;
item una
tela azola per la porta;
item tre
confessionarij;
item una
seggia per il SS.mo Viatico;
item un
organo di cinque registri ed un polpito;
item tre
trispiti;
item tre
campane nel campanile, cioè una grande di sei cantara, altra mezzana di due, ed
il segno.
Si chiude qui l’inventario che reca la sottoscrizione del
sacerdote D. Gaspare Casucci, economo e quella del sacerdote D. Gerlando Carlino.
Nelle visite pastorali, il clero doveva sobbarcarsi alle
spese per il vescovo, vettovaglie , cibarie ed ospitalità per il giorno e per
la notte. L’arciprete, il vicario foraneo ed il procuratore del clero
partecipavano all’eventuale Sinodo. Per il cosiddetto “cattedratico”
l’arciuprete doveva sborsare 6 tar’ annui. Ministero della cura si chiamava
l’ufficio sacerdotale generale. Sappiamo che in quel tempo era parroco Filippo
Algozini di Prizzi, consacrato sacerdote nel 1712. Quando giunge il Gioieni era
parraco di Racalmuto da «tre mesi e giorni dieci»; era di nomina pontificia
(con breve di papa Clemente XII) e nel 1731 aveva 43 anni.
L’arciprete «risiede ed amministra la cura dell’Anime per se
stesso e li suoi coadiutori sono il rev.do sac. D. Francesco Torretta ed il
rev.do sac. D. Leonardo La Matina cui le si somministrano onze 12». Due chieri
sono inoltre al servizio della Matrice, a pagamento.
Ancor oggi sono godibili i libri parrocchiali, in definitiva
per l’amorevole cura dell’arciprete Algozini, guarda caso: non era neppure
racalmutese. Trattasi dei seguenti libri: «parrocchiali, cioè de Battezati, de
Matrimonij, dello stato dell’Anime (invero, al momento v’è un salto delle
numerazioni delle anime passandosi da quella del 1654 a quella del 1755), de morti,
osservando il metodo prescitto dal rituale romano con alfabettarsi; libri de
confermati non si ha ritrovato per quante diligenze abbia fatto.»
“Sermoni pastorali” ogni domenica e tutte le feste
comandate; la dottrina cristiana viene insegnata il dopo pranzo di tutte le
feste dall’arciprete che si serve “della
dottrina di Bellarmino in volgare per li figlioli" ” del "catechismo
romano" per gli adulti. Una menda: “non v’è scola per la dottrina”.
Ancor oggi ammiriamo il primo libro delle “denuncie da farsi
al popolo” che è proprio dell’Algozini: ivi «ogni domenica si denunciano tutte
le feste e vigilie e si pubblicano gli editti del vescovo e del S.to Officio”.
Quest’ultima denominazione – che avrebbe fatto drizzare le orecchie di Sciascia
– resta solo un flatus vocis, visto che nulla di orripilante è dato di
rintracciare nel citato volume parrocchiale. Leggiamo, ad esempio, questo
tediosissimo bando (come si vedrà non vi è nulla degno della Santa
Inquisizione, almeno nella versione ormai corrente): «Avendo pervenuto alla
notizia del Procuratore Generale de’ Santi Luoghi di Gerusalemme che molte
persone abbiano detenuto, impedito, occupato, sottratto, et in altro uso convertito l’elemosine, legati, denari, ed
altri, in qualsivoglia modo spettanti a detti Santi Luoghi, essendovi anche di
tal occupazione, detenzione, sottrazione et impedimento scienti alcune persone
i quali per rispetto umano non vogliono rivelarlo, per ordine di Monsignore
Ill.mo vescovo di Girgenti si fa canonica monizione a tutte le suddette persone
che dovessero rivelare, e ciò fra il termine di giorni 15, cinque de’quali se
l’assegnano per il 1° termine, 5 per il 2° e 5 per il 3°, quale spirato e non
fatti li suddetti riveli si procederà da esso Mons. Vescovo e Sua E.C.V. alla
fulminazione della sentenza della scomunica contro li scienti e non revelanti
li detinenti, occupanti, impedienti e sottraenti l’elemosine dìsuddette. – 1731
Xa ind. Ottobre.» L'avrà
spegato l'arciprete Algozini a quei basiti contadini racalmutesi, tutti alla
messa della domenica? Se no, davvero avevano poco da capire. Così come anche
noi stentiamo a scoprire le ragioni che spingono il "devoto e santo
vescovo" Gioieni a quelle veementi minacce di scomunica . contro ignoti. A
meno che, dopo l'interdetto, erano proprio i preti locali ad accaparrarsi i
proventi della vendita delle bolle della crociata; in questo caso erano davvero
faccende interne e prudenza voleva che si si facesse scandalo. Avrà l'Algozini
farfugliato qualcosa per non disobbedire al vescovo ed al contempo non
disorientare i suoi parrocchiani, i nostri antenati?
In quel periodo approda a Racalmuto M° Filippo Agostino
Bianco ed intende sposare “Marca Peri, schetta, figlia legittima e naturale di
M° Rosario e Vita Peri di questa suddetta terra di Racalmuto.» Il cognome
Bianco fu celebre anche ai miei tempi per la spiccata personalità di don
Pasqualino. Il Pepi è patronimico scomparso da Racalmuto a memoria d’uomo. Mastro Filippo Bianco era
stato davvero un girovago e fu fatica improba per l’amanuense della Matrice
trascrivere tutti quei toponimi esteri in cui il nubendo aveva dimorato più o
meno a lungo: dalla Plagia del Marchesato di Brandeburgo alla terra di Aisein,
ove si recò quando aveva 29 anni; «indi andò a travagliare da lavorante» in un
paio di città estere e dopo finì a Proohoki per approdare a Vienna, passare in
Lungaria, a Preseburg, in Raap, in Ophm. Ritorna a Vienna, ma non
definitivamente: passa a Craaz e quindi a Piumma. Finalmente ritorna in Sicilia
“con un vascello inglese” «e stette trè mesi in Palermo, di là un mese al
Mazzarino, poi quindeci giorni a Butera, indi nove mesi in questa terra di
racalmuto», ove intende accasarsi. Per stabilire lo stato libero, povera curia
arcipretale!. Ma ci riuscirono: nessuno ebbe da eccepire dopo le pubblicazioni
del 29 giugno, del 5 e 22 luglio del 1733. Pubblicazioni peraltro fatte gratis.
E così: «desponsati fuerunt per me don Franciscum Torretta cappellanum , de
licentia Parochi, sub die 24 julii 1733. Testes fuerunt Gaspar Giglia et
Nicolaus S. Angelus, et postea benedicti fuerunt per sacerdotem Salvatorem Lo
Brutto. Registrati gratis.» Frattanto
una famiglia riemergeva dopo un appannamento, la famiglia Savatteri. Il 2
febbraio 1732 il chierico Giovanni Savatteri, dovendo accedere all’ordine
subdiaconale, può dichiarare pubblicamente che gli è stato costituito questo
cospicuo “patrimonio”: una Cappella di onze dieci annuali con l’onere di Messe
dieci fora data nell’Altare di S. Leonardo, in Serradifalco, come appare per
contratto di fundazione ed elettione stipulato per l’atti di notaro Simone Boni
sotto li 14 gennaro 1732; ed in supplemento una vigna consistente in migliara
cinque con tumuli dui e mondelli dui di terre vacue confinata con la vingna di
notarr Michael Angelo Vaccaro, e altri confini, nella contrada di Bovo, e
numero cinque case conlaterali confinati con le casi di D. Vincenzo La Matina
nel quartieri del Monte come appare in virtù di donazione stipulata per l’atti
di Notari Nicolò Pumo.» La formula di rito si concludeva con questo “monitorio”:
«pertanto se alcuno sapesse che detto patrimonio sia simulato, fiduciario, o
che non sia bastante o di realtà lo venghi a denunciare.»
A S. Giovanni di Dio c’era l’ospedale. Affidato ai padri
Fatebenefratelli, questi – e non solo allora – parevano più intenti a farsi i
fatti loro che a badare all’assistenza degli ammalati di Racalmuto. Ma, quando
subivano degli “sgarbi”, si avvalevano delle censure religiose dei loro
confratelli della Matrice per tentare di ritornorare in possesso dei loro beni,
violentemente asportati. «Si notifica ad ogn’uno – ci tramanda l’Algozini –
qualmente nel mese di dicembre del 1732, avendo andato il P. Priore del
venerabile Convento di S. Giovanne di Dio per alcuni affari di detto venerabile
convento nella città di Palermo, in detto tempo, per causa della sua assenza fu
fatto notabile danno al detto convento con averci derubato molto mobile,come
formento, sommacco, oglio, e robba di tela, e molta robba di comestibile ed
altro in grave danno e detrimento del detto venerabile convento, e perché vi
sono alcune persone scienti dell’antedetto, e per rispetto umani non vogliono
rivilarlo, intanto fra il termine di giorni quindeci … avessero da rivelare
tutto quello e quanto sanno di verità altrimenti detto termine elasso e non fatto
rivelo alcuno dalli scienti dell’antedetto, si procederà contro di essi dalla
G.C.V. a fulminazione di scomunica. 1733 XI Ind. Primo 8 e 15 Marzo.» La Gran
Curia Vescovile non credo che abbia sortito effetto alcuno da questa minaccia
di scomunica contro ignoti: voler spezzare con la paura dell’inferno il senso
d’omertà che già allora doveva essere forte a Racalmuto, era pia illusione. E
poi a vantaggio di chi? Di un religioso del Continente che sopra S.Anna ci
stava solo per arraffare le rendite che erano state distolte da Girolamo del
Carretto e sua moglie Melciorra Lanza da un antico, umanitario scopo: la cura
degli ammalati dereletti.
In quel tempo le feste particolari di Racalmuto, almeno
quelle che si celebravano in Matrice, erano quelle che celebrative di: «S.
Giuseppe, SS.mo Crocifisso, S. Antonio Abbate» nonché quella della SS.ma
Annunciata. Non erano, però, occasioni di peccato o motivi per dar scandalo:
«non vi sono male consuetudini – affermava l’Algozini, e noi dobbiamo credergli
– e le vedove per la mestitia giungono più tosto il tempo della Messa e così
ancora le zitelle spose.» Il pudico vescovo Gioieni poteva star dunque
tranquillo.
Sontuose processioni, si avevano, poi, per il SS.mo
Sacramento, nel giorno del Corpus Domini e per tutta l’Ottava. Inoltre, il
giorno delle Rogazioni, dell’Ascensione, nel giorno di S. Marco, in quello di
S. Maria di Giesù, di Maria del Carmine e di Rosalia:
Ci viene descritta una processione solenne: la processione
del Santissimo «si fa come quella della Cattedrale; le mazze dell’ombrella e
Baldacchino si portano dalli Giurati senza disparere, con tanti lumi quanto
intervengono alla Processione, tanto di confrati quanto di regolari e clero; la
spesa del lume è somministrata d’ogn’uno di per sé o dal Corpo della Communità.»
L’arciprete lamentava «l’abuso che alcuni regolari portano la Croce senza
pallio, ne’ Defonti.»
Ci colpisce la meticolosità con cui andavano celebrati gli
atti fondamentali della vita religiosa. Il battesimo: «si trasferisce poch’ore
dalla nascita del figliolo; senza necessità non si battezzano infanti in casa;
nel sabato santo e nel precedente della Pentecoste con si battezza con rito
solenne.» Noi moderni difficilmente riusciamo a comprendere come mai quello che
per noi è atto d’amore, per l’arciprete Algozini un abuso che intende
assolutamente sradicare: «non s’ha potuto riparare – accusa – al disordine di
alcune madri tengono l’infante in letto ante annum». E se anche i genitori
facevano l’amore, il bimbetto di un anno poteva davvero scandalizzarsi? Prurito
clericale.
