DOPO I DEL
CARRETTO
E in un
atto del 6 marzo del 1736 si raccontano le peripezie della vedova di don Giuseppe
del Carretto, donna Brigida Schettini, alle prese con la curia nel tentativo di
rinviare gli esborsi per l’investitura della contea di Racalmuto, cadutale
addosso dopo la morte del suocero don Girolamo del Carretto.
Brigida Schittini
Il lungo tedioso documento vale solo per renderci edotti sul fatto che nel lontano 1709 Paola Macaluso ebbe a prestare poche onze (si parla del reddito su 32 onze) alla vedova di don Giuseppe del Carretto, donna Brigida Schettini. La vedova lasciò insoluti i suoi debiti. Nel 1736, subito dopo l’avvento di Carlo IV [VII] di Borbone (15 maggio 1734 - ag. 1759), Paola Macaluso, personaggio non meglio identificato, riattizza un processo civile - insufflata evidentemente dal duca Luigi Gaetani - pretendendo nientemeno la contea di Racalmuto a ristoro del antico modico prestito, che però si era rigonfiato per interessi di mora e per ammennicoli. Le sequenze processuali sono bene ricostruite in un documento del Fondo di Palagonia: sono dettagli che possono interessare solo studiosi di diritto civile nel Settecento siciliano.
Paola Macaluso
Paola Macaluso la spunta sul piano processuale, ma non sa che farsene dell’assegnata contea di Racalmuto. Allora candidamente dichiara di avere agito in nome e per conto del duca Gaetani.
Luigi Gaetani
In tal modo il duca Luigi Gaetani viene in possesso di Racalmuto (titolo e feudi) in data 12 aprile 1736. Come si disse, don Luigi Gaetani non si aspettava una situazione così deteriorata come quella che rinviene in questa sua usurpata conea.
Cerca innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Si dichiara “mosso da pietà per i suoi vassalli” ma le due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata le vuole tutte. Siamo nel 1738 ed una controversia sorge con tutti i crismi (e con tutti i costi).
Trova pretermessi i suoi diritti di terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani è costretto a sollevare un costoso incidente processuale. Estrapoliamo queste note di cronaca.
Il duca
Gaetani si vanta di essersi accontentato della metà di quanto dovuto per
terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit). Ma ecco che i benedettini avanzano strane
pretese: vantano un esonero del 16 settembre del 1711. Ciò però non è
accettabile per una serie di ragioni giuridiche che gli abili legulei del duca
dipanano da par loro. Ecco scattare un’altra occasione di lite giudiziaria.
Siamo nel 1739.
Il 22
giugno 1741 i benedettini sono soccombenti. Le spese vengono compensate. Le
faccende racalmutesi, comunque, non sono
davvero prospere: il bilancio è deficitario.
Araldica racalmutese dopo i del Carretto
Non è
agevole far collimare quello che emerge dalla documentazione Palagonia con
quanto asserisce il Villabianca (che in ogni caso appare minuziosamente
informato).
L’arcigno
marchese ha così infatti sunteggiato il trambusto della successione della
contea di Racalmuto dai del Carretto ai Gaetani:
«estinti essi [del Carretto] in PALERMO colla
morte dell'ultimo Principe GIUSEPPE del
CARRETTO e LANZA, passa[..] detta contea nelle mani della di lui vedova BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI, che jure
crediti, delle sue doti aggiudicossela investendosene a 10. Luglio 1716.
Se ne vede oggi investita sin dal 1747. del dì
16.Marzo la vivente Principessa di Palagonia GRAVINA Maria Gioachina GAETANI e BUGLIO, e C. di Ragalmuto, la di cui invest. per detto Stato cadde a 7.
Agosto 1735., e del titolo di essa a 12. Aprile 1736.»
Fu sua
moglie[di Giuseppe del Carretto] BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI figlia di
Gio: Battista primo M. di S. ELIA, la
quale per il credito della sua dote avvalorato da una sentenza proferita dalla
R. G. Corte nel 1711. pigliò possesso di questo Stato, e insieme di questo
Titolo a 10. luglio 1716. Venendo essa a morte succedette in questi feudi sua sorella
OLIVA SCHITTINI e GALLETTI maritata
a Giacomo P. Lanza, il di cui figlio
ANTONINO
LANZA e SCHITTINI se ne
investì a 26. Agosto 1739. Questi vive attuale P. Ventimiglia, P. Lanza, B.
dello Stato di Calamigna, etc.. »
Abbiamo
visto che il duca Gaetani era riuscito sin dal 1736 a divenire conte di
Racalmuto. Evidentemente il marchese di Villabianca non ne era ancora a
conoscenza quando scrisse sui Ventimiglia; lo era invece allorché pose mano al
volume sui del Carretto.
Più preciso
ci pare il San Martino de Spucches - che pure fu un diligente chiosatore del
Villabianca - e noi ne riportiamo qui le pagine sui successori dei del
Carretto:
Brigida
SCHITTINI GALLETTI, prese
investitura della Contea, Terra e Castello di Racalmuto, a 10 luglio 1716, per
la morte di Girolamo del Carretto, suo suocero ed in forza di rivendica delle
sue doti riconosciuta con sentenza resa dal Tribunale della Gran Corte (R. Cancell. IX Indiz. f. 98). Questa
Dama morendo lasciò erede dei suoi beni Olivia, sua sorella, moglie del P.pe Giacomo LANZA.
Lo Stato comprendente la Baronia, Terra e Castello di
Racalmuto, passò a Luigi Gaetano, Duca
di Valverde, che s'investì come aggiudicatario di essi beni. (R. Canc. X
Ind., f. 75). A 12 aprile
dell'anno 1736 s'investì del titolo di conte Luigi Gaetano, duca di Val verde;
egli successe come nominatario di Paola MACALUSO; questa, a sua volta, l'aveva
acquistato all'asta pubblica da mani e potere di Brigida SCHITTINI e GALLETTI
(R. Canc., XIV Ind. f. 89).
Raffaela
GAETANO BUGLIO, duchessa di
Valverde, come tutrice di Maria Gioacchina GAETANO e BUGLIO, s'investì del
titolo di Conte di Racalmuto, a 16 marzo 1747, per le causali come di contro
(Conserv. vol. 1177, Inve.re figlio 21)
Raffaela GAETANO e BUGLIO s'investì della terra e
castello di Racalmuto, a 16 marzo 1747, come tutrice di Maria Gioacchina
GAETANO E BUGLIO, Duchessa di Valverde e C.ssa di Racalmuto; successe come
donatrice di Aloisio GAETANO SALONIA, C.te di RACALMUTO, in forza di atto in
Not. Giuseppe Buttafuoco di Palermo li 17 marzo 1742; e ciò con riserva di
usufrutto a favore del donante, durante sua vita. Quale morte si avverò in
Palermo. il 30 ottobre 1743, come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia
di S. Nicolò la Kalsa (Conserv., vol. 1167 Investiture f. 19 retro).
E qui
subentra in Racalmuto la potente famiglia dei Requesens. Secondo il San Martino
de Spucches abbiamo:
Giuseppe
Antonio REQUISENZ di Napoli,
P.pe di Pantelleria, s'investì, a 28 gennaio 1771, della Terra, Castello e
feudi di Racalmuto; successe in forze di sentenza pronunziata a suo favore dal
Tribunale del Concistoro e Giudici aggiunti, per voto segreto, contro Maria
Gioacchina GAETANO e BUGLIO, P.ssa di Palogonia, già c.ssa di Racalmuto; quale
sentenza porta la data 2 ottobre 1765 e fu pubblicata, in esecuzione degli
ordini del Re, da detto Tribunale li 20 giugno 1770 (Conserv. Reg. Invest. 1172
[o 1772?], f. 143, retro). [...] Detto
P.pe Francesco a sua volta, fu figlio del P.pe Antonino Requisenz e Morso e di Giuseppa del CARRETTO. Questa Dama fu
infine figlia del Conte di Racalmuto GIROLAMO di cui è parola di sopra al n. 4.
E' da questa discendenza che i signori REQUISENZ reclamarono ed ottennero i
beni tutti ereditari della famiglia del CARRETTO. Giuseppe sposò BRANCIFORTE e
BRANCIFORTE di Ercole, P.pe di Butera e della P.ssa Caterina Branciforte
Ventimiglia (ereditiera di Butera). (Dotali in Not. Leonardo di Miceli da
Palermo 8 febbraio 1744). [...]
Francesco
REQUISENZ e BRANCIFORTE s'investì
della contea e della terra di Racalmuto a 30 gennaio 1781; successe iure
proprio come figlio primogenito ed erede di Giuseppe Antonio suddetto, morto
intestato (Conserv. vol. 1175 f. 122). E' l'ultimo investito. Sposò Marianna
BONANNO BONOMI di Giuseppe, p.pe di Cattolica; matrimonio celebrato in Palermo
a 29 gennaro 1766.
Questo P.pe di Pantelleria e Conte di Racalmuto,
Francesco, ebbe tre maschi e cinque femmine.
a) GIUSEPPE
ANTONIO primogenito, già conte di Buscemi, successo alla morte del padre e
morto senza figli in Palermo; la salma fu sepolta ai Cappuccini;
b) MICHELE secondogenito
che sposò, di anni 42, in Palermo, Stefania GALLETTI, figlia di Nicolò GALLETTI
LA GRUA, P.pe di Fiumesalato e di Eleonora ONETO e GRAVINA (Sperlinga), già
vedova di Luigi NASELLI ALLIATA, primogenito di Baldassare, P.pe di Aragona. E
ciò in Palermo nella parrocchia di S. GIOVANNI dei TARTARI a 16 agosto 1814;
morì senza figli in Palermo a 6 febbraio 1834.
c) EMANUELE terzogenito,
che fu riconosciuto Cavaliere di Malta nel 1779 e fu Capitano nell'Esercito;
successe a tutti i titoli di famiglia. Morì in Palermo, a 25 marzo 1848, senza
figli.
La primogenita delle femmine del C.te Francesco si
chiamò CATERINA. Ella successe de
iure in tutti i titoli paterni. Era nata il 5 febbraio 1770. Sposò Antonio
Giuseppe REGGIO, P.pe della Catena, già vedovo di Maria Teresa VANNI. Questo
secondo matrimonio si celebrò in Palermo nella parrocchia di S. Giacomo la
Marina a 22 marzo 1794. Fu il p.pe Tesoriere generale del regno; Superiore
della compagnia della Carità in Palermo; Gran Croce dell'ordine costantiniano.
