La storia nazionale del fascismo e suoi (flebili) echi sulla vicenda
locale prima del 1925.
Quando
il 18 ottobre 1914 Benito Mussolini
pubblicò sull’ «Avanti!» lo storico articolo «Dalla neutralità assoluta
alla neutralità attiva ed operante», è molto dubbio che qualcuno a Racalmuto
ebbe a leggerlo. Poteva, eventualmente, averne presa visione l’unico socialista
di cultura di Racalmuto: l’avv. Vincenzo Vella. Il suo fascicolo che la P.S. da
tempo approntava ce lo mostra assiduo lettore di «La Lotta di classe», «La
Giustizia sociale», di «Riscossa»
e di certi «opuscoli editi dal Comitato
Regionale della Federazione socialista Ligure» .([1])
Per il questore di Girgenti, il Vella - così annota il 20 ottobre 1913 - «è
laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte
pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate». Fose fra quelle
letture c’era l’ «Avanti!», ma possiamo essere certi - a prescindere dalle
malevoli note del questiore ‘girgentano’ - che non afferrò di certo che la
storia d’Italia prendeva in quell’ottobre 1914 una radicale svolta nella storia
dei partiti politici d’Italia. La successiva velenosa polemica tra il partito
socialista e Benito Mussolini, il Vella, però, sicuramente la dovette seguire
in quel di Racalmuto. E quando - dopo il delitto Matteotti - finì sul serio
negli schedari politici del fascismo e ne fu perseguitato ancor più
pressantemente di quanto non lo fosse stato prima dalle questure antisocialiste
dei governi liberali.
A
noi pare che la lezione di Ernst Nolte ([2])
abbia maggiore vigore di quanto leggesi tra i detrattori ([3])
del fascismo e i suoi coevi esaltatori([4]):
non sembri quindi ozioso se ci permettiamo di riportare il seguente stralcio
dell’opera dello studioso tedesco. «L’articolo
fu in effetti l’ultimo scritto da Mussolini in veste di direttore dell’
«Avanti!». Il giorno dopo, il direttorio del partito si riuniva a Bologna, e
qui la posizione di Mussolini non trovava neppure un difensore; e, benché si
cercasse di fargli dei ponti d’oro, dovette immediatamente dimissionare dalla
direzione dell’ «Avanti!». Le spiegazioni, che egli ne ha dato all’epoca,
permettono di affondare lo sguardo nei suoi moventi: «Io capirei la nuova
neutralità assoluta qualora avesse il coraggio di arrivare fino in fondo e cioè
di provocare un’insurrezione; ma questa a priori la scartate, perché sapete di
andare incontro ad un insuccesso. E allora dite francamente che siete contrari
alla guerra ... perché avete paura delle baionette ... Se lo volete, se vi
sentite, io sono alla vostra testa: neutralisti fuori della legalità ...
ebbene, bisogna essere decisi. Ma la neutralità assoluta nella legalità ormai è
divenuta insostenibile.»
«Non viene addotto alcun motivo di
natura contenutistica: qui non si parla di democrazia, delle necessità vitali
dell’Italia, dei territori irredenti; l’impossibilità di una radicale coerenza
spinge il rivoluzionario su una strada, sulla quale avrebbe dovuto procedere
assieme ai suoi avversari più decisi. A quanto sembra, tuttavia Mussolini
sperava di portare dalla sua il partito ovvero cospicue frazioni di esso. Pochi
giorni gli sono sufficienti per togliergli le illusione: il 25 ottobre,
Mussolini scrive all’amico Torquato Nanni «Ho voluto aprire il vicolo cieco nel
quale si era ficcato il partito, ma nell’urto sono caduto»
«Mussolini non era uomo da
sottomettersi alla disciplina di partito; si sarebbe potuto aspettarsi da lui
che tacesse o, per lo meno, che non scrivesse contro il partito, e a quanto
pare una premessa del genere è stata da lui fatta ai compagni della direzione.
Ma egli non riuscì a tenersi chiuso dentro quella che riteneva la sua verità, e
nel giro di poche settimane tra Mussolini e gli antichi amici si scavò un
abisso di incomprension, disprezzo e odio, che mai più sarebbe colmato.
«Pare che alla fine di ottobre,
Mussolini abbia concepito l’idea di crearsi un proprio organo di stampa: già il
15 novembre, apparve il primo così numero del «Popolo d’Italia. E’
perfettamente comprensibile che i socialisti annusassero odor di «tradimento»,
che sospettassero che Mussolini si fosse «venduto»: sembrava impossibile che un
uomo completamente privo di mezzi potesse, con le sue sole forze e nel giro di
pochi giorni, far sorgere dal nulla un quotidiano. Effettivamente Mussolini,
ancora in veste di direttore dell’ «Avanti!» aveva avuto degli abboccamenti col
direttore di un foglio bolognese, che sapeva organo degli agrari; da costui,
egli ebbe, anche in seguito, un valido appoggio di carattere
tecnico-tipografico. Ma da dove venissero i capitali è, oggi ancora, cosa non sufficientemente
chiarita. Si parlò quasi subito di denaro francese, supposizione che però non
si riuscì mai a provare. L’ipotesi più probabile è che organi governativi si
siano assunti il compito di finanziatori indiretti; numerosi erano infatti i
circoli, in Italia, interessati a un indebolimento del partito socialista.
Indubbiamente dunque Mussolini nel momento in cui si fece dare un giornale,
divenne una carta in mano di qualcuno. Affatto infondata è invece la
supposizione che il denaro, il giornale proprio fossero il motivo per il suo passaggio in campo
interventista. Ma proprio questo lasciò supporre l’ «Avanti!», ponendo,
immediatamente dopo l’apparizione del nuovo giornale, e instancabilmente, la
domanda: «Chi paga?». Nel giro di poche settimane, l’ex-beniamino del partito
era divenuto un «venduto alla borghesia» e un «transfuga», che meritava «il
sacrosanto odio del proletariato italiano». Allorché, il 24 novembre, Mussolini
si presentò alla riunione dei membri della sezione milanese, chiamati a decidere
in merito alla sua espulsione, il suo discorso fu sommesso da un uragano di
ingiurie, fischi e minacce. Il partito socialista compì un linciaggio morale
nei confronti del «traditore»; nessuno dei fogli socialisti italiani si schierò
dalla sua parte, e Mussolini non riuscì a tirare dalla sua parte neppure una
minima frazione del partito. Era la sua prima sconfitta, e insieme quella che
avrebbe avuto le maggiori conseguenze. Mussolini era solo.»
Da
qui «prese le mosse una polemica della
massima violenza e spesso bassamente ostile, nel corso della quale furono poste
le basi per l’interpretazione socialista del fascismo e per l’interpretazione
fascista del socialismo. In ogni caso, la dissociazioneera compiuta. Mussolini
era adesso un generale senza esercito, un credente senza fede. Un piccolo
gruppo di individui, per i quali egli era il «duce», naturalmente gli si
raccolse ben presto attorno. Già nell’ottobre, quando ancora Mussolini lottava
con se stesso, dalle file dei sindacalisti e socialisti si erano costituiti i fasci
interventisti, sotto la guida di Filippo
Corridoni, Michele Bianchi, Massimo Rocca, Cesare Rosssi e altri. In dicembre
questi si fusero coi seguaci di Mussolini nel «fascio d’azione rivoluzionaria»,
la cellula germinale del fascismo. L’unico punto programmatico sostanziale è il
proposito di provocare l’intervento a fianco dell’Intesa; per il resto,
Mussolini pone un postulato non facilmente superabile: «Riaffermare le idealià
socialiste rivedendole a lume della critica sotto l’attuale terribile lezione
dei fatti» [...]».