L’Eucarestia «si
porta all’Infermi giusta la forma prescritta di Paulo V, con diciotto lumi» a
spese della Compagnia del SS.mo Sacramento: il clerico accompagnava il
sacerdote con il Rituale e l’Acqua Santa. Quanto al sacramento della
Confessione – tema scottante – era assicurato che «le sedie confessionali
stanno il Logo aperto della Chiesa con le finestrelle e latte minutamente
perforate, e con le grate spesse di legno. … Non si ammettono le donne di
confessarsi di faccia a faccia.» Il
problema è quello degli infermi che vengono confessati in tempo per colpa dei
medici che «il più delle volte … non osservano la Chiama» E l’Algozini incalza:
«il disordine che corre circa l’infermi s’è che senza tal necessità alle volte
dimandano il SS.mo Viatico ad ora intempestiva.»
Ovviamente «li matrimonij si celebrano in chiesa, con la
messa pro sponsis, non in casa, se non con licenza del Vescovo [come abbiamo
visto per il pittore Di Benedetto, n.d.r.]».
Sta iniziando l'indagine ecclesiastica di appurare preventivamente se la
volontà è davvero libera: «si sta introducendo – ci segnala l'Algozini –
d'esplorarsi la volontà delli sposi separatamente.» Il guaio era che già i
nubendi qualche carezza se la scambiassero prima delle nozze. Apriti cielo! «Li
sposi alle volte – esagera l'Algozini – coabitano prima di contrarre il
Matrimonio per verba de' presenti ma occultamente.»
Il rituale della morte è da brivido: «lo fa il Parroco
quest’Officio per se stesso quando non ha altra occupazione». In ogni caso si
segue un testo dovuto al Principe di Ramacca (sarebbe da cercare) e ci si
attiene al Rituale di Paolo V.
Poi le esequie: «si osserva il Rituale ad amussim (a puntino); si paga di mercede per ogni defonto
sepellendosi nella Parochia a ragione di tarì 8.10, cioè tarì 3 per sepoltura e
tarì 4 per obitoe tarì 1.10 per Croce.» Abbiamo notato una lievitazione del
prezzo della buona morte nel corso del
Seicento che ora diviene decisamente alto. Intanto, scemava il tenore di vita
dei meno abbienti e tanti che per orgoglio giammai avrebbero chiesto
l'elemosina per il punto di morte sono
ora costretti a farlo ed a seppellire i loro morti nella carnaia della chiesa
"gratis pro Deo". Aspetto questo che francamente ci turba. Abbiamo
pertanto una volta stigmatizzato il costume alquanto lugubre di speculare anche
sulla morte da parte delle autorità ecclesiastiche, asserendo:
«I preti - allora -
collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda
fiscale era allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una
faccenda fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i
suoi diritti “dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna;
imposte comunali e, poi, tasse - e tante- di natura religiosa.
Queste ultime,
secondo una nostra stima, erano la metà di tutta l’incidenza tributaria:
andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti di
quarta” della Curia vescovile; dai
gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa Margherita) in
favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare con Racalmuto
(sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi,
sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il
fedele racalmutese dalla culla alla tomba.»
Il passo della relazione Algozini che abbiamo prima riportato, se non giustifica l’asprezza
del tono, una qualche ragione ce la dà.
E se si voleva una sepoltura in altra chiesa, aumentava il
costo: «in altra chiesa tarì 5 ne si paga altro funerale se non che la quarta
della cera». Anche per i bambini c’era la «quarta di Monsignor Vescovo, però si
pagano soli tarì 1.10 e competisce a Monsignor Vescovo la quarta parte tanto
dell’obito de grandi quanto dell’obito dei figlioli.» Una nota di costume: «non
vi sono abusi delle donne dolenti e congionti del defonto». Dobbiamo arguire
che l’usanza delle prefiche o si era estinta o si era attenuata fino a non
apparire un abuso agli occhi dell’arciprete Algozini.
Nel tempo della Quaresima, un apposito predicatore veniva
chiamato dal di fuori per le sue roventi omelie volte al pentimento ed alla
redenzione. E questo nell’ampia Matrice. Ciò invece non si reputava
indispensabile nel tempo dell’avvento. Occorreva risparmiare, anche perché le
spese per il predicatore incombevano sull’Università: pare che ascendessero ad
un’onza e 2.5 tarì.
Erano compiti della parrocchia: a) benedire e distribuire le
candele; b) fornire le palme nei giorni debiti ; c) e ciò a carico
dell’arciprete; d) benedire e distribuire le ceneri; e) benedire solennemente
il fonte battesimale, ogni anno nel sabato antecedente alla Pentecoste;
sguinzagliare i sacerdoti per la benedizione delle case. Allora come oggi.
I problemi dell’aggiornamento del clero locale in materia di
morale e nelle questioni teologiche? L’Algozini ragguaglia di avere «istituito
un’adunanza di casi coscienza e di sacra scrittura due volte la settimana
[anche se] non v’è costituzione che la precetti; il metodo che si propone e
risponde d’uno dell’adunati il caso della coscienza, ed al punto della sacra
scrittura. Tiene appresso di sé la Bibbia sacra, il cristiano instruito del P.
Segnari ed altre sue opere, il Nesembergh, Crasset, ed altri ascetici; di
Morale, il Bonacina Viva, Sayro, Azorio,
Toleto ed altri simili.
Trascriviamo ora pedissequamente il capo sesto, che contiene
notizie di dettaglio molto importanti per comprendere la congiuntura storica di
quel momento.
«Circa le notizie deve dare il Paroco della menza
Parochiale, del beneficio e della persona. Della persona [del Parroco]: il suo
nome è D. Filippo Algozini di Prizzi, d’anni 44; è sacerdote, Dottore in
filosofia e teologia, revisore de’ libri nella Corte Archiepiscopale di
Palermo.
«Il beneficio ha Ciesa propria [come abbiamo sopra
descritto];
«Si chiama l’archiprestato di Racalmuto, sotto titolo della
SS.ma Annunziata; l’è stato conferito della S. Sede; [di benefici, l’arciprete]
ne possiede uno solo, [ed è] beneficio libero. Le rendite sono un tumolo di
formento e un tumolo d’orgio per ogni casa, le vedove però un solo tumolo di
formento, esclusi li fuggiti, miserabili e mali pagatori. Non vi sono beni
alienati né usurpati; e questi sono Primizie, perché le decime tutte spettano a
Mons. Vescovo e Catedrale.»
Ci viene qui spiegato il termine Primizie che pare fosse,
dunque, una pretassazione a favore del Parroco; mentre le decime vere e proprie
– quelle che si facevano risalire al celebre privilegio del 1099 – erano di
pertinenza del Vescovo e dei Canonici della Cattedrale e venivano sottratte ad
ogni ingerenza del locale arciprete.
Sulle Primizie arcipretali gravavano pesi ed oneri non
indifferenti: 12 onze per i cappellani; 4 onze per i sacrestani; tarì 6 per il
«catredatico»; onze 5 per il Seminario di Girgenti; tarì 20 per diritti
erariali; onze 12 per aggi esattoriali; tarì 6 per la cera di S. Gerlando; tarì
6 per “l’oglio santo”; onze 4 «per sollennizzare la festa di Natale»; onza 1
«per la festa di Pascha»; onze 4 «per l’altre feste mobili dell’Anno, cioè
Pentecoste, Ascensione, quadragesima, tenebri e simili; onze 2 per la
Candelora; tarì 24 per le palme; onze 3 «per spese a minuto di Santuzzi,
incenzo, libri parrocchiali, censi di confessionarij, purghe di sepolture,
conze di vasi d’argento ed altri; onza una e tarì 18 per lavare la biancheria
della chiesa; onze 7 per la quarta funerale incirca; onze 4 per sartatetti di
superlletili; onze 2 per candele a chi paga la primizia; onze 4 “per provedere
gli Altari”; [circa] onze 3 per “peregrini, spesa d’Erarij della G. C.
Vescovile, visita, di cui non se ne sa il proprio stabilimento” ». Insomma,
sull’arciprete Algozini gravavano, a suo dire, oneri per 70 onze e 20 tarì.
E allora vediamo quali erano gli altri benefici.
«Delle notizie deve dare il paroco circa i Legati e
celebrazione de’ Messe», s’intitola il capo XI. Il parroco, in effetti, è
tenuto a celebrare messe:
«In tutte le feste solenni e domeniche dell’anno; per li
fratelli e sorelle di S. Maria del Soffraggio due messe solenni
nell’anniversario, una nel primo lunedì di quadragesima ed altra nell’ottava
dei defonti, ed una messa cantata cotidiana conventuale; per li fratelli del
SS.mo Sacramento, una messa cantata nell’anniversario de defonti. Per il rev.do
archipreste dr. D. Salvatore Petrozzella una messa cantata nel Lunedì del
Corpus Domini; per D. Geronimo Provenzano una messa cantata nel giorno del suo
anniversario; per Giovanna Grillo una messa cantata nell’ultimo vennerdì
d’agosto.»
«La Cappella della SS.ma Annunciata tiene obligo di far
sodisfare l’infrascritte messe, cioè: per l’anima di Don Gaspare Brutto messe
n° dieci per reduzione fatta dal fu Ill.mo Monsignor Vescovo de la Pegna a 9
settembre 1727, in virtù di testamento del detto rev.do di Lo Brutto per gli
atti di notar Natale Castrogiovanne a 3 ottobre
prima Indizione 1617: al presente si pagano per Domenico d’Alaimo sopra
li beni da lui possessi messe 10; Per Leonora e Bartolomeo d’Asaro messe n° 43
cioè per la detta Leonora n° 28 e per d. Bartolo n° 15 come per detta reduzione
fatta dal dettoIll.mo de la Pegna nel di sopra citato, in virtù di testamento
di detta Leonora per gli atti di notar Pietro Bell’omo ad 8 febraro prima
indizione 1663: al presente si pagano cioè onze 2 per Onofrio Busuito ed onze 1
per l’eredi di Giuseppe Macaluso Alessi sopra il loro beni: messe n° 43; per
tutti quelli avessero fatti legati alla detta Cappella Messe n° 5 ordinati dal
detto Monsignor della pegna per detta reduzione: messe n.° 5».
La Cappella del SS.mo Sacramento era gravata dall’obbligo di
n° 162 messe e cioè n.° 29 per l’anima di donna Melchiora Paruta Ramirez,
giusta atto del notaio Castrogiovanne del 18 maggio 1592 ed a spese del
Principe di Campofiorito; n° 24 per Costanza Lo Brutto, in virtù di atto del
notaio Michelangelo Morreale del 5 dicembre 1636, con un onere di un’onza dovuta
da Simone Sorce e tarì 21 dovuti dagli eredi di Salvatore La Matina; n° 9 per
Francesca Casuccio per atto del 1638 ; n.° 29 per Orsola d’Afflitto per atto
del 1654; nà 1 per l’arciprete dr. D. Salvatore Petrozzella; n° 43 per mastro
Libertino Falletta; n° 4 per soro Anna di Palermo; n.° 12 per il sacerdote don
Santo La Matina; n.° 10 per il sacerdote D. Antonino Macaluso; n° 1 per soro
Grazia d’Agrò.
Nella Cappella di S. Giuseppe dovevano recitarsi queste
messe: n° 141 per l’anima del rev.do sac. D. Giovan Battista d’Acquista; n° 1
per don Geronimo Provenzano; n° 2 messe cantate per l’anima dell’arciprete dr.
D. Pompilio Sammaritano, per obbligo della Compagnia di S. Giuseppe.
Nella Cappella di S. Maria del Suffragio si celebravano: n°
8 messe per l’anima di Baldassare Promontoro; n° 9 per don Gaspare Lo Brutto;
n° 2 per D. Giovanni Macaluso; n° 5 per Antonino Sferrazza; n° 12 per Giovanna
Grillo; n° 10 per il rev. Sac. D. Giuseppe Sanfilippo; n° 17 per il sac. D.