Antonia
REGGIO e REQUISENZ, fu C.ssa
di Racalmuto come figlia ed erede di Caterina, sua madre. Sposò questa nel 1823
Leopoldo GRIFEO, figlio ultimogenito
di Benedetto Maria GRIFEO del BOSCO, p.pe di Partanna e della
p.ssa Lucia MIGLIACCIO BORGIA, ereditiera Duchessa di Floridia. Era nato questi
a 17 agosto 1796; fu maggiordomo di Settimana e gentiluomo di Camera d'Entrata
nella corte di Napoli. Con sovrano decreto 11 ottobre 1823, il detto Leopoldo
fu insignito del titolo di conte. Morì il 1° agosto 1871. Da questo matrimonio
nacquero;
a) Benedetto
GRIFEO REGGIO, primogenito;
b) il C.te Giuseppe
GRIFEO REGGIO, morto celibe a Napoli;
c) la C.ssa Lucia
GRIFEO REGGIO di cui parleremo in seguito, morta a Napoli a 27 gennaio
1890.
Benedetto
GRIFEO REGGIO fu, de
jure, C.nte di Racalmuto alla morte di Antonia, sua madre; nacque nel 1824.
Sposò Eleonora STATELLA e BERIO dei P.pi di Cassaro. Morì a Napoli (Sezione di
CHIAIA) li9 maggio 1884. Fu P.pe di Pantelleria, Conte di Buscemi, ecc. ecc.
Leopoldo
GRIFEO STATELLA successe,
de jure, nel titolo suddetto, per la morte di Benedetto, suo padre; nacque li 3
giugno 1851; fu inoltre P.pe di Pantelleria, C.te di Buscemi. Sposò Maria
Francesca di LORENZO, da cui sono nate due figlie Eleonora primogenita e Lucia
secondogenita. Ebbe altresì questo conte una sorella chiamata Antonia GRIFEO
STATELLA che nacque li 3 luglio 1855; sposò li 4 febbraio 1886 il nobile
Alfonso TUFANELLI.
Francesco
D'AYALA VALVA GRIFEO fu
riconosciuto per rinnovazione con R. D. del 1900. Fu conte di Racalmuto e
nobile dei marchesi di Valva. Nacque primogenito a Napoli a 9 gennaio 1854,
dalla Contessa Lucia GRIFEO REGGIO (di
cui sopra è parola al numero 15 lettera c) e da Matteo AYALA VALVA, figlio del marchese Francesco Saverio. E' Cav.
del Sacro Militare Ordine Gerosolomitano. Non ha figli. Per i futuri chiamati
vedi l'annesso albero genealogico. Matteo
AYALA VALVA, nato in Taranto ai 30 Maggio 1818, dal marchese Francesco
Saverio e dalla Marchesa Caterina dei Duchi CAPECE PISCITELLI, prese la
carriera militare e pervenne al grado di colonnello di Cavalleria; sposò Lucia
GRIFEO dei Principi di Partanna, morta ai 27 gennaio 1890. [...]
N.B. - Dati
tratti da: La Storia dei Feudi e dei
titoli nobiliari di Sicilia dell'
Avv. Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - Vol. VII - Palermo Suola Tip.
"Boccone del Povero" 1929 - da quadro 783 "CONTE di
RACALMUTO" pagg. 181-188.
* *
*
Sciascia
rispolvera le sue giovanili letture del Tinebra Martorana; tiene presente anche
questa pagina araldica del S. Martino-De Spucches ed inventa un capitoletto del
suo Il Consiglio d’Egitto[2]:
«Don Gioacchino Requesens stava, tra
monsignore Airoldi e don Giuseppe Vella, ad ascoltare le mirabilie del
Consiglio di Sicilia.
«”E vi voglio leggere” disse ad un certo punto
monsignore “una cosa che vi farà piacere… Nella vostra famiglia, se non
sbaglio, avete il titolo della contea di Racalmuto…”.
«Ci viene dai del Carretto,” disse don Gioacchino “una
del Carretto è venuta in moglie…”
«Ve la voglio leggere,” disse monsignore “ve la voglio
leggere” [e qui Sciascia propina la pagina riportata dal Tinebra Martorana
relativa alla statistica araba della popolazione racalmutese del 24 gennaio
998: noi l’abbiamo sopra trascritta]
«”Interessante” disse freddamente don Gioacchino. Ci
fu un momento di imbarazzato silenzio, monsignore deluso dallo strano contegno
di don Gioacchino. […] Ma don Giuseppe aveva già afferrato la situazione: don
Gioacchino, giustamente, si preoccupava di quel che sulla contea di Racalmuto
poteva venire fuori dal Consiglio d’Egitto. »
Francamente, non pensiamo che don Gioacchino
Requesens avesse di che temere dalla penna falsaria dell’abate Vella: erano i
preti di Racalmuto a molestarlo ed in modo davvero preoccupante. Finì che ci
rimise i privilegi del mero e misto imperio ed anche i lucrosi canoni del terraggio e del terraggiolo.
Terraggio e
terraggiolo: atto finale
Presso
la Matrice si conserva un Liber in quo
adnotata reperiuntur nomina plurimorum Sacerdotum. Al n.° 292 (col. 16)
incontriamo questa dedica a D. Nicolò
Figliola: «di Grotte, domiciliato in
Racalmuto, eletto nella causa del Terragiuolo, che gli antenati inutilmente
tentarono nei tribunali contro il Signor Conte.
«Nell’anno 1783 si cominciò la
causa, e nel tempo dell’agitazione il predetto Figliola due volte si trasferì
in Napoli al R. Erario e riportò dal Sovrano, che il Conte mostrasse il titolo
dell’imposizione del terragiolo, che non poté provare, per cui sotto li 30
luglio 1787, dopo quattro anni di causa dal Tribunale si era designato il
giorno di decisione, ma il Figliola nello stesso mese, se ne morì.
«Il sudetto nel 1786 ottenne dal
Re, che questa terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto Imperio, che di
più di centinaia d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di causa, con pianto
e dolore universale, nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine di S. Francesco
nel convento della Misericordia, in cui sta sepolto il di lui cadavere, in
Palermo. 14 luglio 1787 d’anni 38.»
Al
n.° 297 (col. 17) tocca all’altro protagonista della vicenda: l’Arciprete D. Stefano Campanella, di cui si tesse
questo encomio:
«Collegiale-Economo nel 1754-1755 in
Campofranco. Successore dell’Arciprete Antonio Scaglione, fatto il concorso
nella Corte Vescovile di Girgenti nel 1756 a 19 Febbraio sotto Mons. Lucchese Palli, approvato e raccomandato alla Santità
di Papa Benedetto XIV, da cui fu eletto Arciprete Parroco con bolla emanata da
Roma 16 giugno 1756 ed in Palermo esecutoriata 8 Agosto 1756 confirmata dal
Vescovo di Girgenti 14 Agosto e l’indomani, 15, prese possesso.
«Da principio curò il ristoramento
delle Fabbriche della Chiesa. Nel 1760 fece la presente ampia Sacristia, nel
1767 compì il cappellone grande. Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro
fino, si fecero i due campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.
«Egli con altri primari del paese
incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di
Palermo e dopo quattro anni di
strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787.
“Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium
declaratur non deberi.”
«Finalmente nel 1787 in Favara fu
Visitatore eletto dalla Corte Vescovile di Girgenti per quel Collegio di Maria.
Morì compianto da tutti il 26 Aprile 1789 d’anni 60, mesi otto, giorni 2 - e di
Arcipretura anni 32, mesi 8 giorni 7.
«Fu ancora Vicario di questo
Monastero, Delegato dalla Regia Monarchia etc.»
La
vicenda del terraggio e del terraggiolo è stata oggetto di nostre
apposite ricerche, che, solo di recente
per il ritrovamento di importanti
documenti da parte del prof. Giuseppe Nalbone, abbiamo potuto approfondire:
crediamo di essere riusciti almeno in parte nell’opera di ripulitura di tante
incrostazioni ideologiche degli storici nostrani.
Di
rilievo, alcune carte della Real Segreteria del 1785 che palesano una
settecentesca controversia clerical-sociale nella nostra Racalmuto.
La politica
antibaronale del Caracciolo è fin troppo nota per sorprenderci dell’andamento
della controversia feudale di Racalmuto.
Non siamo
partigiani certamente del Principe di Lampedusa, né del sacerdote locale, don
Giuseppe Savatteri, che gli teneva bordone. Ma al di là dei meriti dei
sacerdoti Figliola e Campanella, prima rievocati, fu quella del 28 settembre 1787
una sentenza politica, giuridicamente azzardata, storicamente falsa.
Era di
sicuro un grande araldista il Requesens per lasciarsi abbindolare dai legulei
di Racalmuto. Avrà esibito i bei diplomi del 500 e del 600, tutti a suo
vantaggio, ma contro il Caracciolo naufragò.
Al di là
dell’aspetto sociale, che ci vede
dall’altra parte della barricata, siamo portati, per amore della storia locale, a credere che
il burbanzoso principe di Pantelleria avesse ragione e l’illuminista Caracciolo
sbagliasse.
Resta ancora
poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto, se in
natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in contanti
(come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Abbiamo
notato sopra le varie controversie dei Gaetani sul terraggio e sul terraggiolo.
I tribunali gli avevano dato, tutto sommato, ragione, ma erano altri tempi.
Ora, alla fine del Settecento la musica è ben altra. Ne fa le spese il buon
nome del sac. Savatteri, vilipeso imperituramente da Sciascia.
Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802)
Bello, elegante, colto, raffinato,
ricco, sprezzante - quanto casto non è dato sapere - questo prete svetta sia
nelle vicende della famiglia sia in quelle della locale storia. Leonardo Sciascia,
avvalendosi di dati di seconda mano, tenta di infilzarlo, ma commette una delle
sue solite manipolazioni storiche per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe
Savatteri ha coraggio, cultura e intraprendenza tali da osare un’impari
contrapposizione con il suo potente (e dispotico) vescovo agrigentino. Entra
nell’intricata storia del beneficio del Crocifisso.
Quando, il Tinebra Martorana - un
famiglio della discutibile consorteria dei Tulumello - si accinge, nel 1897, a
scrivere la storia del paese, non gli sembra vero di dilatare il senso di un
documento giudiziario - che invece di venire custodito negli archivi del
Comune, sta fra le carte private del barone Tulumello - per dileggiare un
Savatteri, la famiglia ostile ai suoi protettori, che fra l’altro lo facevano
studiare da medico a spese dell’Amministrazione comunale.