Ma
tra fascismo e vicenda personale di Mussolini qual è la differenza? Si dovrebbe
essere d’accordo col Nolte quando afferma: «il fascismo è la propria storia e questa storia è indissolubilmente connessa
alla biografia di Mussolini» (op. cit.
pag. 226).
Le
vicende richiamate erano però faccende dei lontani e brumosi territori di
Milano e Bologna perché se ne possano cogliere significatiche rispondenze nella
solatìa Racalmuto, alle prese con lo zolfo, la mano d’opera contadina, gli
agrari liberali e gli esercenti di miniere che in parte con i primi si
confondevano e si parte se ne diversificavano. La guerra in ogni caso non era
appetibile: contadini e zolfatai che andavano soldati erano braccia sottratte
alla terra ed alle miniere, e ciò significava crisi. Quanto alle masse esse
erano ostili alla guerra, andandone di mezzo la vita della loro migliore
gioventù (la guerra del 1915-18 comporterà la morte di 196 racalmutesi oltre a
33 dispersi: a scorrerne i nomi, i figli dei “galantuomini” erano riusciti
quasi totalmente a farla franca; forte fu la corruzione per esoneri di comodo).
Quanto agli agrari e ai titolari delle miniere, la guerra era un guaio per il
diradarsi della mano d’opera. Una volta tanto, padroni e proletari erano d’accordo
nel professare il non interventismo. Eugenio Napoleone Messana propende per una
qualche presenza locale degli interventisi. Se vi fu, fu comunque molto
limitata, anche a credere a quello
storico locale, cui invero accordiamo poca credibilità: tutto si sarebbe
limitato a questa singolare vicenda: «L’interventismo, che fece leva sulla
politica italiana e condusse alla guerra la nazione, a Racalmuto fu
rappresentato da Vincenzo Tulumello di Giovanni , giovane ardente dalla parola
suasiva e convincente, il quale però, a guerra scoppiata, fece di tutto per non
andarvi e la voce popolare vuole che anche sia morto perché si provocò il
diabete.» ([5])
In
ogni caso, siamo certi del fatto che il «Popolo d’Italia» giunse a Racalmuto
solo al tempo della completa affermazione del fascismo e i «fasci d’azione
rivoluzionaria» i racalmutesi non seppero neppure cosa fossero.
Ben
diverso è il discorso per la fondazione dei fascismo ed in particolare del primo Fascio di combattimento in data 19
marzo 1919. Un racalmutese il notaio Giuseppe Pedalino di Rosa sarebbe stato
nientemeno che un “sansepolcrista”. Il personaggio, sul quale sono disponibili
alcune fonti che però sono di segno divergente, rassomiglia a quello del Rubè
di A.G. Borgese, anche se qui la storia può dirsi a lieto fine. Nato a
Racalmuto il 3.11.1879, si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1901 e si trasferisce a Milano per esercitarvi la
professione di avvocato fino al 1925, e dopo quella di notaio sino. Morì a
Merate il 15\10\1957. Risulta iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. E.N. Messana
così ce lo descrive: «Fra i socialisti divenuti interventisti si ricorda il
notaro Giuseppe Pedalino di Rosa, finito poi al fascio e divenuto un
sansepolcrista. Questi fu anche un poeta in vernacolo, un tipo bizzarro, che
amò molto il paese. Scrisse «Lu cantastorie d’America» in cui cantò luoghi e
persone di Racalmuto nell’aulico dialetto siciliano. Visse molti anni a Milano
e vi morì». ([6])
Salvatore Restivo riscrive, palesemente agiografico, così la biografia nel
giornaletto locale del maggio 1993 ([7])
« ... Fin dalla prima giovinezza appartenne al partito socialista; in Sicilia
con Giuseppe Lauricella della vicina Ravanusa, a Milano con il gruppo di cui
facevano parte tra gli altri Pietro Nenni ed Emilio Caldara. [ ..] Il 23 marzo 1919 partecipò alla
fondazione dei fasci di combattimento,
dai quali si allontanò progressivamente fino ad essere “eliminato per
diserzione”. [...] Nel 1934 organizzò a Racalmuto un raduno di poeti siciliani
a cui parteciparono anche Luigi Natoli e Ignazio Buttitta [..]». Il Pedalino
ebbe, invero, la sventura di una sorella che andò sposa ad un appartenente alla
celebre famiglia di anarchici di Grotte: i Vella. Il casellario politico
centrale registra alla busta 5342 gli anarchici: 1°) Vella Antonio (fasc. N.°
6504) nato a Grotte il 6.9.1886; 2°) Vella Giuseppe (fasc. N.° 3908) nato a
Grotte il 10.11.1895; 3°) Vella Diego (fasc. N.° 22144) nato a Racalmuto il
15.2.1901, 5°) Vella Dante Nunziato (fasc. N.° 4621) nato a Racalmuto il
24.3.1908, ed alla busta n.° 5344, il più celebre di tutti, 5°) Vella Randolfo
(fasc. 17912) nato a Grotte il
2o.4.1893. Non è questa la sede per accennare, anche brevemente,
all’affascinante storia di questa famiglia di anarchici, socialisti,
antifascisti, ma anche in rotta con gli esuli comunisti. Ai nostri fini, il
richiamo al C.P.C. dell’Archivio Centrale dello Stato (busta n.° 5342) ci serve
per inquadrare la figura del notaio Pedalino. Il 27 dicembre 1937, le questure
d’Italia sono alle prese con un dei suddetti schedati: Vella Dante Nunziato.
Scoprono che è parente del notaio milanese. Chiedono informazioni . Ecco la
risposta: «27 dicembre 1937 - anno XVI.
Oggetto: Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il
24/3/1908 residente a Lugano ... Prefettura di Milano ... “comunico che l’avv.
Pedalino Giuseppe fu Fedele e di Rosa Maria Vita, nato a Racalmuto il 3.11.1879
(e non 1895) risiede in questa città dal paese di origine, ed abita in via
Pergolesi n.° 23 con studio in via Monforte n.° 14.
«Coniugato con Passoni Maria di
Emilio e Speranza Rosa nata a Milano il 29.9.1897 ha una figlia a nome
Vitamaria Alfonsina, nata a Milano il 2.10.1926. Il Pedalino è zio materno del
Vella Dante. Il Pedalino risulta di regolare condotta in genere ed è iscritto
al P.N.F. dal 23.3.1919. Il prefetto: (G. Mangano).» ( [8])
Fino
al 1937, il Pedalino è dunque ancora un “regolare fascista” che può vantare la
prestigiosa tessera dei primordi fascisti. Recante la data dei sansepolcristi.
Certo, fu tessera presa a Milano e Racalmuto c’entra solo per un fatto
anagrafico del Pedalino. Non è da escludere che questi ebbe guai dopo quella
richiesta d’informazioni della polizia poltica del 1937. I due suoi nipoti, per
parte della sorella, Dante Nunziato e Rodolfo Vella, proprio in quell’anno si
erano arruolati nelle “milizie rosse” della guerra di Spagna.