Girolamo Scirè; n° 43 per Francesco La Licata;
n° 56 per Antonino Sferrazza; n° 14 per il sacerdote don Giovan Battista
Baeri; n° 4 per Vincenzo Castronovo; n° 240 “per diverse persone descritte
nella giuliana”; n° 72 per il sac. Don
Giuseppe Vella; n° 4 per Giuseppe La Matina; n° 2 “per l’anima di tutti li
contribuenti; n° 10 per il sac. D. Giuseppe Lo Brutto; n° 10 per d. Giuseppe Lo
Brutto e Petrozzella; n° 10 per il notaio Isidoro Lo Brutto; n° 6 per don
Francesco Lo Brutto; n° 58 per il sac. Don Calogero Cavallaro.
In quella “delli Tré Regi” abbiamo n° 3 messe per don Santo La Matina.
Importante ancora il ruolo delle associazioni cattoliche
laiche; in sommo grado le cosiddette Compagnie. A capo stava il Governatore con
due assistenti che venivano chiamato “congionti”. Spettava loro l’amministrazione
dei beni e venivano eletti con voto segreto. Duravano dai pochi mesi ad un
massimo di un anno, ma potevano venire rinnovati. La carica era a titolo
gratuito. La Compagnia aveva rendite che spesso risalivano alla notte dei
tempi.
In particolare, abbiamo informazioni sulla compagnia del
SS.mo Sacramento cui si deve la chiesa di S. Tommaso d’Aquino. «Fu fondata per
quanto s’ha potuto con diligenza indagare nell’anno 1632: in tempo di Urbano
VIII»; da quel tempo comunque intervennero le approvazioni episcopali ad ogni
successione sino al predecessore del Gioieni. La confraternita aveva sede nella
chiesa di S. Tommaso d’Aquino, santo che la Compagnia festeggiava nel giorno
della sua ricorrenza. Ancora, a quel tempo, la chiesa non era consacrata ed era
sotto il padronato della medesima Compagnia. Della chiesa si ignorava il tempo
dell’erezione, ma, appunto per ciò, diveva essere piuttosto vetusta. Diciamo
che risaliva per lo meno alla prima metà del Seicento. «La struttura della
chiesa è a forma di oratorio; il tetto di tavoli è buono e non piove. Vi sono
due finestre impannate; le pareti sono buoni; vi sono sessanta stalli di legno
per fratelli; la fabrica si fa a spese delli fratelli. Ha d’entrata onze 12
dovute da don Francesco Maria per gabella di duodeci pecori di detta Compagnia;
di più tarì otto dovuti annualmente da mastro Desiderio Troisi sopra una casa
sita in quartiere di S. Margheritella confinante con mastro Giovanne Di Vita e
Filippa La Caro, lasciateci da Costanzo di Benedetto in virtù di testamento; di
più tiene Tumulo 0-1-2 di terra incirca nella contrata al Mulino Vecchio [..];
di più tarì 4 di rendita .. sopra vigna e terreno nella contrata della Noce; di
più tarì 7 sopra vigna e sommacco nella contrata di Casali Vecchio.» La
Compagnia teneva fiscelle di api, n° 50 pecore e da ultimo i Fratelli dovevano
versare nelle casse sociali 5 grana al mese. Il loro vestiario era
caratteristico: sacchi bianchi con mantello bianco orlato di nero e con la
figura del SS.mo Sacramento, figura che era reiterata negli stendardi e nelle
“verghe”. Nel 1731 erano iscritti 80 fratelli;
dopo un noviziato ed una "prova", con voto segreto di "tutti gli
officiali e fratelli" si veniva ammessi alla Fratellanza.
La tumulazione avveniva di solito nelle chiese. Il cimitero
principale era alla Matrice. «Nel pavimento della chiesa – scrive sempre
l’Algozini - vi sono n° 10 sepolcrare;
non sono sotto le pradelle dell’Altari; ve ne sono quattro Padronati: una delli
fratelli del SS.mo Sacramaneto, altra delli Petrozzelli, altra delli Brutti ed
altra dell’Acquisti.» Sorprende che non si citi quella dello sciasciano
personaggio di don Santo d’Agrò.
Una notizia piuttosto inestricabile è la seguente: «vi è
cemiterio dentro l’istessa chiesa murato da per tutto, e però non ci è chiave,
né Croce, né speciale benedizione del Vescovo.» Un’antica “carnaria”, pensiamo
noi, che nel 1731 non solo era andata in disuso ma era stata, forse per motivi
igienici, totalmente sotterrata ed ermeticamente chiusa. Riteniamo che si
tratti di quella che frettolasamente dovette essere aperta al tempo della
gavissima peste del 1671.
Notizie di contorno: il campanile era alto 65 palmi circa e
non era coperto ma poteva venire raggiunto agevolmente con una scala interna
definita comoda; era munita di tre campane come abbiamo già detto che erano
state benedette dao precedenti arcipreti su licenza del vescovo. Il campanile
non aveva entrata autonoma: «non v’è porta perché si salisce dalla medesima
chiesa.»
Notevole la sacrestia: «è a tetto, vi sono tre finestre
impannate, in una parte umida. Il pavimento [è] di gisso; non vi sono armarij;
è mediocremente provista di superlettili sacri secondo l’inventario; la spesa
di providerla appartiene al rev.do Arciprete e legatarij di messe.»
La Matrice non era subordinata ad alcuno: non v’era jus patronatus come ad esempio a Grotte
che determinerà il cosiddetto scisma alla fine dell'Ottocento. Al tempo
dell'Algozini «non c'era casa Parochiale, né cose mobili destinate alli
Rettori, ma ogni soccessore o se la loca o se la fabrica per sé». Singolare
caso quello della Cappella del Santissimo Sacramento, in possesso di «cinquanta
fiscelli d'api con l'eredi del rev.do sacerdote D. Calogero Cavallaro» (+ 12
gennaio 1730).
La
controversa questione del beneficio del Crocifisso.
Nell’intricata controversia giudiziaria del beneficio del
Crocifisso di Racalmuto, i Savatteri vi entrano prepotentemente per due volte:
nella prima, è attore il sac. Giuseppe Savatteri e Brutto, a ridosso
dell’Ottocento; nella seconda un patetico personaggio: Giuseppe Savatteri,
sposato con una Matrona. Siamo nell’ultimo quarto del secolo scorso. In
entrambi i casi i Savatteri finirono soccombenti e gabbati. Ma procediamo con
ordine.
La vicenda del beneficio del Crocifisso è lunga, tortuosa ed
intrigante ed ha dato adito ad almeno un paio di complicate vertenze
giudiziarie. Leggiamo nella bolla che si tratta dei seguenti beni:
in oppido praedicto reperiatur
Ecclesia Sancti Antonij jam diruta cum Immagine SS.mi Crucifixi quae detinet
salmas tres et tumulos quatuor terrarum in pheudo Mentae Status Racalmuti cum
onere proprietatis unciae 1.6. aliam clausuram terrarum salmae unius tumulorum
quatuordecem et quarti unius cum dimidio in dicto Statu et pheudo Racalmuti et
contrata di Garozza cum onere proprietatis unciae 1.6.7.3. et tarinorum viginti
quatuor Conventui Sancti Francisci de Assisia dictae Terrae.
Negli atti giudiziari dell’arciprete Tirone avverso i
coniugi Giuseppe Savatteri e Concetta Matrona abbiamo la ricostruzione della
provenienza di tali beni. Come risulta da un atto del 3 settembre 1659, la
Confraternita del SS. Crocifisso di Racalmuto aveva diritto ad un canone di
proprietà «primitivo veluti jus pheudi et
proprietatis su terre della Menta e Culmitella». Trattavasi, in base a quel
che si desume da altri atti, di un fondo di quattro salme e tumoli sei di terre
ubicate nel feudo Menta, contrada Fico Amara, detta - secondo l'arc. Tirone -
«in quei tempi Mercanti». Del resto
aggiunge l’arciprete che «il nome di contrada fico amara e Mercanti andiede in
disuso. Questa contrada prese nome di SS. Crocifisso.»
Non essendo stato pagato tale canone per più di un triennio,
ed essendo state le suddette terre abbandonate, la confraternita del SS.
Crocifisso esperì il diritto domenicale di avocazione del fondo per distruzione
di migliorie, mancata corresponsione del canone ed abbandono delle terre
dell’enfiteuta che era tal Giaimo Lo Brutto. Essa, pertanto, fu immessa nel
pieno possesso delle cennate terre della Menta secondo il rito del tempo con
atto notarile del 3 settembre 1659,
redatto innanzi a quattro testimoni.
Gli atti giudiziari tacciono sulle vicende che intercorsero
tra il 1659 ed il 1767, un intervallo di tempo in cui si colloca la dotazione
dell’Oratorio Filippino. Intanto non so su che cosa basi l’arc. Tirone il ruolo
sostenuto dalla Confraternita del SS. Crocifisso. Di questa conosco il vago accenno
contenuto nell’elenco della Giuliana della Curia Vescovile - voce Racalmuto,
pag. 205 - che riguarda la «conferma della Conf.ta del SS. Crocifisso - reg.tro
1669-70, pag. 488». Ma qualche
chiarimento lo troviamo in quest’atto del 10 ottobre 1648 del notaio
Michelangelo Morreale. Trattasi della «recognitio pro Archiconfraternitate
SS.mi Crucifixi contra Donnam Vittoriam del Carretto e Morreale». In esso la
Del Carretto (del ramo collaterale dei locali conti) si obbliga di
corrispondere al «Rev. D. Joseph Thodaro
.. uti procuratori venerabilis Archiconfraternitatis SS.mi Crucifixi fundatae
in Ecclesia Sancti Antonii huius terrae Racalmuti .. uncias quinque red. ann.
cens. et red.bus dictae Archiconfraternitatis cession. nomine Petri Piamontesio
et alijs nominibus in scripturis debitas, et anno quolibet solvendas supra loco
qui olim erat dicti quondam de Monteleone vigore contractus emphiteuci
celebrati in actis notarij Nicolai Monteleone die XXIIIJ Maij XII ind. 1584 et
contractus solutionis donationis et assignationis in actis not. Simonis de Arnone die 31 aug.
1605 et aliorum contractum in eis
calendatorum.» inoltre «supradicta Donna Victoria .. solvere promisit .. seque sollemniter
obligavit et obligat eidem de Thodaro dicto nomine pro se et pro successoribus
in dicta Archiconfraternitate in perpetuum uncias centum quatraginta una p.g.
tempore annorum decem in decem equalibus solutionibus et partitis anno quolibet
facere numerando et cursuro a die date literarum Civitatis Agrigenti ... Et
sunt uncias 141 in totalem complimentum omnium censuum decursorum annorum
retropreteritorum enumerandorum ab anno 1608 usque et per annum presentem
inclusive , ratione d. unc. quinque anno dictae Archiconfraternitate debitae
super dicta vinea.»
Quell’arcicofraternita era dunque operante dentro la chiesa
di S. Antonio e siamo nel 1648. Ne è procuratore il sac. d. Giuseppe Todaro che
muore il 7 maggio 1650.
Successivamente alla morte del sacerdote Todaro, si rinviene
l’atto del 3 settembre 1659 di cui sopra; dopo dell’arciconfraternita si
perdono le tracce e tutto fa pensare che si sia estinta: si spiega forse così
perché in un primo tempo i benefici di quel sodalizio finirono all’Oratorio di
S. Filippo Neri, per volere del Vescovo Rini.
Nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti quei
beni dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767
li assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione di un successivo
beneficiario, il sac. Don Calogero Matrona, fatta il 15 giugno 1870, è
particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - vi si
legge fra l’altro - da Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo
Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in
adjutorium Parochi di libera collazione
da conferirsi a concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di
coadiuvare il Parroco nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse
solennità dell’anno nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi
in dote del beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna
destinazione, dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale.
Riserbavasi però il Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il
beneficio, di cui si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di
un soggetto a di lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767
dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don
Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti
dispensandolo dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad
un tempo a sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di
lui vece le obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un
avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri
qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto
impugnavasi la fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte
Civile, otteneva lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine
di rivendicare i fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come
appartenenti al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita
del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva onze cinque
annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre esistenti
nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D.