Quello sui cui il Tinebra trama è
il carteggio del Caracciolo su cui abbiamo già detto. Ripetiamo quello che
riguarda il nostro sacerdote:
«17. La Gran Corte dia le pronte provvidenze di
giustizia, onde li cittadini non soffrano aggravij - A febbraio p.p. in die 16
- Li naturali della terra di Racalmuto, sentendosi molto gravati di questo
esattore ed amministratore Prete d. Giuseppe Savatteri nell’esigenza del
terragiolo dentro e fuori di questo stato, quanto nell’avere agumentato la
Baglìa a tutti li poveri giornalieri, formando una Cascia o Statica come anche
esatte a forza di prepotenze pignorando sin anco gli utensili delle loro moglie
e pratticando molte estorsioni.
«Pregano l’E.V. di ordinare il conveniente per non
vedersi pur troppo soverchiati.»
Al Tinebra Martorana mancano
competenza e penna per fronteggiare la complessa vicenda della lotta al
baronaggio siciliano da parte del discutibile Caracciolo (l’agiografica visione
dei laici del Settecento e del postumo Sciascia lascia oggi il tempo che
trova). Il Tinebra, dunque, compatta scarne e disparate “notizie storiche” in
un capitoletto sul Settecento e velenosamente rubrica (pag. 184): «1785 -
Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri, arrendatore di Racalmuto, verso
i poverelli.» Non parve vero a Leonardo Sciascia di rigonfiare quell’appunto
per una delle sue solite tiritere anticlericali. Nessuna ricerca storica, da parte sua; nessun
approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo Sciascia [3]:
«Ecco il rapporto di un altro
funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi praticati dal sacerdote
Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza analisi critica, il testo
di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere dovuta alla penna del
malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il
Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio del
Crocifisso.
Prosegue Sciascia: «Il bello è che
dopo questo rapporto il Tribunale della Real Corte ordinava al giudice
criminale di Regalpetra [alias Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti
gli oggetti che il sacerdote Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i
lettori non lo crederanno ma la cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di
Sciascia, a noi pare che le cose erano molto più complesse e coinvolgono la
politica dei re Borboni di Napoli, che è quanto dire.
D. Giuseppe Savatteri e Brutto morì
nella peste del 1802; il Liber annota: n.° 312, c. 19, D. Giuseppe Savatteri e
Brutto, 27 februarii 1802 d’anni 47. Il vescovo non lo aveva voluto come
beneficiale della Communia. Il Savatteri faceva però parte della
neo-confraternita della Mastranza. Non pare molto diligente nell’annotare le
messe che era tenuto a celebrare per i confrati defunti: subisce delle
sanzioni. Così risulta annotato in registri della confraternita.
Sciascia ed i Sant’Elia - Conclusione
Sciascia è benevolo verso i principi di Sant’Elia. Leggiamolo
assieme: «Con lui [Girolamo IV, ma rectius III] si estingueva la famiglia,
l’investitura passava ai marchesi di Sant’Elia, ancor oggi i borgesi di
Regalpetra pagano il censo agli eredi dei Sant’Elia: ma certo che fu grande
riforma quella che i Sant’Elia fecero centocinquanta anni addietro, divisero il
feudo in lotti, stabilirono un censo non gravoso, la piccola proprietà nacque,
litigiosa e feroce; una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal
perito catastale a quello balistico, i borgesi hanno fame di terra come di
pane, ciascuno tenta di mangiare la terra del vicino ...» [4] A parte la
bellezza della trasfigurazione letteraria, si resta perplessi. Sotto il profilo
storico, non sappiamo dove abbia preso Sciascia quelle notizie sui Sant’Elia. A
noi risultano fatti, intenti e liti ben diversi da quelli sottesi nella pagina
sciasciana. Ad addentrarsi in tali meandri, il discorso porta lontano, ben
lontano dalla vicenda feudale racalmutese. Ed in questa sede c’interessa solo
il declino del baronaggio in Racalmuto. Riforma borbonica e rivoluzione francese
estinsero quell’istituto. I Sant’Elia ne furono, a loro modo, vittime.
Divennero semplici proprietari “allodiali” di terre già in enfiteusi perpetua,
sminuzzate tra tanti ex vassalli racalmutesi. Gliene venne il magro censo che
ancora all’epoca in cui Sciascia scriveva si pagava, svilito ormai per le tante
selvagge svalutazioni monetarie, non certo per bontà d’animo di quei signori.
Le loro memorie giacciono negli archivi dei tribunali e quando verranno
riesumate suoneranno condanna per quegli ultimi virgulti della decrepita
società feudale siciliana.
Tratti salienti del Settecento racalmutese
Il Settecento fu un secolo di riforme sociali e
politiche per Racalmuto: uscito dalle grinfie dei Del Carretto – ormai
totalmente decaduti per morti precoci e per debiti devastanti – il paese subiva
uno dei più grossi grovigli giuridici del tempo e cadeva nell’ipocrita rapacità
dei Gaetano. Abbiamo già detto dell’ineffabile Macaluso, una scialba signora
che si presta alle truffe feudali del duca di Naro. Patetico quel patrizio –
che con Racalmuto non aveva avuto mai nulla a che spartire – quando, con
impudenza tutta nobiliare, afferma che egli era niente meno che “mosso da pietà
per i suoi vassalli” nel reclamare le due salme di frumento per ogni salma di
terra coltivata Siamo nel 1738 allorché sorse quella strana controversia
feudale, esemplare per la storia del nostro paese. Ci si mettono pure i monaci
di Milocca (dopo Milena): imbrogliano codesti feudatari in abito talare ed
inventano privilegi da parte del vescovo di Agrigento che, anche se con
l’avallo sacrilego della curia agrigentina, sono il segno della protervia degli
sfruttatori dei lavoratori racalmutesi con quelle aberranti pretese di
terraggio e terraggiolo. In pieno Settecento, il retaggio barbarico dello
schiavismo perdura ancora a Racalmuto. E gli ecclesiastici non ne sono certo
immuni, come dimostra una controversia tra il Convento di S. Martino delle
Scale ed il duca Gaetani. A noi, invero, importa di più questa altra lamentela
del neo conte di Racalmuto: abbiamo ragguagli di prima mano sullo stato
economico e sociale del paese a cavallo del Settecento: Racalmuto era, dunque,
quel centro oppresso, angariato e pieno di debiti che il seguente documento
finisce per tratteggiare:
Ecc.mo Signore
il Ill.mo duca d. Luiggi Gaetano
possessore del Stato e terra di Recalmuto N.bus nelle sue scritture dice a V.E.
che il sudetto stato si ritrova in deputazione ed amministrazione da più anni,
il cui giudice deputato ed amministratore attualmente si ritrova l’illustre
Preside d. Casimiro Drago, e con tutto che la gabella corrente di detto stato
si trova nella più alta somma che giammai non fu il pagato, tuttavia li
creditori suggiogatarij non hanno potuto giammai ottenere l’intera annualità,
anziche nemmeno l’intera mezza annualità, tanto perché le suggiogazioni apo.te
trascendono di gran lunga l’introiti dello stato sudetto, quando ancora perché
consistendo la maggior parte delli introiti
da ... molini situati in parte di lavanchi ki ricercano ogni anno spese
considerevoli per riparo di esse lavanche oltre le vacature che si bonificano
alli gabelloti di detti molini; per quei tempi che non macinano, motivo che
riflettendo oggi il supplicante ed anche le grosse spese di salarij ed altri
che cagionando da detta deputazione, ed amministrazione onde ha considerato
l’esponente come possessore di detto stato di Regalmuto, intervenendo prima che
la maggior parte dei creditori suggiogatarij sopra detto stato gradualmente
fare abolire che a detta deputazione ed amministrazione in circostanza anche di
non potere questa sussistere a tenore degli ordini di S.E. in data 16 agosto
1735 per il quale si stabilì come la deputazione che non possono pagare a
creditori l’annualità ed offerire a detti creditori suggiogatarij per conto
delle di loro respettive suggiogazioni, di pagarli il 60 per 100 ogn’anno per
l’importo di anni dieci; nel qual tempo però si devono consentire che
l’amministrazione di detto stato resti e si faccia per l’esponente, con che per
il consenso prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij non
se li possa dare nè inserire per detti dieci anni dalla minor parte di detti
creditori suggiogatarij veruna sorte di molestia talmente che li detti
creditori suggiogatarij in siffatta maniera vengono a conseguire ogni anno durante la suddetta decennale amministrazione dell’esponente non solamente
l’intiera mezza annualità in due .. di decembre e maggio di ogni anno, che non
hanno mai conseguito, ma anche vengono a conseguire un’altra sesta parte oltre di detti pagamenti, ed inoltre tengono
la futura speranza di conseguire doppo la suddetta decennale amministrazione
maggior somma; per il che possedendo l’esponente senza deputazione il sudetto
stato independentemente d’ogni altro potrà facilmente invigilare all’augumento
delli introiti del medesimo in beneficio anche di essi creditori, onde in vista
di tutto ciò, considerando l’esponente che abolirsi la sudetta deputazione ed
amministrazione e contentarsi la maggior parte di detti creditori suggiogatarij
.. samministri su detto stato di Recalmuto per detti anni dieci del .. con
l’obbligo di pagare a detti creditori suggiogatarij il 60 per 100 come sopra
ogn’anno e durante la sudetta decennale amministrazione dell’esponente viene à
resultare anche in beneficio delli sudetti creditori suggiogatarij. Pertanto
ricorre a V.E. e la supplica si segni servita provedere ed ordinare che
prestandosi prima il consenso della maggior parte delli creditori
suggiogatarij, che non solo si abolisca la detta deputazione, ma anche che la
minor parte delli creditori suggiogatarij, che forse non interverrà a prestare
il medesimo consenso, fosse tenuta ed obligata a concorrere colla maggior parte
di detti creditori suggiogatarij dalli quali si presterà il consenso nel modo e
forma di sopra espressati, ed acquiescerà e starà alla decennale
amministrazione in persona del supplicante con l’obligazione come sopra per il
medesimo senza che dalla detta minor parte di detti creditori suggiogatarij se
li possa dare, a riflesso del consenso
forse prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij per il
spazio di detti dieci anni, nessuna sorte di molestia nè cancellare l’atti
fatti per la medesima deputazione seu amministrazione, come s’ha pratticato per
l’altre deputazioni fin oggi abolite;
vel ... si vorrà ordonare che sopra l’abolizione suddetta interverrà il
consenso della maggior parte delli creditori suggiogatarij ed obbligare a detta
minor parte delli creditori suggigatarii di concorrere ed acquiescere come
sopra, come il tribunale della R.G.C. della Sede Civile, a cui spetta doversi
provvedere vocatis creditoribus e in vista del consenso che si presterà per
publici documenti della maggior parte dei creditori suggiogatarij, per
resultare in beneficio delli medesimi. E ciò non ostante quasivoglia cosa che
in contrario l’ostasse o potesse ostare, etiam che fosse tale che .. se ne dovesse farre espressa ed
individuale menzione quale s’habbia ..
per la sussistenza della presente, qualmente al tutto disponendo V.E. de
plenitudine potestatis et ex certa scientia ... Datun Primo Junij 1736 ex parte
G.S.d. Joseph Chiavarello .. vocatis
creditoribus per sp: de Paternò: Die sexto settembris 1736.