Ma
davvero il Pedalino partecipò a quella adunata
tenuta la sera del 23 marzo 1919, fra le mura di un vecchio palazzo milanese in
Piazza San Sepolcro, donde uscì il primo Fascio
di combattimento? Non va dimenticato che quella fu una adunata che poi si tinse di un’aura veramente leggendaria. ([9])
Lo stesso Mussolini non ricordava più quanti veramente fossero. Una volta parla
di cinquantadue che “giurarono che la lotta che avevano intrapresa - quella
sera del 23 marzo 1919 - non poteva finire se non con una trionfale vittoria”,
ed altra volta rettifica in cinquantatre (12 febbraio 1925) ([10])
Il Pedalino, in quello ristretto stuolo, forse non fu mai. Una qualche piccola
astuzia (o menzogna), forse utilizzato al tempo del concorso a notaio. Era un
avventuroso siciliano, dopo tutto! Quei nipoti, della III Internazionale,
finiti nelle milizie rosse di Spagna ebbero fose a guastargli quella vantata
primogenitura politica.
Ma
il Pedalino - a conferma della validità di certe valutazioni storiche - potè
aderire all’adunata di San Silvestro per lo sfumato socialismo che si
riverberava. Le sue origini socialiste ed anarchiche racalmutesi poterono
spingerlo in tal senso. Con il Nolte ([11])
bisogna ammettere che, fondato il 23 marzo 1919 a Milano, nel corso di una non
mumerosa assemblea, in massima parte da ex-inyterventisti di sinistra, vuole essere inteso come
l’inizio di un socialismo nazionale, primo germe della socialdemocrazia ..». E
questa tendenza mussoliniana verso un blando socialismo - a mo’ di richiamo
delle origini - gli storici la rinvengono puntualmente in varie contingenze,
almeno sino al congresso di Roma del 1921. ([12])
Non è questa la sede per trattare tale atteggiamento mussoliniano. Vi si
inseriscono i travagli della sconfitta elettorale del 1919; l’autunno violento
del 1920; l’intrigo con la borghesia agraria emiliana; l’insuccesso dell’astuta
manovra di coinvolgimento di Giolitti; la resurrezione elettorale del maggio
1921 (elezioni volute - e perse - da Giolitti); l’accordo firmato con i
socialisti il 3 agosto 1921; la retromercia innestata al congresso di Roma
(7-10 novembre 1921); la trasformazione in partito del “movimento fascista”; la
professione mussoliniana della “tendenza repubblica”, etc. Dalla sera di San
Silvestro del 23 marzo 1919 all’abbraccio con Dino Grandi nel novembre del 1921
la storia italiana ha le sue stigmate fasciste e la vicenda mussoliniana con
collima del tutto con quella del fascismo. Eppure tutto questo sembra, per la
Sicilia, ed ancor più per Racalmuto, avvenire in un alienissimo mondo, persino
totalmente ignorato. Annota il Nolte (pag. 288):«.. le regioni meridionali
(salvo la Puglia) e le isole non ne sapevano praticamente nulla fino a poco prima
della marcia su Roma.»
Ma
che tipo di partito venne fuori dal Congresso dell’Augusteo del novembre 1921?
A questa domanda tenta di rispondere il Ragionieri ([13]).
«Non era poi un partito troppo differente dagli altri partiti di massa»,
afferma lo storico di sinistra e continua: «La sua caratteristica più originale
era in foldo rappresentata dal fatto che
esso era dotato di un’organizzazione paramilitare [ma trasformatasi nella
Milizia solo nel 1923]»; ma era un partito «completamente diverso dalle
organizzazioni della borghesia italiana»; in esso «la prevalenza anche
quantitativa degli strati della borghesia indica già il processo in atto di
ricomposizione di un blocco di forze piccolo e medio borghesi sotto la
direzione dei gruppi superiori degli indusrtiali e degli agrari»; «figlio dei
tempi nuovi portati dal conflitto mondiale, il fascismo poteva trovare nella
massiccia presenza dei giovanissimi nelle sue file una solida garanzia per
l’avvenire».
Sarà
stato per la mancanza di quei “gruppi superiori degli industriali”; sarà stato
per la presenza della mafia (stando al quasi sillogismo sciasciano), fatto sta
che neppure sotto la nuova forma di partito il fascismo riesce a diffondersi in
Sicilia - tra il 1921 ed il 1922 - e men che meno a Racalmuto (ove peraltro
mancava un vero e proprio latifondo perché si ptesse parlare di agrari nel
senso del ragionieri, in senso cioè di classe borghese con una propria
coscienza di ceto egemone).
Nell’agosto
del 1922 - con il fallimento dello sciopero dei giorni 1-3 voluto dal PSI e
dalla CGDL - si registra la definitiva sconfitta del socialismo italiano e si
apre il viatico per l’avvento di Mussolini al potere (con il suo viaggio a Roma
in vagone letto nella notte del 29 ottobre, dopo la Marcia su Roma).
Nulla
troviamo che in qualche modo comprovi la minima percezione in quel di Racalmuto
che la storia era cambiata, che il cosiddetto stato liberale era spirato, che i
padrini della Democrazia Sociale (Guarino Amella a livello strettamente locale,
di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò per un referente a respiro unpò più vasto, regionale) erano
avviati verso uno scialbo tramonto.
Racalmuto, invero, era troppo in periferia,
persino rispetto alla storia siciliana, per avere acume di analisi e
lungimiranza d’orizzonte. Quel che sorprende che in quel biennio cruciale per
la storia nazionale anche filosofi alla Croce, o raffinati giornalisti alla
Albertini, o, in particolare, economistti già celebre alla Einaudi non
riuscissero a vedere molto lontano, quanto al fascismo che esplodeva sotto i
loro occhi. Sorprende, ad esempio, la miopia di Luigi Einaudi. Sfogliando le
sue Cronache economiche e politiche di un
trentennio (1893-1925), lo vediamo impegnato nel gennaio 1921 in una
retriva polemica con i socialisti sull’ «ostruzionismo del pane». Scriveva che
«il primo atto concreto dei socialisti
unitari e concentrazionisti è stata la deliberazione di intensificare alla
camera l’ostruzionismo contro il progetto sul pane. Era facile prevedere che la
scisssione tra socialisti e comunisti avrebbe istigato ambedue le frazioni ad
una lotta acerba di concorrenza non per fare il bene, ma per dimostrarsi ognuna
di esse più accesa, più rossa, più avanzata.» ([14])
Sull’argomento tornava con l’articolo dell’11 febbraio “Alla ricerca di una formula definitiva per risolvere il problema
del pane” (op. cit. pag. 40 e
segg.) e con quello del 24 febbraio “ed
ora all’opera!” (op. cit. pag.
44 e segg.). Colpisce il linguaggio insolitamente pugnace contro i socialisti,
anche blandi, del suo intervento giornalistico del 13 aprile 1921 (op.
cit. pag. 111 e segg.): «Bisogna
avere - scrive a pag. 112 - il coraggio di dire che siffatto latte e miele è
pernicioso. Costoro, che dopo così recenti esperienze socialistiche dichiarano
ancora che tutto il mondo è socialista, sono gente senza idee, o sono semplici
procacciatori di voti. Bisogna escluderli dall’onore di fare parte del blocco
anticomunista. Non si può combattere il comunismo es eddere disposti ad ogni
sorta di socializzazioni, statizzazioni, controlli e simiglianti pesti. Coloro,
i quali hanno paura di essere detti “nemici del popolo o del proletariato” e
son pronti ad ogni sciocchezza, si dichiarino apertamente socialisti.
Provvederanno meglio alla propria dignità e coerenza. Noi non abbiamo bisogno
di noverare nelle nostre file siffatti amici del popolo. I quali, alla pari e
forse peggio dei comunisti, ne sono i veri nemici.» In una parola occorreva essere solo
«liberali» (op. cit. pag. 118 e segg.