Giaimo Lo Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone
destinato per legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della
cennata Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per
deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e
Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità
giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal
predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle
procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti,
in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo
fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco,
come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale
di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in
possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le onze cinque per legato di
maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle fruttificazioni rimaneva senza
destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor Lucchesi per di esse fondare il
beneficio anzidetto, che indi conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito.
Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di
chiarirsi nulla la suddivisata fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni
amici persuase il Savatteri a rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma
Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo sotto lo esame
dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui
con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte del Beneficiale e di
altra persona per parte del contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore
nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione
dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di
definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione del 22 settembre 1798,
quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti
della causa, né arrendersi alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece
ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei
Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di
costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione
pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e
desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto
che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la
pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni
proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente usurpazione
fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio, perché fondato
senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la prelazione ai
discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la verità delle cose
per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in minore età quel beneficio
ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale investito Cavallaro. Ed infatti
il conferì con decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria
dispensa della Santa Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il
beneficio nella minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e
dell’obbligo della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici
parrocchiali sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni
dotalizii [...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote
(figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico
Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò
contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con
cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere
le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in
proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di
collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al
padre Farrauto, per passare nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è
accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Racalmuto nel Settecento secondo il Vaticano.
Presso
l’archivio segreto vaticano sono ora consultabili le relazioni che ogni
triennio i vescovi dovevano rassegnare sullo stato della loro diocesi. Di tanto in tanto affiorano note storiche
sulle vicende laiche delle località diocesane. Racalmuto vi appare spesso, sia
pure con annotazioni rutinarie. Per il Settecento abbiamo questi dati:
Il vescovo
Ramirez, nella relazione datata 15 febbraio 1703 che produce “pro triennio
trigesimo nono”, così descrive Racalmuto:
«Recalmutum:
Item Archipresbiter gerit ibidem curam animarum, atque Sacerdotes in Ecclesia
Matrice quotidie dicunt horas canonicas. Adestque Monasterium Monalium et
quatuor Conventus Religiosorum. Ecclesiae 16, Sacerdotes quadraginta, Clerici
36. Animae 5.012.»
Vigilavano
dunque su una popolazione di appena 5.012 anime ben 40 sacerdoti coadiuvati da
36 chierici, oltre a quattro conventi di cui qui non viene detto l’organico. La
notizia sciasciana sugli ottanta preti può essere l’eco di questi riferimenti
vaticani.
Nelle
città – precisa il vescovo – in cui si dice «quod animarum curam gerit
archipresbiter” bosogna intendere che questi è beneficiario perpetuo ed ha per
lo meno la congrua. Racalmuto, come si è visto, aveva un arciprete così
beneficiato. La successiva relazione del 1713 ci consente questi riferimenti:
Racalmuto: viene incluso tra gli oppida;
le ecclesiae sono 15; 4 i conventi; c'è il solito monasterium monalium; 44 i sacerdotes
in sacris; 21 clerici e 5.027 anime.
l'oppidum continua a venire
designato erroneamente Recalmutum.
Ignoriamo quale chiesa sia nel frattempo sparita.
Avutosi
l’interdetto del 1713 le relazioni si diradano. Vi è l’eco dei trambusti
politici e religiosi in quel torno di tempo. Passiamo quindi a quella del 15
settembre 1728 ove di specifico per Racalmuto non riscontriamo alcunché.
Il Vescovo ci fa però sapere che a
Racalmuto, come altrove in diocesi, «egli vigila con somma cura affinché la
Domenica e nelle altre feste comandate il popolo ascolti i salutari ammonimenti
ed apprenda quanto è necessario alla salute dell’anima. Dopo pranzo, nei giorni
festivi il sacrestano, al suono di una campanella, gira per i viottoli a
chiamare i fanciulli; li conduce quindi in chiesa ove il parroco, coadiuvato da
chierici, insegna i rudimenti della fede in vernacolo. Il vescovo in persona si
era premurato di far tradurre e pubblicare in siciliano la “dottrina del
cardinale Berllarmino.” Ne ha mandato copia ad ogni parroco «et in visitatione
de hoc specialiter» ebbe ad inquisire. » Non si lamenta il vescovo: il popolo
risponde bene ai precetti della chiesa: «est docilis, et pius; de fidei rebus
catholicè credit; hanc S. Sedem et Christi Vicarium summa et singulari
veneratione prosequitur» Qualche nota dolente: « de decimis autem et primitiis
non be sentit; plbs vero communiter est blasphemiis assuata, quem pravae
consuetudinis abusum,nec confessariorum nec praedicatorum exclamationes, nec
episcoporum paenae aliquando inflictae abolere potuerunt.» Pio e devoto quanto
si vuole, il popolino il malvezzo della bestemmia ce l’aveva radicato e non
erano bastevoli neppure le sanzioni vescovili ad emendarlo. Altrove come a
Racalmuto.
Anche se cambia il vescovo, non
cambia taglio e genericità la successiva relazione che è datata 6 aprile 1736.
Racalmuto vi è assente in termini di dettaglio. Rientra nelle note generali che
sono del tutto eguali a quelle che abbiamo prima citate. E così pure quella
successiva dello stesso vescovo Lorenzo Gioeni, anche se ora bisogna rispondere
rigidamente ad un nutrito questionario.
Scarna
anche la relazione del 1748 del medesimo Gioeni, ma alcune note di costume la
rendono particolarmente interessante. Per esperienza il vescovo sa che i
negozianti di frumento, per smodata avidità di lucro, sogliono spesso
all’inizio dell’inverno nascondere partite di grano per vendere dopo a caro
prezzo. Donde il popolo versa in più dura indigenza. Erano, poi, tempi calamitosi:
pestilenza e sterilità si erano abbattute sull’intera Italia (mala quibus tota Italia afficitur). Ma
il sesso è il chiodo fisso del presule: «saepe in Dioecesi evenit ut disculi
juvenes puella virgines sub spe matrimonii seducentes, carnaliter cum eis
conversentur: exinde vero vel alterius mulieris amore capti, vel majoris dotis
intuitu, dum coram meam Curiam conventi super promissione matrimonij stuproque
illato causa exagitur, Parochum vel de nocte, vel aliis furtive conveniunt, ac
coram eo testibusque a se conductis, cum altera clandestinè contrahunt per
evrba de presenti, cum maximo deceptae mulieris paeiudicio, honestarum
familiarum dedecore, ac episcopalis auctoritatis contemptu.» Scene davvero
manzoniane! Era il 28 agosto 1748.
Dal Gioeni
a Lucchesi Palli: è di quest’ultimo la relazione datata 6 gennaio 1765.
Il
Lucchesi Palli si era recato personalmente a Palermo per discutere un’annosa
controversa con il Regio Fisco: «completam
victoriam obtinui.» Si trattava di canonicati: forse uno riguardava quello
delle rendite racalmutesi di S. Agata (beneficium simplex Sanctae Agatae dictum
). Questione intricata quella che periodicamente ritorna: la competenza del
Tribunale Apostolico della Legazia. «Nullum est oppidum – scrive il vescovo –
pagusque nullus, in quo Commissarius Sancti Officii cum eius Magistro notario,
et saepe cum uno vel duobus librorum revisoribus non existat: et in aliquibus
etiam consultores et qualificatores electi reperiuntur.» Naturalmente anche a
Racalmuto. V'è quindi un salto trentacinquennale nelle relazioni ad limina che non avviene solo ad
Agrigento: gli eventi finali del Settecento coinvolsero anche la chiesa. La
prima relazione disponibile è del primo ottobre 1800 ed è firmata da Saverio
Granata. E' un resoconto dei benefici ecclesiastici. Racalmuto vi appare (cfr.
f. 619) in quanto in esso «horae canonicae quotidie in choro persolvuntur et ex
Massa Sacrae Distributionis, sic dictae Choro interessentes stipendium
percipiunt..» Il vescovo assicura di avere visitato le località; «cantum
gregorianum juxta Graduale et Antiphonarium praescripsi; eorum memini,
militantis Ecclesiae psalmodiam caelestem Beatorum Spirituum concentum ante
Thorum Dei emulari, et ob id non perturbate, non cursim, sed gravi cum pausa
horas canonicas recitare debere, ut intuentes aedificent.» Aveva ragione quel
presule ad esigere dai mansionari racalmutesi un contegno greve e solenne
durante il canto delle ore canoniche. Un canto che era bene (e sarebbe bene)
che avvenisse secondo il più rigido cerimoniale, quello del Graduale e
dell'Antifonario. Non ne abbiamo tanta nostalgia.
Il succedersi dei vescovi ad Agrigento non è indifferente
per la storia (o microstoria) di racalmuto: quei presuli avevano tanto e tale
potere sul nostro centro abitato da determinarne il corso umano, civile oltre
che religioso, ovviamente. Un non meglio precisato “capitano giustiziere di
Racalmuto” si associa con Francesco
Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore Antinoro
di Casteltermini ed osa recarsi al
Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata.
Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il capitano d’armi di Agrigento
Giovanni Ochoa, alla presenza di alcuni nobili chiamati come testimoni (tra i
quali il dottor Giambattista Guzzardi ed il chierico Pompeo Grugno) consegna al
vescovo l’ordine vicereale dell’esilio. Inutili le proteste. Il presule dovette
obbedire. L’intrusione in questa vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha
scialbi connotati, ma è pur sempre una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà
la Recitazione della controversia
liparitana, ed il nostro paese in questa faccenda di interdetti e di
vescovi esiliati ha contorni più emblematici. I documenti vaticani invero non
sembrano ridurre la questione ad un moggio di lenticchie o di legumi come ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il
contenzioso ad una vendita di ceci e mette in bocca al "canonico" –
palesemente il Mongitore - «Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè
monsignor Tedeschi, aveva dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci .
[.] Il bottegaio mette in mostra i ceci: ed ecco le guardie d'annona . [.] Ed
ecco gli acatapani che si precipitano ad esigere un loro balzello, quello che
appunto si chiama diritto di mostra e che a loro spetta per il fatto che
valutano la merce offerta in vendita e ne fissano il prezzo. […] Il bottegaio
avverte che i ceci sono della Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio
paga. […] Gli acatapani furono
avvertiti, ma dell’avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi
protestò, vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. […] Perché
l’offesa era stata consumata, il diritto infranto … Ma il modo di riparare
c’era: che il governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico
documento, il loro torto … [..] Degli acatapani nell’immediatezza del fatto, ma
poiché l’autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei
giurati … […] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si
riconoscessero pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto
agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una
lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si
ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia.
Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di
diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente
agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano
d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica
personale.
Un non meglio precisato “capitano giustiziere di
Racalmuto” si associa con Francesco
Ferraro alias Schirò, vice capitano d’armi di val di Mazara, e ad Ettore
Antinoro di Casteltermini ed osa recarsi
al Palazzo Vescovile per circondarlo mano armata. Sono le ore dodici del 28 agosto 1713: il
capitano d’armi di Agrigento Giovanni Ochoa, alla presenza di alcuni nobili
chiamati come testimoni (tra i quali il dottor Giambattista Guzzardi ed il
chierico Pompeo Grugno) consegna al vescovo l’ordine vicereale dell’esilio.
Inutili le proteste. Il presule dovette obbedire. L’intrusione in questa
vicenda del capitano d’armi di Racalmuto ha scialbi connotati, ma è pur sempre
una presenza storica. Poi, Sciascia scriverà la Recitazione della controversia liparitana, ed il nostro paese in
questa faccenda di interdetti e di vescovi esiliati ha contorni più
emblematici. I documenti vaticani invero non sembrano ridurre la questione ad
un moggio di lenticchie o di legumi come
ormai sembra pacifico. (Sciascia riduce il contenzioso ad una vendita di
ceci e mette in bocca al "canonico" – palesemente il Mongitore -
«Ecco il fatto: la Mensa Vescovile di Lipari, cioè monsignor Tedeschi, aveva
dato da vendere a un bottegaio una partita di ceci . [.] Il bottegaio mette in
mostra i ceci: ed ecco le guardie d'annona . [.] Ed ecco gli acatapani che si
precipitano ad esigere un loro balzello, quello che appunto si chiama diritto di
mostra e che a loro spetta per il fatto che valutano la merce offerta in
vendita e ne fissano il prezzo. [.] Il bottegaio avverte che i ceci sono della
Mensa Vescovile. Quelli insistono. Il bottegaio paga. [.] Gli acatapani furono avvertiti, ma
dell'avvertimento non si curarono. Poi, quando monsignor Tedeschi protestò,
vollero restituire il maltolto: ma era troppo tardi .. [.] Perché l'offesa era
stata consumata, il diritto infranto . Ma il modo di riparare c'era: che il
governatore e i giurati di Lipari riconoscessero, con pubblico documento, il
loro torto . [..] Degli acatapani nell'immediatezza del fatto, ma poiché
l'autorità degli acatapani emanava da quella del governatore e dei giurati .