Jesus Maria
Abbiamo
prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci pare opportuno riportare
alcune annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice.
1713
(Morti dal 1714 al 1724)
Dopo
il 28 agosto 1719:
L’interditto
fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di
Girgenti con il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in
tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora
vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci (?) Can. Teo. E Vic.
Generale Apostolico con l’Autorità della S. Sede.
Morti 1707-1714 (Die 3 7bris 1713 VII
Ind.)
Vigilia
Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac
terra Racalmuti.
Battesimi
1711-1716 - pag. 450.
Ad
perpetuam rei memoriam Die tertio septembris septimae inditionis 1713 Vigilia
Sanctae Rosaliae nostrae Patronae hora vigesima, fuit affixum interdictum in
Civitate Agrigenti et in eiusdem Dioecesi ab Ecc.mo et rev.mo D.no D. Francisco
Remirens Episcopo dictorum
Archipresbitero
D.re D. Frabritio Signorino 1713.
Il
Lo Brutto fu personaggio di spicco; arciprete, in simpatia delle varie autorità
vescovili, di famiglia presso l’ultimo conte Del Carretto, dispensatore di
benefici e di mozzette clericali, finì – come si disse – sepolto in Matrice,
osannato da una lapide a spese del nipote dottor Antonio Pistone:
Matrice
ex Cappella dell’Annunziata.
Monumentum
hoc mortalitatis, quod jure sacelli propriis sibi facultatibus ascito, ante
aram Virginis huius templi patronae, familia Brutto paraverat, doctor don
Antonius Pistone, hic situs, velut optimus heres, honorifico lapide, qui suos
suorumque cineres decentius conderet, exornatum curavit, votumque expletum est.
-
Kalendis Septembris MDCC - Post eius
obitum anno sexto.
(Stemma
- Pampini - leone alato ... elmo
chiomato del milite)
LE
PERSONALITA’ DI SPICCO DEL SETTECENTO RACALMUTESE
Diciamolo
subito: il secolo dei lumi è poco illuminato per intelligenze locali che in
qualche modo possano rasentare il genio: le parole del Guicciardini care a
Sciascia sulla “ricolta” di ingegni negli
stessi anni suonano ora del tutto vane. Né grandi medici, né veri pittori, e
neppure – ci dispiace per Sciascia – rimarchevoli eretici. Solo il bestemmiare
del popolino che è poi atto di fede intensa.
Per
contro abbiamo un prete in fama di santità: ma era tanto sessuofobo e sgrana
rosari che non pensiamo ci si possa troppo gloriarne. Il collegio di Maria era
un reclusorio per ragazze, figlie di sventurate, che vi venivano coatte perché
possibili «occasioni di peccato». Per vaccinare contro il vaiolo, non c’erano
medici adatti. Si mandò a Palermo un “cerusico”, un barbiere, per imparare una
tecnica un tantinello meno rudimentale. E m° Giuseppe Romano fu forse meglio
dei medici, ma sempre barbiere era. Siamo alla fine del secolo – 16 giugno
1795, dicono le cronache.
I
preti lasciavano i loro beni – come nel Seicento del resto – alle chiese forse
terrorizzati per l’incombente acceso agli inferi, per pratiche usurarie. Ma le
volevano ampie e nude come il loro vacuo esistere. Il sacerdote Pietro
Signorino, dopo avere smunto il suo asse ereditario con tanti legati,
«instituisce, fa crea e nomina in sua Erede universale la venerabile chiesa fi
S. Maria del Monte». Correva l’anno del Signore 1737 (die decima nona
Septembris, prima indictio, millesimo septingentesimo trigesimo septimo.) Si
doveva vendere tutto – “formenti, orzi, ligumi, superlettili ed arnesi di casa
– ed il ricavato, con il denaro dell’asse, andava speso «nella fabrica della
detta ven. Chiesa di S. Maria del Monte.» Ed il pio e talare testatore soggiunge:
«li frutti annuatim si percepiranno dalli suoi terreni stabili ed effetti
ereditarii, come delle terre, vigne, case, rendite ed altri proventi si
ritroveranno doppo la di lui morte si dovessero pure erogare dall’infrascritti
suoi fidecommissarii nella fabrica di detta Chiesa di S. Maria del Monte, e
questo fintanto che sarrà la medesima chiesa perfezionata tutta solamente di
rustico». Il prete non aveva molta fiducia nelle gerarchie ecclesiastiche, e –
non nuovo a tali tipi di astiosa riserva – vuole che non vi siano intrusioni
della «S. Sede, ovvero della Generale Curia Vescovile di Girginti né d’altra
persona.» Da escludere anche «l’Officiali della Compagnia della detta Ven.
Chiesa di S. Maria del Monte». Il Signorino ha fiducia solo nel «rev.do sac. D.
Baldassare Biondi del quondam don Francesco, del rev.do sac. D. Melchiore
Grillo e del rev. D. Elia Lauricella», sempreché agiscano «coniunctim».
Ancor oggi non si sa se il
Santuario sia rifacimento o ampliamento o – molto più probabilmente – una nuova
costruzione che venne addossata alla vecchia chiesa, divenuta sacrestia. Il
padre Morreale è molto meticoloso ed ovviamente agiografico. [5]
Propende, alla luce del testo delle disposizioni testamentarie, per una
«nuova chiesa» la cui prima pietra sarebbe stata posta il 14 agosto 1736 e
solo attorno al 1746 l’antica chiesa si sarebbe venuta «a trovarsi dentro la
nuova.» Molto disinvoltamente Internet ci propina questa imprecisa versione,
peraltro ingenerosa verso il pio testatore Signorino. Per quell’informatico,
la chiesa del Monte: «Sorge sul
poggio più alto dell'antico borgo medievale. La chiesa fu costruita nel 1738.
Già nel 500 esisteva la chiesetta di S. Lucia. All'interno è ubicata la
leggendaria statua in marmo bianco di Maria Vergine di fattura gaginesca.
Maria SS. del Monte è la compatrona e regina di Racalmuto ed ogni anno, nella
seconda settimana di Luglio, si celebra la festa in suo onore. Durante i tre
giorni della festa viene rievocata la vinuta di la madonna con
recite, cortei con cavalieri in abiti del 500 e prumisioni che
consistono nell'offerta del grano alla Madonna da portare a piedi o su
cavalli che, spronati dalla folla, devono salire lungo la scalinata che porta
al santuario. Altro momento esaltante della festa è la pigliata di lu ciliu (una sorta di cero alto
alcuni metri) che consiste nella conquista della bannera da parte di giovani borgesi scapoli. La lotta per
conquistare la bandiera è talvolta violenta, con pugni e calci da parte degli
avversari. Tutto si quieta quando uno dei borgesi afferra il drappo.»
|
Sciascia, che ebbe ad infilzare proprio il mansueto padre
Morreale, forse perché gesuita, a proposito della ricerca storica sulla venuta
della statua della Madonna del Monte, ora finge di non dargli peso per codeste
ricerche testamentarie del sacerdote Pietro Signorino. Al giovane Tinebra
Martorana aveva accordato il peso della sua autorevolezza e in un caso analogo,
quello del testamento del sacerdote Santo d’Agrò, non si era lasciato sfuggire
il destro per sardoniche bardote sul
prete in “alumbiamento”. Altrettanto poteva fare anche in questa circostanza
della Chiesa del Monte, ma se ne è astenuto. E dire che piccante poteva
risultare la ricerca del gesuita p. Morreale sulle propensioni a beneficiare
una pinzochera da parte del pio testatore. Pudicamente il gesuita annota: «nel
testamento – il padre Signorino – determinò alcuni legati a favore della
Perpetua». Invero, la preoccupazione a beneficiare Caterina d’Alberto è
pressante. «Item il sudetto testatore hà legato – si legge nel corpo delle
disposizioni testamentarie – e per ragione di legato lega à Caterina d’Alberto
sua serva una casa, prezzo e capitale di onze 10 circa, quale vuole che se li
dovesse comprare dalli ssopradetti suoi fidecommissarii» e nel codicillo, in
termini ancora più chiari anche se in latino, «item dictus codicillator ligavit
et ligat sorori Mariae de Alberto bizocchae Ordinis Sancti Dominici in saeculo
vocata Caratina eius famulae ultra illas uncias decem in dicto eius testamento
legatas tre infrascripta domus de membris et pertinentiis eius tenimenti
domorum » e passando al volgare «nempe la prima entrata, la camera ed il catoio
sotto detta camera della parte di occidente, seu della parte di San Gregorio» e
tornando al latino «de quibus quidem tribus
corporibus domorum ipsa soro Maria, habet et habere debet solum usum
exercitium». Non solo, ma «dumtaxat – cioè vita natural durante – [le si
devono] tumuli otto di frumento, un letto fornito, due tacche di tela sottile,
il mondello, due sedie di corina, la criva, la sbriga e maiella, ed alcuni
arnesi di cocina.»
Almeno,
quello svolazzo del codicillo, una funzione la esplica: dà materia per un
eventuale museo etnografico.
LA SCUOLA PITTORICA DI PIETRO D’ASARO :
IL PITTORE ANTONIO ANGELO CAPIZZI
Nel rivelo che Pietro d’Asaro fu costretto a fare, per fini
fiscali, nel 1637, viene dichiarato un tale Giuseppe di Beneditto d'anni diecidotto discepolo. Nostre
personali ricerche ci portato a credere che si tratti di quel Gioseppi Di
Benedetto che il 29 ottobre 1648 sposò Costanza Troisi, figlia del defunto m°
Luigi e della defunta sig.a Paola. Nei libri della matrice viene annotato: «contrassero matrimonio in casa
publice senza essere fatte le solite denunciatione a lettere del
reverendissimo Sig. V.G. date nella
citta di NARO a 22 del presente et presentate in questa terra a 28 dello
predetto mese. Questo fu celebrato con la presentia di don Francesco Sferrazza
ECONOMO presenti per testimoni don Francesco Macaluso, Giovan Battista Lo
Brutto, Petro Pistone et cl. Leonardo di Carlo et fatte le denunciatione doppo
a 28 di novembre foro in questa ma matrice benedetti per don Federico La Matina
cappellano.»
Il Di Benedetto fu certo
pittore, ma ancora non si sa molto della sua produzione artistica. Il p.