Articolo del 17 aprile 1921); cioè «L’unica
nota veramente distintiva del blocco anticomunista è sempre quella di
“liberale”. Questa sì è una qualità che né socialisti né comunisti possono far
propria. Liberalismo e socialismo sono due concetti contraddittori. Lungo tutti
i secoli della storia sempre il concetto della libertà fu in guerra aperta con
concetto della tirannia - e socialismo e comunismo altro non sono che
asservimento completo dell’uomo alla collettività [ ....]». L’astuzia di
Giolitti che quelle premature elezioni del 1921 volle finì male, come ben si sa
per doverla qui commentare. Quel blocco “liberale” apriva irrimediabilmente la
porta al fascismo della dittatura. Proprio quella dittatura che l’Einaudi non
voleva (op. cit. pag. 766 e segg.).
Ma siamo già all’8agosto 1922. Troppo tardi.
Cert,
a questo punto Einaudi è in grado di fornire una perspicua fotografia dei
tempi, anche se ancora scarsamente previggente. Val la pena di riprodurla per
ampi stralci.
«Lo spettacolo di incapacità offerto dal parlamento e dal governo, le
agitazioni continue, la guerriglia civile fra partiti ed organizzazioni armate
hanno avuto, fra gli altri disgraziati effetti, quello di aver reso popolare in
una parte notevole dell’opinione pubblica una parola: “dittatura”. Si parla da
molti oggi dittatura come della sola via di salvezza dal disordine e dalla
crisi profonda che attraversiamo. Gli uominiai mali di cui soffrono vogliono
trovare un rimedio semplice, preciso, definitivo. Il governo dei molti, il
governo dei partiti, il governo dei chiacchieroni e degli ambiziosi di Montecitorio
appare una cosa talmente disgustevole, vana, impotente che a poco a poco l’idea
della dittatura ha finito per perdere quella nebbia di terrore e di tirannia da
cui era circondata. Si crede che l’uomo forte, che l’uomo sapiente saprà trarre
il paese dall’orlo della rovina. Mettiamo al posto di quindici ministri
provenienti da parti politiche opposte, neutralizzandosi gli uni gli altri,
alla mercè continua di un voto politico incerto, impotenti a concepire
qualunque piano d’avvenire e più ad attuarlo, costretti a render favori agli
elettori ed agli eletti per trascinare innanzi la loro vita quotidiana;
mettiamo al posto di questa parvenza di governo un uomo solo, fornito di poteri
illimitatiper un tempo limitato, il quale possa e sappia porsi una meta, il
quale sia libero di scegliere a suoi collaboratori i migliori tecnici nei vari
rami di governo e noi saremo in grado di arrestarci sulla china spaventevole
lungo la quale precipitiamo verso l’anarchia.
«Contro questa tesi non non torniamo a citare la vecchia sentenza di
Cavour: la peggiore delle camere essere preferibile alla migliore delel
anticamere:; noi non diremo ancora una volta che la dittatura è il rimedio
degli impotenti e degli incapaci. Noi non ricorderemo che l’esperienza
contemporanea è tutta contraria ai governi addoluti e dittatoriali [..]
«Lasciamo pure da parte le massime dettate dall’esperienza ed i
precedenti e gli esempi stranieri. Chiediamoci soltanto: dove sono gli uomini
capaci di essere i dittatori dell’Italia contemporanea? Per quale ragione non
si sono fatti innanzi così da accogliere intorno a sé il consenso dell’opinione
pubblica? Degli uomini chiamati negli
ultimi tempi a capo della politica italiana alcuni sono a mala pena
considerati degni di essere presidenti costituzionali di un consiglio; intorno
a nessuno di essi esiste tale favore di pubblico, non diciamo parlamentare, da
farli ritenere capaci di governare il paese con poteri dittatoriali. Possibile
che, se esistesse, l’uomo superiore, il Napoleone, poiché a questo si pensa
quando si parla di un dittatore capace di salvare il paese, non si sarebbe
fatto in qualche modo conoscere? E se c’è, ma non è conosciuto come tale, quale
probabilità vi è che egli e non altro sia scelto?
« [..] Ridotta alla sua semplice espressione, la dittatura è una
qualche cosa che noi conosciamo molto bene, di cui abbiamo parlato molto male
fino a ieri: è il governo per mezzo di decreti-legge.
« [ ...]
« [ ...] Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi
insustriali disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale.
Essi non potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori.
Chi può immaginare quali stravaganze è capace di compiere un giovane audace e
fidente in sé, un uomo d’azione, un industriale abituato a decidersi
rapidamente da solo, quando si troverà dinanzi a problemi complessi e terribili
come il disavanzo, le imposte, il cambio, il latifondo, la giustizia? L’impulso
primo che viene dagli audaci è di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso
il giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai
direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10
lire e così via. [...]
«La verità è che la capacità e la pratica di governo non sono innate e
non si acquistano facendo grandi cose negli altri campi dell’attività umana. Orator fit; così l’uomo di governo si fa governando
gli uomini, discutendo con gli avversar, cercando di convincerli del loro
errore e rimanendo anche persuaso dagli avversari della necessità di mutare
parzialmente la propria strada. [...]
«Insistiamo oggi su queste considerazioni fondamentali perché le
vicende di questi giorni hanno avuto per effetto, come si diceva in principio,
di render popolare presso una parte del pubblico l’idea di forme più o meno
larvate di governo autocratico, e da molte parti si è parlato di spedizioni
fasciste su Roma per prendere possesso del potere, di colpi di stato, di
dittature o di direttori nazionali, e via dicendo. Lo stesso direttorio del partito
fascista si è affrettato a smentire una parte di queste chiacchiere, il che non
impedirà che certe fantasie continuino a correre basandosi sui «si dice»
immancabili nei momenti agitati come questo, e sulla riserva fatta dall’on.
Mussolini durante l’ultimo discorso alla camera circa la scelta che il partito
fascista si riservava di fare fra la legalità e l’insurrezione.
«Ora noi non vogliamo ammattere neppure per un momento che le voci
correnti possano corrispondere a reali propositi e che propositi di tal genere
possano trovare il consenso di coloro che hanno la responsabilità del movimento
fascista.
«Oggi i fascisti hanno ragione di credersi sorretti dalla pubblica
opinione; hanno probabilmente ragione di credere che la loro rappresentanza
parlamentare è assai inferiore al consenso che essi riscuotono nel paese.
Appunto per ciò essi non hanno nessun interesse ad imporre agli altri le loro
opinioni con l’ordine secco e perentorio, con la facile arma della dittatura.
Attraverso alla discusssione ed alle vie legali essi possono ottenere tutto. Un
parlamento di neutralisti diede durante la guerra il voto a Salandra ed a
gabinetti di guerra, perché esso sentiva che l’opinione pubblica era per la
guerra. Domani, il parlamento attuale darà il proprio voto ad un gabinetto in
cui entri come uomo rappresentativo il leader del fascismo ed in cui qualche
altro fascista sia a capo di dicasteri importanti ed il fascismo impronti di se
stesso e dei suoi ideali l’azione intiera del governo. Il paese è ora favorevole
ai fascisti perché essi hanno dato il colpo decisivo che lo ha salvato dalla
follia e dalla tirannia bolscevica. Ed è pronto a consentire ad essi per le vie
legali l’ascesa al potere quando essi dimostrino di essere atti ad esercitarlo.
Sinora sappiamo che essi hanno fervore d’azione, che essi amano intensamente la
nazione, che essi la vogliono salva dalle malattie distruttive; che essi
vogliono ridare a tutti i cittadini la libertà di vivere e di agire e di
pensare, fuori della mortificante cappa di piombo della tirannia socialista.
Per quanto essi hanno fatto per ridare tonalità al paese, per trarlofuori dal
brutto materialismo ventraiolo denigratore della guerra combattuta, della
vittoria ottenuta, dei valori spirituali della nostra stirpe, tutti siamo loro
grati.