[.] Monsignore voleva soltanto che il governatore e i giurati si riconoscessero
pubblicamente in torto e gli chiedessero perdono.»)
Al banale incidente di Lipari si collega l’interdetto
agrigentino. Il 18 luglio del 1712 il papa inviava ai vescovi dell’isola una
lettera nella quale si confermava la scomunica ai catapani di Lipari e si
ordinava di affiggere copia di detta lettera in tutte le chiese della Sicilia.
Ramirez vi si attenne senza attendere l’autorizzazione del re, che era di
diritto legato apostolico. Il viceré Balbases lo dichiarò ribelle – unitamente
agli vescovi fedeli a Roma – e lo costrinse ad abbandonare l’isola. Il capitano
d’armi di Racalmuto, come si è visto, cooperò e si prese la sua brava scomunica
personale.
Il papa difese ad oltranza il vescovo Ramirez. Pervenne al
papa una lettera che vogliamo qui riportare, ove i fatti hanno una versione che
è pur di parte ma che hanno una buona attendibilità. «Ha pervenuto non senza
doglianze alla nostra notizia e di questo Tribunale dell’apostolica legazia e
regia monarchia – a scrivere è il dottore in utroque D. Francesco Miranda e
Gayarre, de consilio sacrae catholicae
majestatis – che essendo stato il reverendissimo arcivescovo di Girgenti
don Francesco Ramirez intimato d'ordine di S.E. a partirsi da quella diocesi e
da questo fedelissimo regno, per li giusti motivi che mossero l'animo di S.E.
concernenti al real prestigio e pubblico bene e quiete del regno, valendosi con
matura riflessione et evidente giustizia della potestà economica contro il
nomato prelato, quello, abusandosi del titolo specioso di consigliere di S.M.
(che la divina guardi) e del proprio giuramento di fedeltà e d'osservare le
prerogative regie e del regno, facendosi scudo, benché ideato, d'essere lesa la
libertà ecclesiastica, e d'aver patito violenze dal capitano Ochoa, dottor don
Giovanni Battista Guzzardo, chierico don Pompeo Grugno, Ettore Antinori, ed altre
persone generalmente, specialmente e individualmente nominati, passò a
scomunicarli; e supponendo che l'esercizio di tal potestà economica fosse
enorme delitto, passò ad interdire la cattedrale e tutte le chiese della
diocesi, mostrandosi poco buon genio verso il real servizio e la potestà
economica di S.E. Per la totale elevazione del quale interdetto, per l'evidente
nullità ed altre reazioni, e per aprirsi le chiese con la continuazione de'
divini offici ed amministrazione di sacramenti, si stan spedendo, per via del
Tribunale gli ordini opportuni. Ma per adesso riflettendo che la riferita
censura fulminata contro le persone, così come in specie riferite, ha processo,
ex abrupto, de facto, nullo iuris ordine servato, contro la forma de' sacri
canoni, concili ecumenici, con pubblico scandalo, evidente perturbazione dei
popoli, ed impedimento al corso della giustizia ed esercizio della potestà
economica, ed in esecuzione di supposta potestà concessagli dalla Corte Romana,
non esecuta né presentata nel regno, in grave pregiudizio delle regalie e
prerogative del regio exequatur,
secondo si prescrive dai più reali dispacci de' serenissimi monarchi, fondati
in evidenti ragioni, avvalorati da antichissima ed immemorabile osservanza, mai
interrotta nel lungo corso di più secoli, non solo in questo fedelissimo regno,
ma anche per tutto il mondo cattolico, come uniforme al diritto delle genti,
alli sacri canoni, concili universali, e concordie con la Santa Sede; ed
accrescendosi i motivi di suddetta nullità ed insussistenza dalli notabili
eccessi ed evidenti aggravi: resta la suddetta censura, come sopra fulminata,
assolutamente nulla ed ingiusta, da tenersi solamente da chi la fulminò, non
avendo né tampoco precesso le solite e necessarie munizioni, né tampoco la citazione
ad dicendum causam quae, secondo
precettò la stessa Verità increata.»
Ma quella lettera irritò ancor di più il pontefice che
definisce «plurimae atquae vere acerbissimae» le notizie che gli giungono dalla
Sicilia. Quella missiva viene così stroncata: «Declarantur nulla litterae,
edictum et praeceptum a Tribunali monarchiae Siciliae contra censuras ab
episcopo Agrigentino in sui expulsores declaratas et interdictum cui subiecta
fuit dioecesis Agrigentina, cum illarum damnatione et horum confirnatione ac
poenis in contravenientes.» Ora il capitano d’armi racalmutese è ben servito: è
il papa in persona a scomunicarlo. Altrettanto per tutto il popolo di
Racalmuto. Una sepoltura in chiesa non è più consentita. A meno che …(a meno
che non riescano i raggiri di cui abbiamo detto).
Sciascia, spirito laico, non se ne dà pena più di tanto.
Nella Controversia ironizza:
«ingastone . Era inevitabile che nascesse il contrabbando dei sacramenti e che
andasse su di prezzo come il pane in tempo di carestia. perlongo L'altro giorno un mio vicino di casa, orefice
di mestiere, era in punto di olio santo. Ha chiesto un prete buono: cioè non
scomunicato. I figli non sono riusciti a trovarglielo, sono tornati portandosi
dietro don Mamiliano Cozzo, che tra gli scomunicati direi che è il più
conosciuto. Il moribondo, vedendolo, ha trovato la forza di gridare che non
voleva da lui l'estrema unzione. I figli e i vicini sono riusciti a convincerlo
a prendersi l'olio da don Mamiliano. E sapete con quale ragione? Che era meglio
di niente. ingastone Proprio così .A
Girgenti, a una donna cui stavano battezzando il nipote, ho domandato se sapeva
che il prete officiante era uno scomunicato. Lo so, mi ha risposto: ma quando
tornano quelli buoni lo faremo ribattezzare. E il bello è che sanno benissimo
quanto siano stati cattivi i preti che chiamano buoni.»
Noi non crediamo che la faccenda dell’interdetto sia stata
presa così alla leggera: credo, comunque, che i preti se ne siano rimasti al
loro posto, a battezzare, a confessare, a perdonare in nome di Dio, a
confortare con l’estrema unzione. Quanto a seppellire, bastava in piccolo
espediente ed anche la chiesa veniva aperta al feretro. Ma il dramma rimaneva
tutto, .. ancor oggi imperdonabile, a nostro avviso.
Mons. De Gregorio – colto e prudente – ci pare
particolarmente circospetto. Scrive: «Il 28 agosto 1713 il vescovo fu costretto
ad allontanarsi da Agrigento […]
Cominciò allora un periodo assai turbolento in cui clero e popolo si
divisero tra favorevoli e sfavorevoli all’interdetto: tra scomuniche minacce,
carceri, esili, confische e vessazioni,
scorsero sei anni di insicurezza e disordine sino al 1719 quando l’interdetto
venne tolto. Durante questo periodo l’ordine del vescovo fu generalmente
osservato, ma per le violenze e le imposizioni delle autorità civili, non solo
in Agrigento ma in diocesi, le chiese furono aperte con la forza e i sacerdoti,
in gran parte provenienti da altre diocesi, vi celebrarono le sacre funzioni.
Ma in genere, sia il clero che il popolo, furono contrari alla violazione
dell’interdetto.» E francamente l’insigne monsignore ci pare imbarazzato e
piuttosto ondivago.
A Racalmuto la bufera non sembra comunque essere soffiata
con asprezza; l’arciprete racalmutese dr. D. Fabrizio Signorino aveva a cuore
le sorto delle anime dei suoi compaesani e vigilò con prudenza e seppe
mantenersi in bilico. Da quello che emerge dagli archivi torinesi il nostro
paese è del tutto defilato. Stralciamo queste notizie che precisano se non
altro i contorni di quella inquietante vicenda.
Da Palermo V. Amedeo scriveva l’8 novembre 1713 al De St.
Thomas sulle vicende agrigentine non mancando di “rimirare” «come un riflesso e
sequela delle Vostre operazioni il riavedimento seguito in Girgenti, ove le
cose sono altresì restituite nella primiera calma, toltone la sola renitenza
de’ PP. Capuccini, rispetto alla quale si stanno qui prendendo le opportune
misure.» Ma il 5 dicembre 1713 il re
deve inviare D. Tommaso Loredano ad Agrigento, giudice della R. Gran Corte, in
quanto occorre «metter il dovuto freno a que’ inconvenienti ch’ancor succedono
in Girgenti.» Vi giravano padri cappuccini per assolvere dall’interdetto.
Alcuni di loro furono arrestati “come nel caso di Cammarata”, giusta quel che
si legge in una nota dell’8 aprile 1714.
Veniamo a sapere che
«due stampe sono divalgate a Roma: l’una che contiene un Brebe del Papa,
diretto al Capitolo della Cattedrale di Girgenti: e l’altra che consiste in una
scrittura intitolata «Lettera di disinganno per gl’Ecclesiastici delle Diocesi
di Catania e di Girgenti». La data del Breve si è de’ 10 del mese scorso [marzo
1714] e la sua sostanza si riduce a dolersi che [taluni] canonici riconoschino
per Vicario Generale il Canonico Formica [per cui si ordina] sotto pena di
scomunica a sé riservata di più riputare
il canonico Formica per Vicario […] e l’altra scrittura intitolata il disinganno . potrebbe probabilmente
essere quella del Padre Pisani Gesuita.».
In una sorta di libertà vigilata restano a termine il
canonico Rini e l’arciprete di Bivona. E’ datata 11 maggio questa missiva al De
St. Thomas: «Vedrà V.S. come a Canicattì si fusse trovato affisso il consaputo
Editto del Papa per l’osservanza dell’Interdetto, in seguito a cui si fussero
colà chiuse le Chiese; sopra di che mi commanda S.M. di scrivere in di Lui
nome, a V.S. che ove si trovino effettivamente chiuse le Chiese in Canicattì,
ed altri luoghi … Ella vi proveda a
tenore de’ precedenti ordini di S. M. con mandarvi dei Religiosi ben affetti
tanto Secolari, che Regolari per far riaprire ed ufficiare dette Chiese.»
Fuggito il Ramirez, non senza prima avere comminato
furtivamente l’interdetto sopra rappresentato, la sede resta per lungo tempo
vacante. Il Ramirez muore – per così
dire, esule – il 27 agosto 1715, ma la sede agrigentina viene raggiunta da un
presule riconosciuto da Roma solo il 24 settembre 1723. Il nuovo vescovo è
Anselmo della Penna (Peña): quello che fa tradurre il catechismo in siciliano
ed esige che siano educati i fanciulli inculcando loro le nozioni rudimentali
della fede in perfetto dialetto siciliano. Quel testo andrebbe recuperato per
studi linguistici di portata anche sociologica.
Il Mongitore – integrando il Pirri - ci ragguaglia sulla sede vacante con queste
laconiche notizie: durante la sede vacante la Chiesa non fu guidata da alcun
Vicario. Ma liberata la diocesi dall’interdetto nel 1719, il Capitolo della
Cattedrale elesse Vicario generale Giuseppe Pancucci agrigentino U.I.D.,
canonico della stessa cattedrale e Tesoriere.