Morreale – che pure è molto circospetto – si sbilancia, a nostro avviso, un po’
troppo quando scrive [6] «Tra i lavori fatti dal padre Farrauto c’è la
sostituzione dell’altare dei santi Crispino e Crispiniano; la tela dei due
santi, opera di Giuseppe Di Benedetto, discepolo di Pietro Asaro, fu sostituita
da un bassorilievo. …» Non citandoci la fonte, restiamo ancora nel buio.
Comunque, l’attribuzione non è poi tanto cervellotica.
Resta però singolare che durante i grandi
lavori della Matrice, il Di Benedetto non sia stato mai chiamato a collaborare,
a meno che non ostasse quel matrimonio che sembra un po’ fuori dal rigore
canonico
Il 17 novembre 1660 – e le nostre ricerche d’archivio
danno ancora vivo Giuseppe Di Benedetto – viene chiamato da Agrigento Antonio
Capizzi per “stucchiare e pingere” la
navata centrale della Matrice: il contratto prevede 29 onze di ricompensa. A
riprova ecco quello che si legge nel primo Rollo della “fabrica”:
17.11.1660 A
Antonio CAPIZZI della Città di Girgenti onze otto quali ci si pagano in conto
di onze vintinovi; si li donano per havere à stucchiare e PINGERE la nave della
matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede alli atti di notaro
Michelangelo Morreale per atto fatto al detto di Capizzi di G. come per mandato
et apoca in notar Morreale adi 30 gennaro xjjjj a ind. 1661 appare d. -/ 8;
.
6.6.1661 Ad Antonio Capizzi d. s.a città di
Girgenti onze otto quali ci si pagano a complimento di -/ 16. in conto di onze
29. et sonno d. -/ 29. per causa che d. di Capizzi ha da stocchiare seu pingere
la nave della matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede all'atti di notar Michelangelo
Morreale come per mandato et apoca in d. notaro adi 7. di d. appare d. --- -/
8;
5.9.1661 A Antonio CAPIZZI onze sei, quali ci si
pagano in conto di onze vintinovi; si li devono per havere à stucchiare e
PINGERE la nave di d.a matrice e sonno di -/ 6. a complimento di -/ 22. stante
dell'altri -/ 16. appare in mandati dui: uno di -/ 8. fatto sotto il di 17.
9bre xjjjj a 1660 et l'altro di altre -/ 8. sotto il di 6. di Giugno xjjjj a
sud.a 1661 come per mandato et apoca in notar Pietro Bell'homo a 15. d.;
19.1.1662 Ad Antonio Capizzi onze tre
quali si ci pagano a complimento di onze vinticinque et in conto d'onze
vintinovi si li devono per conto della fabrica della matrice come per mandato
et apoca in notar Panfilo Sferrazza a 20. d. appare;
10.2.1662
Ad Antonio Capizzi onze quattro quali si ci pagano a complimento di onze
vintinovi stante l'altri esserci stati pagati in diversi mandati come a libro
vede e sonno -/ quattro per havere à stucchiare è pingere la navi della matrice
chiesa come il tutto si vede per atti in notar Michelangelo Morreale come per
mandato et apoca in d. notaro di Sferrazza a di 10. d. appare.
Ventinove onze sono molte di più di quelle 12 che,
secondo il Tinebra (p. 144) avrebbe lasciato il rev, Santo Agrò nel 1622 per
dipingere il quadro di Maria Maddalena. Sciascia ci delizia con queste
annotazioni di costume: «A vedere un’onza nella vetrina di un numismatico ed ad
immaginarne dodici una sull’altra, anche se non sappiamo precisamente a quante
lire corrispondano nella galoppante inflazione dei nostri giorni [a circa Lit.
7.200.000 all’inizio del 2000, vorremmo pedantemente soggiungere noi, n.d.r.] una pala d’altare di un pittore
che non era Guido (Reni per i posteri, ma per i contemporanei soltanto Guido)
non possiamo dirla mal pagata.» [7] etc. Chissà cosa avrebbe aggiunto se avesse degnato di
uno sguardo questo vecchio libro di contabilità secentesca della Matrice.
Codesto Antonio Capizzi si trova, comunque, bene a
Racalmuto; mette su famiglia e lo troviamo con una nidiata di figli ma con una
serva nella numerazione delle anime del 1664 (custodita anche questa in
Matrice):
708
|
CAPIZZI
|
ANTONINO
|
|
C.
|
4
|
6
|
10
|
MASTRO
|
|
|
GERLANDA
|
M.
|
C.
|
|
|
|
|
|
|
GASPARU
|
|
|
|
|
|
|
|
|
PASQUA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
BARTOLA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
BARTOLOMEO
|
|
|
|
|
|
|
|
|
GIUSEPPE
|
|
|
|
|
|
|
|
|
ROSALIA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
NARDA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
CATARINA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
VENA
|
|
C.
|
|
1
|
1
|
FAMULA DI
D.O DI CAPIZZI
|
Ma non ha altro titolo di distinzione che quello di
semplice “mastro”: niente “don” dunque; se “pittore” fu, lo fu nel senso
moderno di imbianchino. Dal figlio Giuseppe nascerà il 5 maggio 1683 il pittore
Antonio Angelo Capizzi, che pittore lo fu davvero, ed anche se non può avere
praticato una qualche bottega di pittura degli eredi di Pietro D’Asaro
(Giuseppe di Benedetto era morto da tempo quando il Capizzi era ancora in
fasce) affinità stilistiche attestano una scuola racalmutese alla Pietro
d’Asaro ancora seguita un secolo dopo.
ANTONIO ANGELO CAPIZZI, PITTORE RACALMUTESE
DEL SETTECENTO
Dobbiamo al libro di padre Adamo [8] la nostra piacevole scoperta che racalmutesse fosse
Antonio Capizzi che operava a Delia di sicuro dal 1726 al 1731. Francamente non
ne sapevamo nulla e reputiamo che pochissimi lo sappiano. Di certo, nessun
accenno nella pubblicistica locale che ormai appare decisamente sovrabbondante.
Scrive il p. Adamo, parlando della chiesa
dei Carmelitani di Delia: «Aggiungasi che già dal 1712 la parrocchia si era
trasferita proprio in questa chiesa, per la ricostruzione della Matrice, e vi
rimase fino al 1737. Le date rinvenute vengono a confermare quanto detto. La
più antica è il 1731. Si trova fra gli stucchi dell’arco maggiore, accanto al
grande affresco della natività di Maria: «Antonius
Capizzi Racalmutensis …Anno Salutis 1731»
Nei lavori di costruzioni del tetto e restauro del 1970, gli operai per
inavvertenza distrussero l’intonaco con la scritta. Le parole citate
costituivano parte della scritta perduta. Di grande importanza è poi la tela di
s. Pasquale Bajlon che porta data e firma dell’autore: «A.S. 1731 – Antonius Capizzi Racalmutensis pingebat – Decimoquarto
Kalendas Augusti».
A pagg. 164-165 vengono riprodotti
particolari degli stucchi attribuiti al Capizzi, molto simili, ci pare, a
quelli della Matrice che, pertanto, potrebbero essere dell’omonimo nonno,
sempreché la nostra ricostruzione genealogica sia fondata.
L’indubbia origine racalmutese del pittore
di Delia è provata da un atto di battesimo che si trova in Matrice: nacque un Antonio Angelo Capizzi
in Racalmuto il 5 maggio 1683 e fu battezzato lo stesso giorno. Il padre si
chiamava Giuseppe e la madre Santa. Dopo, non risultano altri dati anagrafici:
almeno noi non siamo ancora riusciti a trovarli. Tutto però fa pensare che si
sia trasferito da Racalmuto. Forse a Delia, ove pare sentisse profonda
nostalgia della terra nativa, tanto da firmarsi come Racalmutensis: a meno che
ciò non rifletta l’orgoglio di essere compaesano di quel Pietro d’Asaro che nel
Settecento godeva di più o meno merita fama, come comprova l’esteso elogio di
p. Fedele da S. Biagio.[9]
Non si può, poi escludere, che taluno dei
tanti quadri settecenteschi delle varie chiese di Racalmuto sia dovuto al
pennello del Capizzi. Ricerche presso l’Archivio di Stato di Agrigento e consultazioni
dei vari rolli notarili ivi conservati potranno fare uscire dall’anonimato le
varie pale di S. Giuliano o di S. Pasquale o del Carmine stesso oppure
rettificare attribuzioni disinvolte a pittori operanti in quel secolo.
Non
ci intendiamo d’arte per sbilanciarci in valutazioni estetiche: ad ogni buon
conto epigoni della scuola racalmutese di Pietro d’Asaro persistono nel pittore
di Delia con gli inceppi dell’appiattimento prospettico, la frustra tavolozza
di mero decoro, il paesaggio intruso ed alieno – come dire, per vacuo pretesto
– e la composizione prolissa che si
sfilaccia in riquadri disarmonici. E se nel caposcuola eravamo, per dirla con
Sciascia, «nell’epigonia manieristica, negli echi baroccisti e caravaggeschi»,
vi è solo lo stracco imitare, il pedestre eseguire, senza empiti, senza
passioni come l’inespressivo sguardo che sembra doversi assegnare alla
agiografica rappresentazione dei santi da venerare nei santuari. E per il
Capizzi non disponiamo – diversamente
che per l’Asaro – di allegorie profane ove, con Sciascia, potremmo rinvenire
«un che di misterioso … da disvelare.» Forse l’eco del recente interdetto,
forse la spossatezza di una religiosità soltanto canonicistica, può rinvenirsi
in Capizzi; e ciò è pur sempre preziosa testimonianza, attestato del periferico
rurale adeguarsi o attaccarsi alla vita, «come erba alla roccia».
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
Se volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia; alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del 1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo l’osservanza dei Capitoli del regno.
Il vescovo Ramirez che prima di recarsi in esilio lancia l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso periodo: l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che cadde il 7 agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20 ottobre 1735) lo chiudono sotto un duplice profilo: quello feudale, ma in senso involutivo, visto che si ritorna ad una feudalità vessatoria che la morte dell’ultimo conte del Carretto nel 1710 aveva di molto rilassata, e sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli arcipreti d’estrazione locale, molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco Torretta inizia una serie di racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure come “economo-vicario” ) che si protrae – fatta eccezione per la scialba arcipretura di Antonio Scaglione - sino ai nostri giorni.
Sull’interdetto del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare. Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da die compagnie di Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9 cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale viene ripartito il c.d. “donativo”. [10]
Col
passaggio sotto l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento della morsa militare e
l’ordine pubblico ne risente: resta celebre il caso[11] del
bandito Raimondo Sferrazza di Grotte, tra i cui affiliati un qualche
racalmutese vi dovette essere. Lo Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30
aprile 1727. Iniziò la sua attività criminale vera e propria nel 1723. Vittima
dello Sferrazza risulta tale Mariano Calci di Racalmuto.