«Ora si aprono ad essi le porte del potere, le vie dell’azione
immediata e diretta. Non più lotta per vincere, ma traduzione in atto dei
principii per cui si è vinto. Due vie si aprono a loro dinanzi: quella rapida
della dittatura, via brillante, senza avversari costretti alla fuga, senza
critiche dei giornali, soggetti a censura, con uomini fidi di governo, dotati
di poteri illimitati; e quella noiosa, fastidiosa, minuta della legalità
costituzionale, dinanzi ad un parlamento di scettici e di ambiziosi, attraverso
le lungaggini della procedura parlamentare, e sotto al maligno vaglio di
giornali avversari ed infidi.
«Ma la prima via, così attraente e promettente, conduce fatalmente alla
tirannia ed alla rovina del paese. Con un re devolto al suo giuramento di
fedeltà alla costituzione come è Vittorio Emanuele III, essa vuol dire
proclamazione della Repubblica; vuol dire l’inizio di un periodo convulsionario
di sperimenti politici, di contrasto fra le varie tendenze aristocratiche e
demagogiche a cui una nuova costituzione repubblicana potrà essere informata;
vuol dire necessità di giustificare ‘razionalmente’ i nuovi sistemi
costituzionali; vuol dire oscillare tra un governo di generali, un consiglio
dei dieci aristocratico od un consiglio di commissari socialisti. A che scopo,
quando non si vedono i generali ed i geni capaci di governare dittatorialmente
e quando i nostri comunisti sono goffe imitazioni di quei Lenin che, nonostante
il loro fanatismo, trassero la Russia alla morte?
«Quanto più gloriosa e feconda, agli occhi degli uomini amanti del
paese, è la seconda viadel rispetto alla costituzioneed alla legalità! La
costituzione e la monarchia valgono non per sé, ma come incarnazione di tre
quarti di secolo di vita nazionale e di un millennio di sforzi verso l’egemonia
e la formazione di uno stato unitario nella penisola italiana. In quest’ora
decisiva, tutti coloro i quali attribuiscono un pregio ai valori spirituali,
alla tradizione, alla continuità della storia nazionale, tutti coloro i quali
sentono che in politica le creazioni nuove non hanno probabilità di vita, ma
che ogni più audace novità può essere innestata nel vecchio tronco e suggere
dalla linfa di questo una vita assai più vigorosa e lunga di quanta possa
derivare dall’improvvisazione di dittature incapaci, devono contrastare
l’avvento della dittatura! [..]»
Einaudi
raggiunse quei livelli di «gratitudine» alle lotte politiche dei fascisti - se
essa fu sincera e non strumentale al suo regionamento - molto tardi, alla
vigilia della “marcia su Roma”. Prima aveva sottovalutato il fenomeno fascista.
In quel biennio, rarissimamente aveva accennato al fascismo sulle colonne del
Corriere della Sera. Il 14 gennaio 1922, polemizzando con i socialisti, aveva
accordato loro «causa vinta» «contro ai
casi singoli di violazione dei diritti degli operai, verificatisi
sporadicamente ad opera di qualche nucleo fascista.» A parte il lungo articolo
citato, sembra - a scorrere le cronache einaudiane di quel torno di tempo - che
non esista una questione fascista. L’articolo «per lo stato» del 4 novembre 1922 (op.cit.
pag. 926 e segg.), con tutta la sua dose di supponenza, con il suo tono
arrogantemente monitorio, sbuca fuori inopinato, arcano, inspegabile che non si
sapesse aliunde della capitolazione
del re di fronte agli ultimatum di
Mussolini del 28 ottobre. ([15]).
Ottusità della pur colta alta borghesia o miopia politica di un economista?
Sottovalutazione di un fenomeno di massa o marginalità effettiva della realtà
politica del partito fascista, prima della scelta di Vittorio Emanuele III,
improvvisa e sollecitata da gruppi di pressione (borghesia agraria, corpi
militari dello stato, etc.)? Domande cui non è dato qui dare ponderate
risposte, se non altro per economia di lavoro. Un approccio alla storia del
fascismo di tal fatta non pare, però, che sinora sia stato mai tentata. Quel
che anoi preme qui rimarcare è che se ad un osservatore del calibro di Einaudi
sfuggiva l’importanza del fascismo ante-marcia,
ben speigabile è che - come avverte Nolte - nelle plaghe sperdute di Sicilia (e
noi appuntiamo il nostro osservatorio su quelle di Racalmuto) non venisse
neppure percepita.
Attorno
al 1922, a Racalmuto premeva in sommo grado la questione della crisi
finanziaria del settore zolfifero.
Nel
settembre del 1922 una commissione degli
esercenti le miniere di zolfo della Sicilia si era recata a Roma per premere al
fine di ottenere un decreto-legge autorizzante l’emissione di obbligazioni per
120 milioni di lire garantite dallo stato. Vagava tra la camera ed il senato un
disegno di legge in tal senso. A dire il vero la camera l’aveva approvato, ma
il senato ancora no, per via della crisi ministeriale. Si cercava, con il
decreto-legge, di ovviare al pericolo che la legge naufragasse in quel bailamme
parlamentare. Pronubo il sottosegretario Lo Piano.
La
crisi zolfifera era allo stremo. La concorrenza degli Stati Uniti era stata
micidiale. Solo che con la guerra, si era estratto zolfo a prezzi politici. Si
era costituito il «consorzio obbligatorio per l’industria zolfifera siciliana» al quale il produttore
era obbligato di consegnare il minerale
estratto. Il consorzio, aveva accumulato uno stock di zolfo invenduto. Al 30
aprile del 1922 erano giacenti nei magazzini consortili 270.000 tonnellate di
zolfo. Su tale quantitativo le banche avevano anticipato 85 milioni di lire e
si rifiutavano di accordare altre anticipazioni sullo zolfo che frattanto si
era continuato a produrre. Si profilava un blocco nella produzione dello zolfo.
Gli industriali chiedavo di togliere - con l’emissione obbligazionaria - di
togliere lo stock dalla circolazione e di rendere quindi possibile la immediata
vendita della nuova produzione. ([16])
Einaudi
era sferzante ed irriducibile: «Chi ha stock da vendere, - rintuzzava (pag.
887) - si arrangi. Può darsi che il
modo migliore di arrangiarsi sia di accantonare lo stock, facendo un’operazione
con istituti bancari, nella speranza di poterlo vendere in tempi migliori. E’
accaduto parecchie volte che l’operazione è riuscita bene. Riuscirà tanto meglio,
quanto meno lo stato ci ficcherà dentro il naso. [...] Ma - si obietta - il consorzio fu creato dallo
stato; i prezzi li fissa il consorzio, col consenso del governo. Quindi il
governo o mantenga le sue promesse o sciolga il consorzio. Parliamoci chiaro. A
chi vuol dare ad intendere l’ing. Raverta questa solennissima bubbola che il
governo osi sciogliere di sua iniziativa il consorzio solfifero? Il consorzio
rimarrà finché lo vogliono deputati, rappresentanze, industriali solfatai
siciliani. Essi lo hanno creato ed essi lo vogliono. Il resto d’Italia non ci
ha messo bocca e non osa metterci bocca,
per timore di far cosa spiacevole ai siciliani. E’ uno di quei casi di leggi,
in cui deputati e senatori delle altre regioni hanno ritegno di parlare, temendo,
se parlano contro, di suscitare delicate recriminazioni regionali. Tutta la
responsabilità del cosiddetto ‘governo’ è qui: nel non avere osato, se aveva
un’opinione contraria al consorzio, di farla valere per timore di dire o di
fare cosa spiacevole ai siciliani. Se ora questi si persuadono, e sarebbe
tempo, che il consorzio è stato un errore, che la sua esistenza nuoce alla
Sicilia, ed è una minaccia all’industria solfifera, lo dicano chiaro e netto; e
lo dicano tutti. Troveranno governo e parlamento disposti a mandare a carte
quarantotto un esperimento tollerato solo per reverenza al volere che sembrava
unanime di quella grande e patriottica e nobile regione.»