Quel che
in quella sede viene precisato su La Peña è così traducibile: «Anselmo della
Penna, ispano, nato in una località denominata Rabaderia della diocesi auriense
in Galizia nel 1655, apparteneva all’ordine di S. Benedetto ed era laureato in
Sacra Teologia. Fu elogiato prefetto dell’ordine ed abbate generale della
congregazione benedettina di Spagna. Fu eletto vescono di Crotone il 2 febbraio
1715. A quattro anni della nomina di Carlo VI Imperatore a re di Sicilia, fu il
La Penna trasferito a capo della chiesa agrigentina con bolla pontificia di
Innocenzo XIII del 5 ottobre 1723, registrata in Palermo il 9 novembre del
medesimo anno. Prestò giuramento solenne nelle mani dell’arcivescovo
palermitano F.D. Giuseppe Gasch l’11 novembre 1723 in forza di breve
apostolico. Elesse suo Vicario generale l’ U.I.D. Antonino Zavarrone,
protonotario apostolico. Resse la diocesi spinto da zelo pastorale e si
distinse per la carità verso i poveri. Nell’anno 1729, allorché ebbe
un’impennata il prezzo del frumento in Sicilia, egli a poco prezzo distribuì ai
poveri una gran quantità di grano. Affetto da una grave febbre mentre visitava
Caltanissetta, aggravandosi il male, volle che fosse trasportato nella città di
Agrigento, dopo essere stato munito dei conforti religiosi; qui, ottuagenario,
cessò di vivere il 4 agosto 1729.»
Succede
Lorenzo Gioeni ed Incardona, nobile palermitano, su presentazione di Carlo VI.
Investito con bolla pontificia di Clemente XII dell’11 dicembre 1730,
trascritta in Palermo il 5 gennaio 1731, rifulse – per il Mongitore - per doti
d’animo e per virtù. Sotto di lui viene redatto un volume di tutti i benefici e
cappellanie della cattedrale di Agrigento e della diocesi. Per il Picone, «fu
uno di quegli uomini che, a buon diritto, posono addomandarsi rigeneratori di
una città, ed egli fe’ rifiorirla nella pubblica istruzione, nel pubblico
costume, e nel commercio.» Il che sarà
vero per Agrigento, ma dubitiamo fortemente che valga per Racalmuto. Nelle due
visite pastorali che fece a Racalmuto nel 1737 e nel 1748 ci pare oltremodo
fiscale; piuttosto duro e bigotto, fu, se bene leggiamo, persino critico verso
il nostro padre Elia Lauricella. Il
padre Morreale ovviamente non è d’accordo e forse ha ragione lui.
Succede
Andrea Lucchesi Palli (dal 25 luglio 1755 al 4 ottobre 1768). Nobile dei
principi di Campofranco, fondò la celebre omonima biblioteca che interessò
Pirandello e fu oggetto di qualche spunto letterario anche per Sciascia.
Dal 20
novembre 1769 al 23 maggio 1775 è la volta del nobile Antonio Lanza della
celebre famiglia di Mussomeli, cui era appartenuta Melchiorra Lanza la moglie
dell’ultimo conte del Carretto. Teatino, resta immortalato, e non tanto
gradevolmente, dalla sapida penna del viaggiatore inglese Brydone. «Appartiene
– scrisse tra l’altro l’inglese – a una delle prime famiglie dell’isola ed è
fratello del principe di …. È un omettino onesto e una persona piacevole, e
questo è ciò che conta. Non ha ancora quarant’anni, ed è fuori del comune che
abbia raggiunto una simile carica così giovane, essendo questo il vescovado più
ricco del regno. E’ un buon letterato, profondamente erudito sia cose antiche
che di cose moderne, ed è altrettanto intelligente che colto. […] Tra i
commensali abbiamo trovato parecchi massoni, che ci fecero festa apprendendo
che eravamo loro confratelli. » Quel vescovo, durato invero poco, non ebbe
tempo (o voglia) per rassegnare alcuna relatio
ad limina al papa.
Dopo, per
dieci anni, dal 15 aprile 1776 al 31 luglio del 1786, regge la diocesi Antonio
Colonna Branciforti, di cui sappiamo ben poco (e forse, al di là del suo
altisonante casato, passò del tutto inosservato). Il Picone annota: al
magnanimo Lucchesi …« succedevano Lanza
e Branciforti, i quali nel periodo di loro vescovado nulla fecero che ne
ridesti la memoria. » Per un paio di anni abbiamo quindi la sede vacante.
E’ la
volta dell’agrigentino Antonio Cavalieri che non dura più di un biennio (dal 15
settembre 1788 al 10 dicembre 1791). Sempre il Picone: «succedeva il nostro
concittadino … che tentò di rendersi benemerito della patria, ma la morte il
prevenne nei suoi disegni. Egli il 14 gennaio 1789 dirigeva al re un memoriale
per lo quale chiedeva che gli si concedesse a titolo di vendita, o di enfiteusi
il conventino dei Riformati (già da tre anni abolito) e la piccola selva annessavi, onde egli potesse
piantarvi un orto botanico di erbe medicinali pei poveri. Egli aveva già
indotto un valente botanico di Palermo a venire in questa, gli aveva assegnato
un convenevole stipendio, e disegnava condurvi una vena d'acqua per
l'irrigazione delle piante.»
Il 1°
giugno 1795 accede al soglio episcopale Saverio Granata, il suo magistero durò
sino al 29 aprile del 1817. E’ dunque un prelato che si proietta nel secolo
successivo, in un’altra epoca, davvero.
IL CLERO
RACALMUTESE NEL SETTECENTO.
Parlare
delle cose di chiesa non è poi cosa diversa dal vivere civile in tempi – come
ancora è il Settecento – ove il sacro ed il profano non ha linee di
demarcazione ben distinte. Il cosiddetto spirito laico è prodotto di colture
recentissime. Certo in Francia fu storia diversa. Facile citare il Voltaire. Ma
noi siamo a Racalmuto e quello che di laico vi poteva essere non andava al di
là di qualche espressione blasfema, cui il popolino pare indulgesse, nonostante
le pene che la curia vescovile s’industriava di infliggere. Ancora, alla fine
del secolo, il noto canonico Mantione, quando ancora era arciprete, segnalava
al Caracciolo coloro che si astenevano dal precetto pasquale. Ed il laicissimo
Viceré, che ancora rappresentava il re quale titolare dell’Apostolica Legazia
sanciva richiami, più o meno convinti.
Parlare
dunque di preti a Racalmuto nel settecento è in definitiva parlare della
componente più vistosa e più intricante della classe dirigente locale. E a ben
vedere anche di quella economica.
Ecco
perché ci avvaliamo di una rubrica stretta ed alta che l’arciprete Puma
conserva ancora gelosamente in Matrice per seguire l’elenco degli ecclesiastici
che finirono i loro giorni nel Settecento. «LIBER in quo adnotata reperiuntur
nomina plurimorum Sacerdotum, nec non Diaconorum et Subdiaconorum et Clericorum
huius terrae Racalmuti, jam ex hac vita discessorum a pluribus ab hinc annis
fere immerorabilibus, opere R.di Sac. D. Paulini Falletta hon anno 1636 pro
quarum animarum suffragio semel in mense in feria secundae hebdomadae ad
cantandam missam omnes Sac.es, Diaconi, Subdiaconi et Clerici se obbligaverunt
convenire, ut in actis Notari Panfilis
Sferrazza Racalmuti sub die 26 Martii 1638» reca come intestazione il registro,
che non si ferma al 1636 ma prosegue sino al sac. Don Gaetano Chiarelli, di cui
ha steso convinte note biografiche l'attuale arciprete, p. Puma.
Nel
Settecento furono 161 gli ecclesiastici racalmutesi che qui cessarono di
vivere. Per la maggior parte, solo data di nascita e di morte, per qualcuno
solo la data di morte e l’indicazione degli anni; per taluni – i privilegiati –
note biografiche più dense. Il secco annotare si stempera un po’ con D. Pietro
Signorino (n° 139), con il chierico Giuseppe Nalbone ( n° 279), con D. Antonino
Picone Chiodo per essere esplicito – ma non troppo – con p. D. Giuseppe Elia
Lauricella e divenire persino prolisso con D. Nicolò Figliola e D. Stefano
Campanella: le ragioni economiche fanno aggio su quelle della santità.
In appendice forniamo una lunga sfilza di sacerdoti,
ecclesiastici e suore di Racalmuto nel Settecento. Sono ricavabili n° 118
famiglie che vantano un religioso nel proprio casato; per ordine alfabetico
abbiamo:
L’elenco
del LIBER (come d’ora in poi chiameremo quel registro con la lunga intestazione
in latino sopra riportata) esordisce con d. Vincenzo Casucci (n° 154)
Collegiale. Obiit 4 Augusti 1701 di anni
41. Il 18 dicembre è la volta di d. Calogero Pumo di 90 anni. L'autore del
LIBER muore il 21 agosto 1705 all'età di 75 anni. Don Vincenzo Castrogiovanni
(+ 28 agosto 1706) era "predicatore e Collegiale). Collegiale era pure
Davide Corso (+ 3 luglio 1707): anzi, insieme con don Vincenzo Castrogiovanni,
era stato tra i primi mansionari all'atto della costituzione della communia il
13 gennaio 1690. Don Michelangelo Romano (24 ottobre 1711) fu beneficiale di S.
Nicolò. Altro collegiale fu d. Gaetano Cirami (+ 2 febbraio 1712). Don
Giambattista Baera (+ 15 ottobre 1714) e d. Francesco Savatteri (8 settembre
1712) risultano entrambi "collegiali".
Don Pietro
Casucci (+ 7 dicembre 1713), collegiale della prima ora, trova sepoltura in
Matrice “ex obbligazione” ad onta dell’interdetto. Aveva solo 55 anni. D. Santo
d’Acquista (+ 15 ottobre 1714), il primo dei 12 mansionari del 1690, viene
tumulato come il Casucci, in Matrice “ex obligatione” facendosi eccezione
all’interdetto del Ramirez. D. Francesco La Mattina era stato canonico della cattedrale. D.
Giuseppe Provinzano (+ 21 settembre 1729) abbate predicatore, Vicario e
collegiale. Don Lorenzo Farrauto (+ 7 novembre 1729) cappellano, collegiale.
Il dr. Don
Fabrizio Signorino (+ 15 settembre 1729) era stato arciprete e collegiale. A
quanto pare non si era molto curato dell’interdetto. Suo Vicario: dr. Don
Giuseppe Lo Brutto (+ 10 dicembre 1728) che ovviamente era stato anche
collegiale, insieme con d. Calogero Cavallaro (+12 gennaio 1730) e con d.
Antonino d’Amico (+ 5 giugno 1732). Non solo collegiale ma anche
fidecommissario della chiesa di S. Michele era stato d. Francesco Pistone (+ 26
dicembre 1733).
L’arciprete
dr. Don Filippo Algozini di Prizzi muore a Racalmuto il 20 ottobre 1735 all’età
di 50 anni. Suo un rapporto dettagliatissimo sulla Matrice, datato 1731.
L’economo vicario d. Francesco Torretta decede il 7 settembre 1744. Per don
Pietro Signorino (+ 11 aprile 1747) il LIBER annota: “Beneficiale dell’Itria –
Fondatore della chiesa del Monte”. Aveva 70 anni .
Veniamo a
sapere che d. Girolamo Grillo (+ 23 febbraio 1745) era “commissario del S.
Officio”. Muore a soli 27 anni. D. Francesco Sferrazza (+ 10 ottobre 1753) fu
arciprete di Castrofilippo. In risalto d. Francesco Di Maria (+ 9 marzo 1754),
in quanto “fondatore della chiesa di S. Pasquale”. A 66 anni muore d. Orazio
Bartolotta (+ 13 luglio 1745) Il dr. Diego di Franco (+ 30 ottobre 1755) aveva
avuto un canonicato nella Cattedrale di Agrigento. Don Gaspare Casucci (+ 26
gennaio 1757) era stato collegiale, beneficiale di S. Antonio. Muore il 27
gennaio 1757 l’arciprete dr. D. Antonio Scaglione. Beneficiale era stato anche
d. Vincenzo Casucci (+ novembre 1757). Anche don Melchiorre Grillo (+ 30
dicembre 1759) era stato commissario del S. Officio; in più “economo
fidecommisso della chiesa del Monte e collegiale”. Altro commissario del S.