Da Prizzi
arriva a Racalmuto il successore di d. Fabrizio Signorino: don Filippo
Algozini, che non dura più di un quinquennio. Muore nel 1735 e pare non abbia
lasciato un buon ricordo nei suoi confratelli se costoro si limitano ad
annotarne la morte sul LIBER, al n° 220 seccamente, senza alcuna
sottolineatura. Invero era stato un arciprete alquanto vivace, piuttosto
energico e sicuramente preciso ed ordinato. Ci lascia un tariffario che
illustra ad abbondanza quanto fiscale fosse la Chiesa di allora: veramente
tassava dalla culla alla tomba come abbiamo avuto modo di rappresentare una
volta in una nostra mal tollerata conferenza alla Fondazione Sciascia. I
balzelli venivano pudicamente denominati diritti
di stola; il maggior peso si aveva per i matrimoni per i quali vi è una
casistica tanto puntigliosa quanto invereconda; ecco, infatti, l’ampia gamma di
aliquote per tasse matrimoniali dovute alla locale Matrice.
1731
Tariffario dei diritti di stola per il matrimonio
celebrato in chiesa, a Racalmuto, sotto l’arciprete Algozzini, originario di Prizzi:
Sponsali 1731 al 1738
LIBER PROCLAMARUM
PRO NUPTURIENTIBUS ET ORDINIS SACRIS INSIGNIRI CUPIENTIBUS
E ANNO 1731 QUO FUI IMMISSUS
IN HAC MATRICI RACALMUTI
EGO PHILIPPUS ALGOZINI PRITIENSIS
S.T.D. ARCHIPRESBITER USQUE AD ANNUM 1770
TASSA PER L'INCARTAMENTI
se la sposa esiste in questa terra
LE SPESE SONO CIOE'
PER LETTA REGOLARE AL PARROCO DELLA TERRA DOVE
ABITA IL
SPOSO-------- T. 1
SEDE DI
DENUNCIE---------- T. 2 10 GRANI
ORDINE PER IL
COPIARI TESTES T. 1
LETTERE ALLA G.C. : T. 1
P. SOVRATASSA
DI DETTA LETTERA
NELLA QUALE
DONA LICENZA
DI
SPOSARSI T. 1
TASSA T. 3 10
GRANI
-----------
---------------------
-----------
T. 10 0
..
LETTERA
REG.RE AL PARROCO T. 0 10 GRANI
TESTI
T . 2
??
T. 1
LIC.
REGOLARE
T. 2 10 GRANI
TASSA DELLA
LETTERA DI GI.GNTI T. 10 GRANI
//
15 GRANI
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T. 7 5 GRANI
SE PERO' LA
SPOSA E' FUORI PARROCCHIA
ORD. DEL
COPIARE LI TESTES T. 1
SEDE DI DENUNCIA T. 2 10
Dobbiamo però alla penna dell’Algozini un preciso inventario delle ricche suppellettili che ormai dotavano la Matrice; in più abbiamo una descrizione preziosa dell’assetto organizzativo della locale arcipretura, in uno con la raffigurazione dell’interno della chiesa dell’Annunziata, nonché con altri dati di rilievo anche socio-economico.
L’Algozini
lascia, comunque, in sospeso la questione del quadro della Maddalena che si
continua ad attribuire a Pietro d’Asaro; l’arciprete si limita ad annotare:
“Altare di S. Maria Maddalena: item il quadro con la figura di detta Santa” e
non ne indica l’autore; per lui – come per noi – l’autore è anonimo. Se una
congettura personale è permessa, tendo a credere che il quadro sia stato
commissionato dall’Agrò in prossimità del 1637 (molto dopo dunque dalla
datazione 1622 di cui a pag. 66 del Catalogo del 1985), in nome e per conto di
qualche confraternita della Matrice o della Fabbrica; consegnato agli eredi,
costoro con l’accordo del 1641, s’impegnano a sistemarlo nella già operante
Cappella della Maddalena, il cui spazio antistante viene acquisito per la
“carnalia” del sacerdote defunto e dei suoi eredi, previa destinazione alla
“Fabbrica” di un censo annuo di
un’oncia, prescelto tra i legati del sac. Santo Agrò. Singolare è il fatto che
nel 1731 si è perso il ricordo della tomba del sacerdote benefattore e
l’Algozini si limita ad annotare che «non sono sepolture sotto le predelle
dell’altari” e che in tutta la chiesa le gentilizie di specifici “patronati”
sono solo quattro ed appartengono ai « fratelli del SS. Sacramento; ai Petrozzelli, ai Lo
Brutto ed agli Acquista”». Ma già a partire dal 1654
non si rintraccia nei libri contabili della Fabbrica il cennato censo di
un’oncia dell’eredità Agrò[12].
L’elaborato algoziniano che si conserva presso l’archivio
vescovile di Agrigento ci fornisce un insostituibile spaccato della comunità
racalmutese in pieno regime austriaco. Il 28 giugno 1731, l’arciprete consegna
al visitatore pastorale un folto fascicolo di «notizie che dona il Molto Rev. Dr. Filippo Algozini archipresbitere di
detta terra, alle dimande nelle istruzioni dell’Ill.mo e Rev.mo D. Lorenzo
Gioeni, vescovo di Girgenti per la visita pastorale.» Quel celebre vescovo
era di recente nomina (con bolla pontificia dell’11 dicembre 1730, esecutoriata
in Palermo il 5 gennaio 1731) e all’inizio dell’estate è già a Racalmuto per un
controllo ficcante e pignolo. Fornisce un questionario dettagliatissimo cui
l’arciprete deve dare esaustive risposte. Una fatica improba per lui, ma buon
per noi che siamo così in grado di disporre di una stratigrafica ricognizione
della comunità di Racalmuto a quasi un terzo del Settecento.
Unica la parrocchia, ma quindici le chiese “secolari”, nove
nell’abitato e sei nelle campagne; inoltre sei sono quelle dei “regolari”. In
totale ben 21 luoghi di culto e cioè:
le n° quindici “secolari” sparse per il paese:
1. la Matrice chiesa sotto titolo della SS.ma
Annunciata ; il Rettore ed Amministratore il M.to Rdo
Archipresbitere Dr D. Filippo Algozini;
2. Oratorio del SS.mo Sacramento sotto titolo di S.
Tomaso d’Aquino, il Rettore il sud.o Dr D. Filippo
Algozini Archiprete, ed i congionti Mo Scibetta e Mo
Giuseppe di Rosa, che l’amministrano;
3. Chiesa sotto titolo di S. Maria del Monte, il Rettore
clerico coniugato Agostino Carlino, Rdo Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio
Busuito congionti, che l’amministrano;
4. Chiesa sotto titolo di S. Rosalia, amministrata dalli
Giurati di questa terra come Padroni;
5. Chiesa sotto titolo di S. Anna, il Rettore clerico
coniugato D. Calogero Sferrazza congionto a Sigismondo Borsellino e Diego
Emmanuele che l’amministrano;
6. Chiesa sotto titolo di S. Micheli Arcangelo, il
Rettore e Amministratore il Rev. Sac. D. Francesco Pistone;
7. Oratorio sotto titolo di S. Giuseppe, il Rettore Dr.
D. Giuseppe Grillo , notaio Nicolò Pumo ed Ignazio Mantione congionti;
8. Chiesa sotto titolo di S. Maria dell’Itria
amministrata dal Rev.do Sac. D. Pietro Signorino Beneficiale;
Chiesa sotto titolo di S. Nicolò di Bari amministrata
dal R.do Sac. D. Gaspare d’Agrò mansionario della Catredale di Girgenti, e per
esso dal R.do Sac. Dn Isidoro Amella procuratore.
Queste le annotazioni che riguardano le chiese di campagna,
denominate “chiese fora le Mura”:
1. Chiesa sotto titolo di S. Maria della Rocca, il
Retttore o amministratore Sac. D. Vincenzo Avarello;
2. Chiesa sotto titolo di S. Maria di Monteserrato, in
cui si celebra la povera festa dalli pij devoti;
3. Chiesa sotto titolo di S. Maria della Providenza
amministrata da D. Paolo Baeri Patrono;
4. Chiesa sotto titolo di S. Marta amministrata da Pietro
Mulè Paruzzo procuratore;
5. Chiesa sotto titolo di S. Gaetano amministrata
dall’Ill. Marchese di S. Ninfa come Padrone;
6. Chiesa sotto titolo del SS.mo Crocifisso, amministrata
dal Rev. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano fondatore.
Dichiarato che non vi erano “cappelle ed oratori domestico”
(queste saranno di moda alla fine del Settecento e si protrarranno sino alla
seconda metà del XX secolo), ecco la descrizione dei monasteri che sono “cinque
conventi de’ regolari ed un monastero di Donne”:
1. Convento di S. Maria del Carmine;
2. Convento di S. Francesco de Padri Minori Conventuali;
3. Convento di S. Maria de Padri Minori osservanti;
4. Convento di S. Giovanni di Dio de’ PP. Fateben
fratelli;
5. Ospizio di S. Giuliano de’ PP. di S. Agostino della
Congregazione di Sicilia;
6. Monastero de Monache dell’ordine di S. Francesco.
E si precisa che all’epoca non vi erano conventi soppressi.
A Racalmuto operava un ospedale “sotto la giurisprudenza dei
Padri fatebenfratelli giusta li loro privilegi”. Non vi erano ancora monti di
pegno.
In
compenso operavano due confraternite e cinque “compagnie”.
1. Confraternità di S. Maria di Giesù, li Rettori sono
Pietro Casucci, Pietro d’Agrò, Vincenzo Missana e Giovanne Farrauto; si fanno
ogn’anno nella Prima domenica di gennaro;
2. Confraternità di S. Giuliano, li Rettori sono Giovanne
d’Alaymo, Ippolito Fucà, Giuseppe Savarino e Vito Mantione, il loro governo
dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
3. Compagnia del SS. Sacramento, Governatore il Mo
R.do D. Filippo Algozini, congionti Mo Giacinto Scibetta e Mo
Giuseppe Di Rosa, il loro governo dura tre mesi, incominciando dalla domenica
infra “octavam Corporis”;
4. Compagnia del Thaù fondata nella Chiesa di S. Anna,
Governatore D. Calogero Sferrazza, congionti Sigismondo Borsellino e Diego
Emmanuele; dura il loro officio tre mesi, incominciando dalla Domenica più
prossima all’otto che ch’incide del mese, li presenti furono fatti all’8 Giugno
1731;
5. Compagnia dell’Anime del Purgatorio fondata nella
Chiesa di S. Micheli Arcangelo, Governatore Raimondo Borcellino minore,
congionti Rev.do Sac. D. Santo Farrauto e Santo La Matina Calello; il loro
officio dura quattro mesi incominciando dalla Prima Domenica di Gennaro;
6. Compagnia di S. Maria del Monte, Governatore Clerico
Coniugato Agostino Carlino, congionti R.do Sac. D. Pietro Signorino ed Onofrio
Busuito; il loro officio dura anno uno, incominciando dalla Prima Domenica di
Settembre;
7.