Quel
numero del Corriere della Sera sarà
arrivato a Racalmuto e letto dagli interessati. Einaudi era anche senatore.
Sarà stato considerato alla stregua del nostro Bossi. Negli ambienti degli
esercenti sarà corso un brivido; forse una fibrillazione. Intanto saliva al
potere quel Mussolini di cui si era appena sentito dire. A lui si guardò certo
con acuto interesse in quel di Racalmuto, più in speranzosa attesa che con
timore politico. Il «liberismo» di Einaudi non era proprio un’appetibile scelta
politica!
Lo
storico locale E.N. Messana (op. cit. pag. 358) retrodata sentimenti
antifascisti del dopoguerra con evidente falsificazione della realtà, quando
storicizza le sue personali fantasie sul tiennio racalmutese 1919-1922. «A
Milano intanto, - annota - nel marzo dello stesso anno [1919], fu fondato il
fascio di combattimento. La borghesia e specialmente i capitalisti presero
respiro di quella forza antirivoluzionaria e violenta che subito cominciò a
bravacciare nelle città e nei comuni. A Racalmuto, il partito nazionalista, di
già menzionato, aveva accampato le pretese di rappresentare la conservazione
contro la evoluzione affiorante, sebbene con metodi inesperti e puerili. Le
notizie dei fasci e dello squadrismo si raccontavano al circolo Unione ed al
circolo degli Amici. Qualche do’
esultava a quelle nuove e non nascondeva il desiderio che anche a Racalmuto
venissero i prodi in camicia nera a bastonare gli zolfatai e i contadini.» Ma
la questione - come vedremo in seguito - era ben altra, più complessa e più gravida di conseguenze sociali.
Il
biennio 1923-1924 è denso di avventimenti che sicuramente moficano lo scenario
nazionale: è però erroneo ritenere che si apra una parentesi destinata a
chiursi a conclusione della guerra, adottando il criterio interpretativo del
Croce. La storia non procede per salti. Solo alcuni processi modificativi hanno
sussulti di accelerazione. E la consegna dei pieni poteri a Mussolini alla fine
del 1922 è una di queste fase. Peculiare diventa l’acquisizione di una
sensibilità delle masse in senso nazionale che, sicuramente prima difettava,
specie in Sicilia.
Per
il pensiero ufficiale del fascismo del tempo si iniziava una Rivoluzione; ma è da credere allo stesso
Mussolini se nel drammatico discorso al Senato del 1924 precisava: «all’indomani della Rivoluzione, io mi trovai
di fronte a questo quesito: creare una nuova legalità o innestare la
Rivoluzione nel tronco, che io non
ritenevo affatto esausto, della vecchia legalità? Fuori la Costituzione o
dentro la Costituzione? Io scelsi e dissi; dentro la Costituzione. Questo vi
spiega la composizione del mio primo Ministero, e vi spiega la serie dei
successivi atti politici». Il 12 giugno del 1924, in un altro discorso al
Senato, Mussolini aveva ancor più puntualmente aveva ben raffigurato questo
processo di «normalizzazione costituzionale» del primo fascismo: «Si trattava di
riassorbire la illegalità nella Costituzione ... di rimettere grado a grado ...
nell’alveo della legalità la vasta fiumana che aveva rovesciato gli argini.
[...] Chiamai al governo uomini di tutti i partiti. Riapersi il Parlamento, e
ne ebbi, dopo regolari discussioni, i pieni poteri. Affrontai e risolsi di lì a
poche settimane il problema gravissimo degli squadristi. Ho esercitato i pieni
poteri per un anno. Potevo chiedere la proroga ... Vi rinunciai. Non avevo
proposte leggi eccezionali e mi proponevo di fare un altro passo innanzi sulla
strada della legalità .... Sciolta regolarmente la Camera, furono nei termini
prescritti dalla legge, indetti i comizi
elettorali. La lista nazionale ha raccolto circa 4 milioni ottocentomila voti
... Ottenuto il suffragio del popolo, le necessità della politica interna si
delinearono ancor più chiaramente nel mio spirito, precisate in questi
capisaldi fondamentali:
«1°
far funzionare regolarmente l’istituto parlamentare come organo del potere
legislativo ...; 2°) regolare dal punto di vista della Costituzione la
situazione della Milizia Volontaria; 3°) reprimere i superstiti illegalismi del
Partito; 4°) chiamare all’opera di ricostruzione tutte le forze vive della
Nazione ... Tutte le mie manifestazioni politiche dal 6 aprile in poi tendono a
questa mèta: ad accelerare l’entrata definitiva del Fascismo nell’orbita della
Costituzione». E ritornando al discorso al Senato del 5 dicembre, Mussolini,
alla domanda rivolta a se stesso: «Da allora ad oggi c’è stato o non c’è stato
un processo di riassorbimento della Rivoluzione nella Costituzione?», affermava
«Rispondo nettamente: c’è stato: faticoso, lento, difficile, ma c’è stato ...».
([17])
Siamo
propensi a credere che - ad onta delle autorevoli affermazioni del Valiani e
del Ragioneieri ([18])
- ben diverso sarebbe stato il corso della storia nazionale se non ci fosse
stato il delitto Matteotti (10 agosto 1924) e l’irrigidimento aventiniano. Ciò
- s’intende - tenendo presente che la storia non ammette ipotesi.
Come
veniva ricostruita quella tragica crisi seguita al delitto Matteotti,
all’interno del fascismo coevo? Stralciamo dallo studio dell’Ercole ([19]) i seguenti passaggi:
«Mussolini
pareva esser riuscito ... «a ristabilire
i termini necessari di quella convivenza politica e civile che è più necessaria
fra le parti opposte della Camera ...» (V, p. 10),»; eppure «”mentre nel Paese si era diffusa la
sensazione che un nuovo periodo di tranquillità e di pace stava per iniziarsi
[si aveva] l’episodio tragico, che è costata la vita all’on. Matteotti” (IV, 24 giugno al Senato p. 195). Quella sciagurata beffa del giugno, come Egli
la chiamerà in Gerarchia, in uno
articolo scritto alla fine di ottobre ‘25,
“diventa orribile tragedia indipendentemente, anzi contro la volontà degli
autori”, la quale determinerà nello sviluppo della Rivoluzione la “sosta di un semestre” (v. Elementi di storia in Gerarchia, p. 179)»
«Perché
dal delitto Matteotti le opposizioni credettero subito di poter trarre il
pretesto per tentare di “annullare tutto
quello che significa, dal punto di vista morale e politico, il Regime che è
uscito dalla Rivoluzione dell’ottobre” (IV, 25 giugno 1924, alla
maggioranza parlamentare, p. 207), inscenando la secessione parlamentare
cosidetta dell’Aventino e abusando di una persistente eccessiva libertà di
parola e di stampa, per chiedere, e per proprio conto iniziare, il processo al regime,
alla Marcia su Roma e alla Rivoluzione
... (‘il Regime non si fa processare se non dalla storia ‘.. (IV, 22 luglio
‘24: al Gran Consiglio, p. 214, e v. anche 7 agosto ‘24: al Consiglio Nazionale
del Partito, p. 242), in nome di una pretesa normalizzazione, dietro cui non si nascondeva che la speranza di
potere agganciare Mussolini, isolare materialmente e moralmente, disarmandolo,
il Fascismo e i Fascisti nel Paese, creare una situazione tale da permettere il
ritorno alla paralisi parlamentare,
sbarazzarsi del Governo fascista con un semplice voto di maggioranza della
Camera dei Deputati: come se il Fascismo fosse
arrivato al potere per la via ordinaria, e questo gli fosse stato dato
da un ordine del giorno: come, cioè, se esso potesse considerarsi “alla stregua di tutti i Partiti e
considerare il Parlamento come l’unico ambiente, nel quale tutte le situazioni
politiche di una Nazione in momenti eccezionali potessero trovare la loro
soluzione ordinaria e regolare” (IV, all’Associazione Costituzionale di
Milano, 4 ottobre ‘24, p. 290).»