Officio: d. Orazio Bartolotta (+ 11 luglio 1761): “era di Montedoro”. Muore il
vicario foraneo dr. D. Giuseppe Grillo (+ 17 dicembre 1764). Il chierico
Giuseppe Narbone (+ 30 marzo 1766) viene “ritrovato morto in un palmento dello
Zaccanello” Aveva 19 anni. Beneficiale di S. Nicolò era stato d. Giuseppe
d’Agrò (+ 29 agosto 1768). D. Antonino Picone Chiodo (+ 19 maggio 1771) “morì
ammazzato con un colpo di fucile”; aveva 42 anni.P. d. Angelo Maria Baera, morì
d’apoplessia il 28 novembre del 1778. Ed è ora la volta di Padre Elia.
N° 283. P.
D. Giuseppe Elia Lauricella -
«Collegiale, Maestro di Spirito nel Seminario di Girgenti, Missionario,
Predicatore e confessore di diversi monasteri e Collegi di Maria, promotore
zelante per la recita del SS. Rosario in ogni 21 ora nelle piazze e nelle
strade, a tutti caro, e stimato per lo spirito di Dio, e pochi mesi pria di
morire, curò la fondazione di questo Collegio di Maria, fu Curato di Comitini,
ed altri paesi della Diocesi, morì in fama di santità in Canicattì con pianto
universale, e nella Chiesa degli Agonizzanti sta sepolto il di lui cadavere e
fu nel giorno 8 Novembre 1780 – d'anni 73» P.S. Traslato al santuario di
racalmuto il 16.1.1966. A.Puma.
All’età di
85 anni muore il detentore dei libri della matrice D. Antonino Mantione (+ 21
novembre 1781), aveva 85 anni. All’età di 74 anni muore d. Benedetto Nalbone (+
16 marzo 1783). Quanto a d. Nicolò Figliola, ne scriviamo altrove, come per l’arciprete
D. Stefano Campanella. Risulta vicario foraneo e “uomo di governo” D. Alberto
Avarello (+ 28 ottobre 1787). Il collegiale d. Pasquale Fucà muore a 73 anni il
24 agosto 1797. E’ l’ultimo della lista, per quanto riguarda il secolo XVIII.
Considerazioni conclusive sul Settecento Racalmutese.
Il Settecento si chiude con quattro protagonisti, tutti
sacerdoti, dotati di una personalità spiccata; costoro furono sicuramente fra
loro confliggenti e lasciarono solchi indelebili nel corso della locale vita
paesana. Essi sono : don Nicolò Tulumello,
don Francesco Busuito, don Giuseppe Savatteri e Brutto, nonché
l’arciprete – non ancora canonico - don Gaetano Mantione.
Su don Nicolò Tulumello, con le sue poco pie voglie di
acquisire indebiti titoli nobiliari, abbiamo già detto. Su don Giuseppe
Savatteri, altrettanto enon vanno neppure obliate le stilettate inferte da
Leonardo Sciascia. Don Francesco Busuito – veniamo a sapere dal LIBER – fu
“consultore del Sant’Ufficio”, fino a quando non venne soppresso. C’era materia
per dileggi sciasciani, ma il sacerdote la passò liscia, per non conoscenza dei
fatti, pensiamo.
Era
imparentato con don Benedetto Nalbone ed insieme i due sacerdoti rilanciarono
un ramo di quella famiglia. Sulla vertenza Savatteri-Busuito abbiamo detto. Nel
LIBER, mentre al Savatteri è riservata una secchissima annotazione di morte, al
Busuito l’anonimo estensore, che non poteva che essere o subire l’influenza
dell’arciprete Mantione, viene dedicato quasi un epitaffio. «D. Francesco Busuito
– vi si legge – Collegiale, Missionario, Predicatore Quarisimalista, Consultore
del Sant’Ufficio, Parroco di Comitini, Maestro di Spirito sotto Monsignor
Gioeni alla casa degli Oblati e sotto Mons. Lucchesi successivamente. – Maestro
di Lettere, di Teologia Morale, Prefetto di studii, Direttore, Rettore del
Seminario di Girgenti, Vicario Foraneo, beneficiale del SS. Crocefisso, Economo
– obiit 29 Januarii 1802 – d’anni 74.» Non sappiamo se tutti questi elogi siano
dovuti al rispetto che ancora incuteva il defunto o non era una scelta di campo
dell’arciprete Mantione, tutto a favore del Busuito e tutto avverso al
Savatteri, anche dopo la morte.
L’eco di quegli intrighi si hanno persino nel 1870 in una
memoria difensiva del sacerdote don Calogero Matrona. Anche in quella sede è
detto che nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti alcuni beni
dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li
assegna al sac. D. Francesco Busuito. La ricostruzione del citato sac. Don
Calogero Matrona, divenuto beneficiario di quei beni per vie traverse, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 - scrive
fra l’altro il Matrona - da Monsignor
Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre
di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a
concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco
nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno
nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del
beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione,
dandosene anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il
Vescovo fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui
si tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di
lui piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767
dallo stesso Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don
Francesco Busuito di Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti
dispensandolo dall’obbligo del concorso, e dalla residenza, e facoltandolo ad
un tempo a sostituire a di lui arbitrio un Ecclesiastico, per adempire in di
lui vece le obbligazioni e pesi tutti al beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un
avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri
qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto
impugnavasi la fondazione e ricorrendo al Tribunale della Reggia Gran Corte
Civile, otteneva lettere citatoriali contro il detto Reverendo Busuito, affine
di rivendicare i fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti
al suddetto Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo
Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva onze cinque annue per
ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre esistenti nello Stato
di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo Brutto
dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per legato di
maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata Confraternita per
attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per deterioramenti avvenuti nei
suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e Deputati dei Luoghi Pii senza
figura di giudizio e senza le debite formalità giudiziarie s’impossessavano di
quei fondi e melioramenti in essi fatti dal predetto Lo Brutto. Si credettero
autorizzati a far ciò senza ricorrere alle procedure giudiziarie da un patto
enfiteuco solito apporsi in simili contratti, in cui espressavasi, che venendo
meno il pagamento o deteriorandosi il fondo fosse lecito all’Enfiteuta di propria
autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco, come tutto rilevasi dagli atti di
possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre
13 Ind. 1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che
pagate le onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto
delle fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo
Monsignor Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi
conferivasi al sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac.
Savatteri e facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata
fondazione. Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a
rimettere tutto al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti,
il quale tutto riponendo sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A.
Longe, fattesi varie sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di
Racalmuto per parte del Beneficiale e di altra persona per parte del
contendente Savatteri, dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei
fondi e riconosciuta evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa.
Ma protrattosi a lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica
della prescrizione del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di
tal legge non volle più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi
alle pretensioni del Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece
ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei
Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di
costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione
pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e
desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto
che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la
pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni
proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente usurpazione
fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio, perché fondato
senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la prelazione ai
discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la verità delle cose
per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in minore età quel
beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale investito Cavallaro.
Ed infatti il conferì con decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò
pria dispensa della Santa Sede, perché al detto chierico avesse potuto
conferire il beneficio nella minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del
concorso e dell’obbligo della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli
offici parrocchiali sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione
dei beni dotalizii [...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote
(figlio della sorella) don Calogero Matrona, con bolla di Monsignor Domenico
Turano del 1° marzo 1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò
contro Giuseppe Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con
cause, ricorsi, appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere
le sue memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in
proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il
beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902
(cfr. reg. Vescovi 1902 pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare
nelle mani di padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile
di Agrigento.
Il
canonico Mantione è personaggio tuttora popolare: ci viene tramandato come uomo
coltissimo ma sbadato, grande mangiatore di olive come il padre Pirrone del
Gattopardo. Personalmente ci indispettisce per la faccenda della chiesa di
Santa Rosalia. V’è tutta una documentazione all’arcivio vescovile di Agrigento
ove si parla della chiesa in questione. È fatiscente; si chiede e si ottiene
l’autorizzazione avenderla come “paglialora”. La comprano i voraci sacerdoti
Grillo;a venderla è proprio il Mantione. In cambio null’altro che un altare –
quale ancora sussiste – alla Matrice. E’ questa – a nostro avviso – una
imperdonabile colpa del canonico Mantione. Per mera grettezza economica ha
lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse
irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima
chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati
del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini
op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed una sacralità superiori allo stesso interesse locale e se
veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva permettere quello scempio.
Era da quattro anni arciprete di
Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un
tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. E’ un comportamento – quello
dell’arciprete del tempo – che mi appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la
dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella
gli riverbera una poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, quella era un’antichissima chiesetta
risalente, a seconda delle varie versioni ,
al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini,
Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non
esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine). Nel 1628,
ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio venne riadatta, o
edificata (o riedificata); resistette sino al
3 giugno 1793 quando fu ceduta, appunto, al sac. Salvadore Grillo; e ciò
per un baratto: un altare con statua alla Matrice per una chiesa da ridurre a
stalla.
Santa
Rosalia non ha più casa a Racalmuto: è proprio la fine del Settecento.
Nell’epoca del romanticismo, i racalmutesi opteranno per Maria Santissima del
Monte di cui credono di avere una statua marmorea “miracolosissima”. Una saga
era stata inventata a metà del Settecento per la penna di un seminarista, don
Francesco Vinci, ritornato allo stato laicale ove l’attendeva un ruolo egemone
nell’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1848, anche le autorità
ecclesiastiche derubricano come patrona S. Rosalia ed il suo posto è preso
dalla più romantica “imago Virginis Deiparae”, tutta di marmo, splendidamente
eretta sul Monte. Ai piedi l’erta scalinata per le “prumisioni” a dorso di muli
recalcitranti oppure racchiuse in pesanti sacchi, portati su a fatica sulla
testa di donne smunte o obese, a piedi scalzi, per devozione, triste ed
ancestrale. Immagini romantiche appunto, o – direbbe Sciascia – soffuse di un’ «aura
romantica ed un tantino melodrammatica».
Francesco Lo Brutto
aromatario
Scrivevo qualche mese fa:
Non sono
disponibili dati anagrafici su Francesco Lo Brutto. Riteniamo che fosse molto
più anziano del sac. Santo Agrò e gli sia premorto, ragion per cui non può
avere sostenuto le spese di miglioria della nuova matrice, specie quella a tre
navate che sappiamo operante solo dopo il 1662. Nella numerazione delle anime
del 1660, il nominativo non figura per nulla e quindi era deceduto da tempo.
Una recentissima consultazione del Rollo Primo del Suffragio
apre qualche spiraglio sulla identità di questo speziale del seicento
tramandatoci dal Pirri. Ai fogli 72 e seguenti abbiamo la cronistoria di un
legato di don Gaspare Lo Brutto alla Confraternita del Santissimo Suffragio
delle Anime dei defunti fondata nella Matrice. La lettura degli atti ci
consente di stabilire che il sacerdote è figlio di Antonino Lo Brutto e che
l’aromatario Francesco Lo Brutto era un suo fratello. Gli atti risalgono al 20
ottobre 1616 ed al 3 ottobre 1617.
Da qui è piuttosto agevole risalire al nucleo familiare
secondo quel che emerge dal Rivelo del 1593. Non vi dovrebbero essere dubbi che
il “fuoco” in questione sia il seguente:
L’aromatario del Pirri dunque nacque
a Racalmuto attorno al 1578 da Antonino e Costanza Lo Brutto. I suoi fratelli,
oltre al sacerdote che morì molto giovane (il 4 ottobre 1617 secondo il Liber
c. 2 n.° 31), furono Vincenzo (nato attorno al 1575), Giaimo (nato attorno al
1576) e Giuseppe (nato il 19.1.1585); le sue sorelle: Antonella (nata il 26.9.