Compagnia
di S. Giuseppe, Governatore Dr D. Giuseppe Grillo, congionti Notaro Pumo ed
Ignazio Mantione; il loro officio dura quattro mesi incominciando dalla seconda
domenica di Gennaro.
8.
Ci viene fornito un dato
anagrafico di notevolissima importanza: sapendo quanto precisi erano gli uomini
della Chiesa, possiamo essere certi che davvero a Racalmuto, nel giugno del
1731, c’erano 1200 famiglie con 5.134 anime o abitanti che dir si voglia (in
media 4,28 componenti per ogni nucleo familiare). Nutritissima la compagine
ecclesiastica: 28 sacerdoti, di cui però ammalati cronici 24. In ogni modo un
sacerdote ogni 42 famiglie oppure ogni 183 abitanti. Ecco l’elenco:
1.
Il Mo Rev. Archipresbiter Dr D.
Filippo Algozini;
2.
Il Mo Rev. D. Salvatore Lo Brutto Vicario
Foraneo;
3.
Sac. D. Filippo Cino;
4.
Sac. D. Francesco Pistone;
5.
Sac. D. MichalAngelo La Mendola;
6.
Sac. D. MichalAngelo Rao;
7.
Sac. D. Ignazio
Laudito;
8.
Sac. D. Paulo Spagnolo;
9.
Sac. D. Gerlando Carlino;
10. Sac. D. Antonino Macaluso;
11. Sac. D. Francesco Torretta;
12. Sac. D. Gaspare Casucci;
13. Sac. D. Vincenzo Casucci;
14. Sac. D. Leonardo La Matina;
15. Sac. D. Calogero Pumo;
16. Sac. D. Giovan Battista Pumo;
17. Sac. D. Antonino Mantione;
18. Sac. D. MichalAngelo Savatteri;
19. Sac. D. Isidoro Amella;
20. Sac. D. Vincenzo Avararello;
21. Sac. D. Francesco De Maria;
22. Sac. D. Antonio La Lomia Calcerano;
23. Sac. D. Baldassare Biondi;
24. Sac. D. Pietro Signorino;
25. Sac. D.
Orazio Bartolotta;
26. Sac. D. Antonino d’Amico minore;
27. Sac. D. Ignazio Pumo;
28. Sac. D. Santo Farrauto.
Ma
le vocanzioni non mancavano; erano già diaconi: Melchiore Grillo ed il nostro
Servo di Dio padre Elia Lauricella. Baldassare d’Agrò aveva ricevuto l’ordine
minore del suddiaconato; c’erano 7 accoliti: Francesco Grillo; Vito Gagliano;
Vincenzo Amendola; Antonino Busuito; Giuseppe Alferi; Ludovico Amico; Diego
Martorana; semplici esorcisti: Gaetano Raspini e Grispino Tirone; giovani
lettori: Emmanuele Cavallaro; Vincenzo Alfano; Santo di Naro; Calogero Vinci;
Leonardo Castrogiovanne; un solo ostiario: chierico Ignazio Picone; i chierici
tonsurati erano Orazio Sferrazza, Francesco Savatteri e Nicolò Milano. Tutti
gli ottimati racalmutesi, o almeno quelli che cominciavano ad esserli nel
secolo dei lumi ma anche dell'irrompere di una nuova classe, quella borghese,
vi sono rappresentati. Le famiglie escluse, non sono ancora di riguardo. Tra
queste i Tulumello che poi domineranno. I Matrona mancano perché ancora non
scesi a Racalmuto.
Alcuni
signori amano essere chierici “coniugati”, forse per i benefici del Santo
Offizio: D. Domenico Grillo; D. Calogero Sferrazza; D. Paulo Baeri. Ad un
livello inferiore troviamo i chierici “coniugati” Agostino Carlino, Francesco
Farrauto e Giuseppe Chiovo.
La pletora dei sacerdoti era però
eccessiva e non tutti i ministri di Dio erano modelli di santità o almeno
disponevano di un pur ristretto bagaglio di nozioni teologiche e morali da
potere essere autorizzati al sacramento della confessione: solo cinque, oltre
all’arciprete, erano facoltizzati: il vicario Lo Brutto, uno solo dei Casucci:
Gaspare, don Francesco Torretta, don Baldassare Biondi e don Leonardo La
Matina.
E passiamo
ora ai conventi. Iniziamo dai Carmelitani.
Il priore
era un racalmutese DOC: il sacerdote padre Carlo Maria Casucci, assistito dal
sac. D. Pietro Paolo Roccella. Il padre lettore, il sac. Antonio Monticcioli
era in trasferta a Trapani. Stavano al Carmine, a beneficiare delle laute
rendite i fratelli – i “fratacchiuna” – fra Elia Salemi, Fra Angelo La Rosa e
fra Gerlando Montagna.
I
francescani conventuali erano quelli del convento di S. Francesco; dovevano
essere in quel momento in crisi: un solo sacerdote, padre Giuseppe Cimino – che
giureremmo essere di Grotte, e fra Paulo Surci (semplice “fratello”).
Non così
invece a S. Maria di Gesù: quattro sacerdoti, venuti tutti da lontana via a
godersi le tante rendite (P. Michelangelo da Lentini, P. Ludovico da Licata, P.
Giovan Battista da Mussomeli e P. Bonaventura da Canicattì) e quattro
“fratacchiuna” (fra Pasquale da Racalmuto, fra Gaetano da Cammarata, fra
Giiovanni Battista da Racalmuto e fra Geronimo da Racalmuto). Stavano al
convento attiguo alla chiesa; appartenevano all’ordine francescano dei Minori
Osservanti; coltivavano le feraci terre ove ora c’è il cimitero e sino al 1866
riuscivano a cavarne del buon vino, sia pure con alterna fortuna.
A S.
Giovanni di Dio, adibito soprattutto ad ospedale, non c’erano sacerdoti ma solo
due “fratelli”: fra Bernardo Sassi e fra Vincenzo Mercante, decisamente
forestieri. Le lamentele fatte al Papa da parte del vescovo Ramirez non erano
poi infondate.
Il convento
di S. Giuliano doveva essere chiuso da almeno mezzo secolo ed invece eccocelo
vivo e vitale – sia pure ora inquadrato nell’ordine di S. Agostino della Congregazione di Sicilia. Quanto sia ricco lo
vedremo quando commenteremo una dichiarazione dei redditi, con annesso stato
patrimoniale, del 1754. Qui dimorano tre sacerdoti (P. Agostino da Racalmuto,
P. Ignazio da Geraci e P. Anselmo da Adriano) e tre “fratelli” (fra Giuseppe da
Racalmuto, fra Agostino da Racalmuto e fra Giuseppe da Caltanissetta). I
fratelli laici dovevano sguinzagliarsi per le campagne per la “ricerca”, le
elemosine in natura, ad onta delle cospicue rendite.
Ed ora è il
turno del convento delle monache di S. Chiara. Vi pullulano ben 22 recluso, in
uno spazio che per quanto ampio costituiva una specie di carcere per donne di
diversa estrazione, di diversa età e persino di diversa cultura. Venivano
sepolte nella graziosa chiesa della Batia. Ora, il pavimento della vecchia
chiesa è ridotto a sala di conferenza. I loro resti umani vengono calpestati
senza rispetto alcuno, senza un ricorso, senza un fiore. Almeno quelle
derelitte del 1731 ricordiamole qui, con come e cognome.
L’abbadessa
era suor Domenica Rizzo ed è dubbio che fosse di Racalmuto. Le fungeva da vicaria suor Rosa Renda. Provenivano da
famiglie di spicco: suor Gesua Maria Lo Brutto, suor Maria Stella Sferrazza,
suor Maria Lanciata Di Benedetto, suor Maria Grazia Casucci, suor Maria
Crocifissa Signorino, suor Claradia Amella, suor Maria Gioacchina Brutto, suor
Angelica Maria Signorino, suor Francesca Maria Biondi, suor Maria Scolastica
Signorino; da forestieri o da famiglie non altolocate che riuscivano a
sistemare le figlie superflue tra le cosiddette clarisse, ove il pane
quotidiano era almeno assicurato: Suor Giuseppa Maria Caramella, suor Pietra
Margherita Zambito, suor Maria Serafica Zambito, suor Carla Maria Provenzano,
suor Antonia Maria Raspini.
E con loro,
le novizie Vita Vinci e Orsola Guadagnino. Tre “converse” – all’ultimo gradino
di quella opprimente gerarchica monastica – erano tutte del luogo: soro
Geronima Martorana, soro Elisabetta La Licata e soro Angela Rizzo. Un tratto di
penna dell’Algozini e poi più nulla per queste vite umane, per queste vittime
di una condizione femminile settecentesca, echeggiata appena dalla Maraini
quando ebbe a raccontare la lunga vita di Marianna Ucria. Ma qui non c’è
neppure il benessere del dominio aristocratico.
I benefizi
ecclesiastici sono appena quattro: uno è in possesso dell’arciprete e gli altri
sono semplici: quello di S. Antonio viene goduto da d. Gaspare Casucci; l’altro
di S. Maria dell’Itria da don Pietro Signorino, quello che lascerà tanto alla
chiesa del Monte; ed infine quello di S. Nicolò di Bari assegnato a don Gaspare
d’Agrò.
I mansionari, i preti salmodianti a pagamento in Matrice, sono ancora dodici, come aveva voluto il fondatore, l’arciprete Lo Brutto e, a scorrere la lista, ci si sorprende che autorizzati a ricevere le confessioni sono solo d. Salvatore Lo Brutto, d. Gaspare Casucci e d. Francesco Torretta; gli altri (don Filippo Cino, don Francesco Pistone, don Vincenzo Casucci, don Giambattista Pumo, don Isidoro Amella, don Gerlando Carlino, don santo Farrauto, don Antonino d’Amico e Matina e don Antonino d’Amico e Morreale) sono bravi a cantare le ore canoniche ma non sono ritenuti all’altezza delle confessioni, specie delle donne. Per converso don Baldassare Biondi e don Leonardo La Matina vengono ritenuti idonei ad impartire l’assoluzione dai peccati, ma sono per il momento tenuti lontano dai benefici economici che il cantare Vespro e Compieta fa conseguire. Don Nardu Matina non sarà mai beneficiale venendo a decedere nel 1733 (LIBER, n° 216); Baldassare Biondi (+ 29 ottobre 1771) farà carriera, diverrà vicario foraneo e raggiungerà la ragguardevole età di 82 anni (LIBER, n° 284).