«Alla
quale speranza Mussolini darà la definitiva risposta, parlando il 29 ottobre
1924, al Popolo di Cremona:
«”Noi siamo qui a dire che .. non siamo dei
vanitosi e nemmeno dei prepotenti, ma siamo dei soldati fedeli alla consegna, e
la consegna ci è stata data dal Re e dalla Nazione. Solo al Re, solo alla
Nazione noi dobbiamo rendere atto del nostro operato; non a coloro, che ad ogni
gesto, ad ogni provvedimento, ad ogni legge, vorrebbero intentarci il loro
ridicolo processo, mentre sono gli esclusie i condannati dalla nuova storia” (IV, p. 335): onde la dichiarazionedel 5
dicembre in Senato: ... “Si è detto: voi
voleterestare al potere ad ogni costo. Non è vero. Nella grande piazza di
Cremona, ad una moltitudine immensa di Popolo, ho detto che riconoscevo i
diritti della Nazione e i diritti imprescrittibili di Sua Maestà il Re. Se Sua
Maestà al termine di questa seduta mi chiamasse e mi dicesse che bisogna
andarsene, mi metterei sull’attenti, farei il saluto militare e obbedirei. Dico
Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III di Savoia; ma, quando si tratta di Sua
Maestà il Corriere della Sera, allora
no” (IV, p. 411).»
«[
...] “La maggioranza cominciò a perdere
alcuni dei suoi elementi in margine:
liberali, democratici, combattenti. Credo che nella seduta del 16 dicembre - la
seduta di tre ex-presidenti - questo processo di erosione ai margini abbia
toccato il punto estremo” (V, Elogio
ai gregari, p. 23)».
Il
tentativo parlamentare di far crollare il fascismo non ebbe successo «perché
dall’altra parte stava il Fascismo “con i
suoi ottomila grusppi in ogni angolo d’Italia, con le sue forze politiche,
sindacali, amministrative, sempre imponenti”: il Fascismo che era stato “percosso, non abbattuto”, e a cui il
colpo aveva finito per giovare, facendogli perdere “le scorie funeste” (IV, p. 197). [..] “Se il Regime rapidamente potè
essere in grado di sferrare il contrattacco - il che avvenne il 3 gennaio di
quell’anno (1925) - il merito -- va alle masse rurali del Fascismo, che non si
sbandarono, a me, che rimasi tranquillo al mio posto nell’imperversare delle
molte bufere, e al Popolo italiano, che non fu dimentico del passato e non
disperò dell’avvenire” (V, Elementi di Storia, p. 179).»
Non
crediamo che fra quelle “masse rurali” era da includere il ceto contadino
racalmutese. Nulla ce lo lascia intravedere. E’, però, certo che agrari locali,
esercenti delle miniere di zolfo racalmutese, gabellotti, contadini e
braccianti ed il piccolo ceto dell’infima borghesia di Racalmuto ebbero modo di
disaffezionarsi ai loro referenti politici sia della Democrazia Sociale di
Guarino Amella e Colonna di Cesarò, sia allo stesso partito
democratico-riformista di Enrico La Laggia, cui ultimamente aveva aderito una
frangia degli ottimati racalmutesi. Mussolini parlava dell’ «Aventino» quale epicedio dello stato demo-liberale. Non cìera cultura greca a
Racalmuto bastevole per apprezzare l’immagine classica. Vi era molto buon senso
(ed pressanti interessi del quotidiano) per dissentire dai loro deputati eletti nel listone “nazionale” del 1924 che ora
facevano l’«Aventino». In definitiva, nepppure Gramsci mostra di apprezzare
questi rappresentanti degli agrari siciliani con i quali, inopinatamente, si
trovava in sodalizio.
«Ho
visto in faccia la “piccola borghesia “ con tutti i suoi tipici caratteri di
classe - scriveva Gramsci alla moglie il 22 giugno 1924 commentando i primi
lavori dell’Aventino ([20]).
- La parte più ributtante di essa era costituita dai popolari e dai riformisti
(per non parlare dei massimalisti, povera gente di cascia andata a male; i più
simpatici erano Amendolae il generale Bencivenga dell’opposizione
costituzionale che si dichiaravano favorevoli in principio alla lotta armata e
disposti anche (almeno a parole) a porsi agli ordini dei comunisti, se questi
fossero in grado di organizzare un esercito contro il fascismo. Un deputato
democratico-sociale (è questo un partito siciliano che unisce latifondisti e
contadini) che è duca Colonna di
Cesarò, ministro di Mussolini fino al mese di marzo, dichiarò di essere più
rivoluzionario di me perché fa la propaganda del terrore individuale contro il
fascismo. Tutti, naturalmente, contrari allo sciopero generale da me proposto e
all’appello alle masse proletarie ... ».
Colonna
di Cesarò - è certo - non riuscì a propagandare “il terrore individuale contro
il fascismo”, a Racalmuto. I locali suoi aderenti dovettero disorientarsi non
poco: già amavano molto poco i blandi socialisti racalmutesi agli ordini
dell’avv. Vella; figuriamoci se potevano dare credito a chi osava associarsi
con i bolscevichi del 1921.
A
livello locale il problema centrale restava sempre quello dei finanziamenti per
lo zolfo invenduto. La faccenda del 1922 veniva ricordata ancora. I più avvertiti avevano l’odiato senatore
Einaudi per quello che scriveva allora sulle colonne del Corriere della Sera.
Il governo di Mussolini diede quel decreto invocato sotto Facta (D.L.n. 202
dell’11/1/1923). Nel nuovo corso fascista si potevano dunque riporre attese
meridionalistiche e di intervento statale. Tra le varie provvidenze del
decreto, lo stato garantiva lo smaltimento a prezzi remunerativi dello stock e
si impegnava nel finanziamento del Consorzio, ma su obbligazioni dell’ente
garantite sugli esercizi futuri. «Insomma
- scrive Salvatore Lupo [21]-
a pagare sarebbe stata la futura produzione». Vi era - è vero - chi come Carlo
Sarauw, forse per opposto interesse, aveva di che ridire su quanto si riusciva
a conbiare in provincia di Agrigento e di Caltanissetta. «Io posso spiegarmi
che un’accolta di maffiosi ignoranti delle province di Girgenti e di
Caltanissetta abbia potuto premere a Palermo sull’amministrazione del Consorzio
[...] ma non posso ammettere che essa potesse allungare i suoi tentacoli fino a
Roma o piegasse il Governo alle direttive di quegli organi del Consorzio che
subivano la sua azione». ([22])
In quel di Racalmuto, ove gli interessi zolfiferi passavano trasversalmente per
tutti i ceti sociali, vi fu soddisfazione per il provvedimento mussoliniano del
gennaio 1923 ed iniziava quel consenso che dopo il 1926 si consoliderà
penetrantemente, in profondità, in maniera totalizzante. Le bizze dell’Aventino dei propri deputati
dovettero apparire atteggiamenti incomprensibili, sospetti, fedifraghi, da non
approvare, da rimuovere.