1581) e Norella.
Quest'ultima si sposò
con un fratello di Pietro d'Asaro:
23
10 1622 D'ASARO BARTOLO di GIOVANNI q.am e di GIOVANNA con LO BRUTTO Leonora di Antonino q.am e di
Constanza. Testi: Curto cl. Panphilo e Sferrazza Mariano. Sacerdote: Sanfilippo
don Gioseppe Trattasi del fratello del
Pittore . Bartolo era nato il 10.12.1597.
Don Gaspare Lo Brutto morì dunque
all’età di 29 anni come dal seguente atto e fu sepolto a S. Giuliano:
Ecco come è ricordato nella visita del 1608:
cl: Gasparo Brutto an: 20 cons. ad duos p. min. ord. die 19
maij 1606 Panormi
Un giorno prima di morire fa testamento e dispone il
seguente legato in favore della Cappella del Suffragio delle Anime del
Santissimo Purgatorio fondata nella Matrice chiesa:
Est
sciendum qualiter iner alia capitula donationis mortis causa condite per condam
don Gasparem Lo Brutto in actis meis infrascripti sub die iij octobris prime
ind. 1617 extat capitulum pro ut infra:
Item
dictus donans donavit et donat legavit et legat Confraternitati SS.mi Suffragij
Animarum SS.mi Purgatorij fundate in Hac Terra Raclmuti tt.os viginti quatuor
redditus de summa supradictarum unciarum trium anno quolibet debitarum per
dittum Don Antoninum Capoblanco ad effetum celebrandi missas viginti quatuor de
requie pro animas defunctorum anno quolibet in perpetuum scilicet: missas
duodecim in quolibet nono die mensis novembris cuiuslibet anni et missas
duodecim hoc est in die lune cuiuslibet mensis unam missam in perpetuum quoniam
sic voluit et non aliter.
Ex actis
meis not. Natalis Castrojoanne Racalmuti.
Il 20 ottobre del 1616 don Antonino Capobianco era ancora
chierico. Egli è costretto a sistemare una intricata vicenda giudiziaria
proprio con don Gaspare Lo Brutto. Questi è però già infermo e manda al suo
posto proprio l’aromatario ricordato dal Pirri, Francesco Lo Brutto appunto. Il
resoconto trovasi nell’atto del Rollo del Suffragio (f. 72)
Die xx octobris XV ind. 1616
Notum facimus et testamur quod Franciscus Lo Brutto
Aromatarius huius terre Racalmuti tamquam commissariatus D. Gasparis Lo Brutto
eius fratris a quo dixit habere tale specialem mandatum ... sponte quo supra
nomine pro heredibus et successoribus dicti D. Gasparis in perpetuum vendidit
et alienavit .. clerico Antonino
Capoblanco eiusdem terre Racalmuti ... unam vineam de aratro arboratam cum eius
clausura in duabus partibus cum suis puntalibus domo torculari limitibus
maragmatis gessi et alijs in ea existentibus sitam et positam in feudo predicto
Racalmuti et in contrata Garamolis secus vineam Hyeronimi Capoblanco ex una et
secus aliam vineam dicti clerici Antonini emptoris et secus vineam heredum
quondam Nicolai Capoblanco minoris et secus vineam Antonini Curto Bartholi et
alios confines; et eademmet bona quae possidebat Nicolaus Capoblanco maiori,
dictoque don Gaspari uti ultimo emptori et plus offerenti predicta bona
liberata per primum et secundum decretum et actum possessionis inclusive
redactum penes acta curie dicte Terre Racalmuti diebus etc. banniata et
subastata ad instantiam quondam Antonini Lo Brutto et pro ut melius est
expressatum et declaratum in dictis decretis superius calendatis ad quae in
omnibus et per omnia plena habeatur relatio et me refero et non aliter nec alio
modo.
Totam dictam vineam cum omnibus supradictis etc. subiectam
dictam vineam cum arboribus ... cum eius solito onere census proprietatis et
directi dominii debiti et anno quolibet solvendi ill.i Comiti dicte Terre
Racalmuti a quo ill.e proprietario prefati contrahentes ad invicem proprio
eorum nomine licentiam auctoritatem et consensum reservaverunt et reservant cum
debita et solita protestatione mediante
Et hoc pro pretio unc. triginta quatuor p.g. de pacto et
accordio inter eos absque estimatione ... de quibusquidem unc. 34 quoad uncijs
quatuor dictus clericus Antonius dare realiter et cum effectu solvere promisit
et promittit dicto d. Gaspari absenti ..
Et pro alijs uncis triginta ad complementum dictarum unc. 34
dictus clericus Antonius vendidit et
subiugavit dicto d. Gaspari Lo Brutto
uncias tres redditus censuales et rendales .. super dicta vinea
Item in et super quamdam aliam vineam sitam et positam in
dicta contratasecus supradictam vineam et secus dictam vineam Antonini Curto de
bartolo et secus vineam dictorum heredum quondam Nicolai Capoblanco
Item in et super duabus domibus terraneis existentibus in
dicta terra et in quarterio Fontis secus domos heredum quondam Vincentij
Mannisi ex una et secus domos dicti Hieronimi Capoblanco ex altera
Testes Franciscus Manueli D. Michael Barberi et Joannes Franciscus
Pistone
Ex actis meis not. Simonis de Arnone.
In actis curie juratorum ..Grillus mag. not. Franciscus
Anche don Antonino Capobianco ebbe breve vita. Crediamo che
sia una delle innumerevoli vittime della peste del 1624. Già il 22 novembre
1626 risulta deceduto. Naturalmente la cappella del suffragio si fa parte
diligente nella riscossione del legato. Tocca al solerte don Santo d’Agrò,
nella sua veste di deputato della Cappella del Suffragio delle anime del
santissimo Purgatorio, fondata nella chiesa Maggiore, di sollecitare gli eredi,
come dalla seguente carta notarile
(Rollo Suffragio f. 75):
Die XXII novembris X ind. 1626
Fuit per me notarum infrascriptum ad instantiam don Sancti
de Agrò deputati Capelle Suffragij animarum S.mi Purgatorij fundate in maiori
ecclesia huius terre Racalmuti ... intimatum et notificatum Vincentio et Vito
Capoblanco fratribus heredibus universalibus quondam don Antonini Capoblanco
Sacerdotis olim eorum fratris presentibus et audientibus contractum de summa
illarum unc. trium redditus annualium per ipsos de Capoblanco dicto nomine
debitarum anno quolibet heredibus quondam don Gasparis Lo Brutto subiugantium
per dittum quondam don Antoninum dicto quondam don Gaspari vigore huiusmodi
contractus subjugationis facti in actis not. Simonis de Arnone die XX octobris
XV ind. 1616, habeant et debeant anno quolibet solvere dicte Capelle Suffragij
eiusque deputatis tt. 24 redditus e sunt
pro alijs dette Cappelle legatis per dittum quondam don Gasparem in eius
donatione causa mortis fatte in attis meis not. infr. die iij octobris p. ind.
1617 et nemini alteri solvere sub pena anno quolibet .... unde
Testes Antonius Curto martini et Franciscus Curto Joseph
Ex actis meis not. Natalis Castrojoanne.
* * *
Giaimo Lo Brutto morì pure giovanissimo, appena
ventiquattrenne, ed era ancora scapolo: non può quindi essere quello del noto
processo dei Savatteri che rivendivano il beneficio del Crocifisso in quanto
eredi del nobile Giaimo Lo Brutto:
La madre fu al contrario piuttosto longeva: morì nel 1636 e
venen sepolta nella chiesa che il figlio aromatario avrebbe abbellita:
Su Leonora (Norella) Lo Brutto, sposatasi con Bartolo
d’Asaro, possiamo piluccare qualche dato: Nel 1636 era già vedova. Le
amministra i beni il pittore Piero d’Asaro che li include nel suo rivelo come
sue “gravezze”. Dichiara il 25 novembre 1636 nel documento intestato:
Rivelo che il Cl. Don Pietro d'Asaro, clerico coniugato di
questa terra di Racalmuto presenta con giuramento nell'officio del signor D.
Giacomo Agliata capitano d'arme del Regno nella nuova numerazione delle anime,
e facultà in virtù di bando d'ordine di d. sig. cap.no d'arme in detta terra a
25 novembre Va ind. 1636
tra le altre, la seguente “gravezza”:
Gravezze mobili
Deve onze ducento a Leonora d'Asaro di detta terra relicta
dal q.m Bartholo d'Asaro per causa et compenso delle sue doti assegnatele per
testamento di d.o q.m Bartholo in notaio Simone d'Arnone di detta terra di
onze....................................200
Ella morì a 74 anni nel 1663 come dal seguente atto:
MANSIONARI 1690
[DALL'ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - REGISTRI VESCOVI
1689-1690 - F. 898 E SS.]
“Racalmuto - Concessione di insegne corali pei 12
mansionarii”
Nos frater
don Xaverius Maria Rhini ex ord. min. reg. observantiae Sancti Principis nostri
Francisci Dei et Sanctae Apostolicae sedis gratia Agrigentinus Regiusque
Comitus etc:
Dilecto in
Cristo filio Ill.ri Domino nostro D. Hieronimo del Carretto principi comiti
terrae Racalmuti huius nostrae agrigentinae dioecesis et salutem in Domino et
nostram episcopalem benedictionem.
Perillustres
hae imperialis familiae, et antiquissimae nobilitatis genus, multiplica
servitia, quae ad suorum perillustrium Antenatorum imitationem, invictissimo
nostro Catholico Hispaniarum Regi in muneribus militaris campi ad bellum in
revolutionibus Civitatis Messanae, et in bello regio Galliae evidenti cum tuae
vitae periculo in fonte inimicorum tuis maximis dispensiis manutendo societates
militum siculorum, alemannorum et calabriensium, et vicarij generalis prius in
civitate neti, et postea in hac Civitate Agrigenti, eamque repartimentis toto
d. belli et revolutionum tempore contra Gallos ad singularem benefitium, et
huius regni hi tamen prestiti, et in diem prestare non curans (?), quorum
intuitu à predicto invictissimo Rege pias (?) ceteras mercedes habuisti munus
Pretoris predictae Siciliae regni et clavem auream uti illius eques; aliaque
innumera laudabilia merita nobis satis
superque cognita nos inducunt, ut te specialibus favoribus, et gratiis
prosequamur. Praemissa igitur prae oculis habentes in exequtione provisionis de
ordine nostro factae in domo tuae suppicationis, tenore pretium Bullarum
perpetuo valiturum concedimus facultatem, Reverendissimum Archipresbyterum et
duodecim Mansionarios, et Chorales distributionarios à nobis eligendos, et qui
pro tempore erunt in Sacra distributione de numero duodecim iam ex nostra
facultate erecta et fundata pro divini cultus incremento, et Sanctissimi
Purgatorii anumarum suffragio, per alias nostras Bullas expeditas sub die 12
Januarii currentis posse deferre capuccium sive Almutium sericum, quò ad rev.m
Archipresyiterum et Vicarium nigri, et subtus rubri colorum, et quò ad alios
nigri, et subtus violacii colorum..
Mandantes
etc. ....
die 13
januarii 1690
Officiati
Santo d’Acquista terrae Racalmuti (ex 12 coristi);
don Antonio de Amico;
don David Corso;
don Vincentio Casuccio Racalmuti;
don Francesco Pistone;
don Nicolao Carnazza;
don Filippo Cino;
don Giovanni Sferrazza;
don Francesco Savatteri;
don Pietro Casuccio;
don Vincenzo Castrogiovanni;
don Santo la Matina.
don Caetanus Cirami
(in casu vacationis mansionarium);
don Fabritio Signorino (de suprannumerariis);
don Stefanus Faija
(soprannumerario della sacra distribuzione);
don Calogero Cavallaro ( ‘’ ‘’ ‘’
‘’ );
don Pietro d’Agrò
( ‘’ ‘’ ‘’
‘’ ).
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