Il
delitto Matteotti, invero, non lasciò indifferente l’intera comunità civica
racalmutese. Se dobbiamo credere a E.N. Messana, il socialista Vella si diede
da fare: «Fu lui - scrive il Messana ([23])
- che in seguito all’uccisione di Giacomo Matteotti si presentò con la
guantiera a raccogliere il contributo per la corona. Entrò nel salone di
Salvatore Rizzo, Paparanni, e là Luigi Scimè, giovane figlio del Dr.
Nicolò, gli diede L. 0,50, altri uguale cifra o meno. Contribuirono molti
racalmutesi, oltre i summenzionati si ricordano il comm. Giuseppe Bartolotta
consigliere provinciale in carica, il sindaco Scimè, Pio Messana, Salvatore
Falcone, Calogero Mattina fu Gaetano, Carmelo Schillaci Ventura, Giuseppe
Cutaia, i fratelli Luigi e Giuseppe Lo Bue. Questi furono segnati a dito e
perseguitati dal fascismo. Luigi Scimè, ufficiale effettivo dell’esercito, non
avanzò più di grado.»
L’emozione
per l’efferato delitto dovette essere una momentanea reazione, non coinvolgente
la stima verso Mussolini. Questo, almeno a Racalmuto. A più ampio raggio, ancor
oggi non crediamo che sia stata stabilita la verità storica. Troppi
risentimenti, molti condizionamenti ideologici. A distanza di settant’anni, in
riviste storiche pur autorevoli, la vicenda Matteotti viene così rievocata,
passionalmente, con evidenti pregiudizi di valore:
«Giacomo Matteotti - leggesi nell’editoriale del n. 1-2 del 1994
di Storia e Civiltà ( [24])
- segretario del partito socialista unitario, capo - con Giovanni Amendola -
dell’opposizione al fascismo, [..] mentre dalla sua abitazione, per il
lungotevere Arnaldo da Brescia, si dirigeva, attorno alle 16, verso il
Parlamento, era sequestrato, costretto a entrare in un’automobile ed, essendosi
difeso, ucciso. [Fu] uno dei più esecrandi delitti che la storia ricordi. [AM1][Ad eseguirlo, c’erano] una
brutale figura di squadrista toscano, Amerigo Dumini e suoi quattro complici.
«Come sarebbe emerso, dal
memoriale Rossi, e da altre ammissioni, se anche Mussolini non era stato il diretto mandante, vi aveva
dato il suo tacito consenso. La commozione popolare fu così profonda, che
avrebbe dovuto avere per sbocco, con quale vantaggio per l’Italia è inutile
dire, l’immediato tracollo del fascismo. Mancò una forza organizzata a dirigere
la rivolta. Non vi fu, da parte della Monarchia, come nel ‘22, la coscienza del
dovere. Al governo venne lasciato il modo, con pochi ritocchi alla sua
compagine, di sopravvivere, e al fascismo di consolidarsi, più per l’altrui
debolezza che per virtù propria, profittando anzi dell’irrimediabile errore
delle opposizioni, di astenersi dalla presenza in Parlamento (l’«Aventino»),
che avrebbe consentito, nel gennaio ‘26, di farne deliberare la decadenza. Non
mancò la “trahison des clercs”, in
un’ora straordinariamente feconda per la cultura: e Giovanni Gentile, pur
surrogato come ministro dell’istruzione, ad assicurarsi maggior potere, si
assunse la responsabilità d’un manifesto degli intellettuali a favore del
fascismo, cui, con un numero minore di firme, se ne sarebbe contrapposto un
altro, redatto dal Croce.
«[Il processo venne
trasferito] alla lontana e più tranquilla Chieti, [e si ebbe] l’arrogante
difesa di Farinacci (cui si consentì di dichiarare di assumerla “prima come
segretario del partito, e poi come avvocato” e che il processo non si sarebbe
fatto “né al regime né al partito”). Esclusa dalla stessa pubblica accusa, la
premeditazione ed ammessa la preterintenzionalità, la sentenza, del 24 marzo 1925, condannava solo tre degli
imputati a cinque anni, undici mesi e venti giorni, che, col condono di ben
quattro anni per una opportuna amnistia, e tenuto conto della carcerazione
preventiva, li rendeva, di fatto, liberi.»
[1]) Archivio Centrale
dello Stato - Casellario Politico
Centrale - busta n.° 5344 - fascicolo n.°
16434.
[2]) Ernst Nolte - I tre volti del
fascismo - Oscar Mondadori 1978 - pp. 252-254.
[3]) Tra i tanti includiamo
l’opera del Ragionieri che abbiamo già citata.
[4]) Valga per tutti il lavoro
prima richiamato di Francesco Ercole.
[5]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pp. 344-5.
[6]) ibidem, pag. 345.
[7]) Malgrado tutto - periodico
cittadino di Racalmuto - maggio 1993 Anno XII n.°2, pag. 3.
[8])
Archivio Centrale dello Stato - Casellario Politico Centrale (C.P.C.) - Busta
n.° 5342 - fasc. N.° 4621 intestato a Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta
Pedalino, nato a Racalmuto il 24.3.1908.
[9]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista - Ciuni
Editore Palermo 1936, pag. 82
[10]) ibidem pag. 83 e pag. 84.
[11]) E. Nolte, op. cit., pag. 266.
[12]) Paradigmatiche ci
appaiono in tal senso le pagine del Nolte: pagg. 266-302.
[13]) op. cit., passim, ma in particolare pag. 2111 e ss.
[14]) Luigi Einaudi - Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925) - VI (1921-1922) - Giulio Einaudi
Editore 1963 - pag. 14. (Articolo sul
Corriere della Sera del 25 gennaio 1921).
[15]) Per la cronaca puntuale
dei fatti, valgano le pagine, magari giornalistiche, di Antonio Spinosa - Vittorio
Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990
[16])
Illuminante al riguardo la polemica dell’Einaudi con il siciliano ing. Raverta sul Corriere
della Sera in data 13 ottobre 1922 op. cit. pagg. 881-888, a seguito
dell’articolo del 10 settembre (op. cit.
pag. 824 e segg.)
[17])
cit. in ERCOLE, op. cit. pag. 206
e segg.
[18]) Cfr. Nota n.° 7.
[19]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista - Ciuni
Editore Palermo 1936, pag. 234 e segg.
[20]) 2000
pagine di Gramsci, vol. II:
Lettere edite e inedite 1912-1937, a cura di G. Ferrara e N. Gallo, Milano
1964, p. 45.
[21]) Salvatore Lupo, La crisi del monopolio naturale. Dal Consorzio obbligatorio all’Ente
Zolfi, in Economia e società nell’area dello zolfo
- secoli XIX-XX - Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 1989,
pag. 354.
[22])
Lettera ad A. Di Nola in Archivio
Carnazza, fasc. 28, III 37, busta “C” ;
Industria zolfifera e legge mineraria. Cit. in Lupo, op. cit. pag. 354.
[23]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - p. 234.
[24])
Editoriale “Il delitto Matteotti” di Storia
e Civiltà - gennaio-giugno 1994 - Edizione del Lavoro - Roma - a. X, n. 1-2
- a firma P.F.P. (Pier Fausto Palumbo, direttore responsabile), pag.
7-9.
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