Racalmuto non ospita eretici o scomunicati; è tutto sommato morigerato e rispettoso della religione e dei precetti della chiesa. L’Algozini può così rispondere all’apposito paragrafo del questionario:
1. Non vi sono scomunicati, , né sospesi, interdetti o
che non abbiano adempito la communione paschale, o non osservato le feste, né
publici usurarij, concubinarij, adulteri, solamente Lorenzo Scibetta è diviso
da sua moglie che ostinatamente abita in Aragona, Diego di Giglia da Maria sua
moglie che pure ostinatamente non lo vuole, siccome Giuseppe Lo Brutto di
Gaetana d’Anna sua moglie; né pure vi sono giocatori scandalosi né inimici;
2. Vi sono due maestri di scuola, rev.do sac. D. Calogero
Pumo ed il Diacono D. Melchiorre Grillo;
3. Quattro medici fisici dr. D. Giuseppe Grillo, dr. D.
Giuseppe Amelli, rev. Sac. D. Ignazio Pumo, ed il clerico coniugato D. Calogero
Sferrazza;
4. Chirurghi dui il clerico coniugato D. Giuseppe
Sferrazza e D. Antonino Amelle;
5. Due levatrici, Angela Rini e Maria Schillaci, ambi di
buoni costumi e sanno la forma del Battesimo.
Seguiamo ora, passo passo, come l’arciprete Algozini descrive la Matrice:
1. Il titolo della chiesa è Maria SS.ma
dell’Annunciazione ;
2. Si celebra la festa nel giorno proprio;
3. Non vi sono abusi;
4. La chiesa non è consecrata;
5. Il Padrone è il vescovo;
6. Fu eretta alli 20 giugno 4a Ind. 1621;
7. Nella Cappella di S. Maria del Suffraggiov’è la
Liberazione dell’Anime ogni lunedì e nell’ottava de morti ad septemnium per
breve concesso dalla Stà di Benedetto XIII di fel. mem. a 17 settembre 1728 e
nessuno altare ha Padrone.
Della struttura della Chiesa
1. Questa Chiesa Matrice è construita con due ordini di
colonne, con che si forma la nave e due ali;
2. Ha semplice tetto;
3. Non dona umidità;
4. Vi sono sei finestre, cioè tre con vitriate e tre
senza;
5. delle quali entra vento;
6. le pareti della chiesa in alcune parti sono di piedre
quadrati, in alcune con incrostatura in alcune incolte;
7. senz’erbe;
8. La fabrica da pertutto ben soda;
9. senza veruna servitù;
10. v’è choro situato nell’altare maggiore dell’istesso
sito della Cappella;
11. senza sedili o stalli distinti, ma fra breve vi si
faranno ad eccitazione del detto rev. Archiprete;
12. non v’è separazione di luoco per le donne;
13. il pavimento è di gisso intiero.
Disponibili anche notizie sullo stato dell’edificio e sul suo assetto interno:
1. Tocca alla Maramma la reparazione che ha onze 3.15.6
di rendite annue e cioè: dal sac. Isidoro Amella onze 2; dal rev.do sacerdote
don Vincenzo Casucci e consorti tarì 13.19; da Antonino di Salvo Ruggeri tarì
4.10; dagli eredi di Giovan Battista Petruzzella e consorti tarì 10.10; da
Giovanne d’Alaymo Trombetta tarì 8.5; dall’erede di Salvatore Corbo tari 8.2.
2. S’amministrano dalli quattro deputati della chiesa che
sono il rev. Archip. Dr. D. Filippo Algozini, il rev. Vicario Foraneo D.
Salvatore Lo brutto, don Francesco Pistone e don Gaspare Casucci.
L’Algozini
ci informa che «v’è dentro la Cappella del SS.mo Sacramento di questa Chiesa
Madre la compagnia del Santissomo Sacramento; l’officiali sono l’antedetto
rev.do arciprete dr. D. Filippo Algozini, M° Giacinto Scibetta e M° Giuseppe di
Rosa.» Aggiunge: «Dentro questa Matrice
chiesa non vi sono cappellanie se non le sacramentali che adesso sono il rev.do
sacerdote D. Francesco Torretta ed il rev.do sacerdote D. Leonardo La Matina.»
Abbiamo
peraltro «un beneficio di S. Antonio Abbate posesso come sopra dal rev.do sac.
Don Gaspare Casucci.» Al servizio della Matrice sono i chierici Pietro Santo
Maura e Santo di Naro: il loro stipendio e di 8 onze, quattro pagari dal rev.
Arciprete, due dalla Cappella del SS.mo Sacramento, onze 1.10 dalla Cappella di
Maria del Suffraggio e tarì 20 «d’altre tre Cappelle in ragione di tarì 6 per
una, oltre tarì 10: incirca di venti.»
Ed ecco, di estremo interesse storico, la descrizione e la disposizione degli altari:
1. Vi sono quattordeci Altari, il Maggiore;
2. quel del venerabile;
3. della SS.ma Annunciata;
4. di S. Maria del Suffraggio;
5. del SS.mo Crocifisso;
6. di S. Vito;
7. di S. Giovan Battista;
8. di S. Leonardo;
9. di S. Antonio Abbate;
10. di S. Ignazio;
11. della Ss.ma Assunzione;
12. delli S.ti tré Reggi;
13. di S. Giuseppe;
14. di S. Maria Maddalena.
«Per quante
diligenze s’abbiano fatto – soggiunge l’arciprete – non si sa dell’erezione di
ciascheduna.» Nel dettaglio: «Sono l’altaretti conservati nello stipite e non
ve ni sono portatili; sono intieri nelli sigilli delle Reliquie; ve n’è uno
[altare] privilegiato di S. Maria del Suffraggio; nessun altare ha padrone; non
hanno rendite per suppellettili e manutenimento, se non quelli che si devono
contribuire dalli celebranti secondo la tassa e reduzione ultimamente fatta. L’altare
però di S. Ignazio ha tarì 19 annui dovuti cioè: tarì 12 da Pietro Mulè paruzzo
in virtù di contratto per l’atti di not. Michelangelo Vaccaro a 10 settembre 7a
1713, e tarì 7 dal notaio Michelangelo Vaccaro in virtù del contratto per
l’atti del quondam notaio Francesco Pumo a 11 gennaio X a ind.
1717.»
Gravano
sugli altari vari pesi per messe:
1. La cappella del SS.mo Sacramento messe n° 163;
2. Cappella della SS.ma Annunciata messe n° 58;
3. Cappella di S. Giuseppe messe n° 144;
4. Cappella delli S. Tré Reggi messe 3;
5.
Cappella di
S. Maria del Suffraggio messe n° 914.
«Oltre d’altri sei Cappellanie cotidiane trattenute dalla detta Cappella del Suffraggio, secondo denota la Tabella in Sacrestia.»
L’inventario del Casucci.
Questo
l’arredo della chiesa e degli altari
secondo l’inventario del tempo:
«Questo è l’inventario di tutti i beni mobili
e stabili semoventi, frutti, rendite, raggioni azzioni e spese di qualsiviglia
sorte della chiesa Matrice di Racalmuto, sotto il di Primo Aprile 1731, fatto
per me D. Gaspare Casucci Economo di detta Chiesa con la presenza e
l’assistenza delli Rev.di Sac. D. Filippo Cino e D. Gerlando Carlino
previamente informati dei beni, frutti e rendite, e sono l’infrascritte:
La sudetta chiesa
Matrice è posta nella strada del Castello a frontespizio della Piazza;
ha d’un lato le case di M° Giuseppe Di Rosa e dall’altro le case della ven.le
Compagnia si S. Giuseppe.»
Qui il Casucci si addentra in una ricostruzione storica che non sembra avvalorata dai documenti da noi investigati. Ad ogni buon fine, quella ricostruzione casucciana la riportiamo egualmente:
«Fu finita di fabriche l’anno 1620: benedetta
con licenza di Monsignor Vescovo di Girgenti sotto li 20 Giugno di detto anno.»
A nostro avviso, c’è qui l’abbaglio della strana ripartizione della parrocchia
tra don Vincenzo del Carretto e don Paolino d’Asaro del 1608 ed il successivo
ricongiungimento delle due parti in capo alla chiesa dell’Annunciata sotto un
unico arciprete che a noi risulta essere don Filippo Sconduto. Il Casucci non ci
pare molto ferrato nella storia della sua chiesa.
Attendibile
invece quando parla delle Cappelle, di cui curava in definitiva
l’amministrazione:
La Cappella della SS.ma Annunciata fu fondata e dotata
da D. Gaspare Lo Brutto e Leonora d’Asaro con obbligo di 58 messe. [..] Li
superlettili di detto Altare, come di tutti gli altri altari e chiese sono li
seguenti:
In primis una Cappella bianca di lama, con sue
tunicelle, casubula, cappa, stole manipoli e palio;
Item una Cappella violacea di lama, con suoi Tunicelle,
casubula, cappa, stole, manipoli e palio d’altare;
Item una cappella virde, con sue tunicelle, casubula,
cappa, stole manipoli e palio d’altare;
Item una Cappella rossa, con sue Tunicelle, casubula,
cappa, stole manipole e palio d’altare;
Item una Cappella nigra di felba [13] con scuti ricamati, con sue tunicelle, casubula,
cappa, stole manipole e palio d’altare;
Item una casubula di stolfo russa , con sue stola e
manipole;
Item una casubula bianca d’asprino con manipola e
stola;
Item dui casubuli nigri, con suoi stole e manipoli;
Item dui casuboli violaci usati con stole e manipoli;
Item trè casubuli russi usati con stoli e manipoli;
Item una casubula bianca raccamata di seta usata con
stola e manipole;
Item una casubula verde usata con stola e manipole;
Item sei cammisi boni, cioè tre di tela d’Olanda e tre
di tela sottile, con suoi cingoli ed ammitti;
Item altri tre cammisi usuali per la giornata, con
suoi cingoli ed ammitti.
Altare maggiore
In primis un quadro di S. Pietro e Paulo di Pittura,
con cornice scartocciata indorata d’oro;
Item n° sei candilieri con suoi vasi e rami usati;
Item n° sei tabole per ornamento dell’altare, indorate
di mostura;
Item una cornice dell’altare indorata di mostura;
Item la carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due tovagli d’altare;
Item un tappito vecchio per detto altare.
L’ulteriore
precisazione che abbiamo dall’Algozini, datata 1° giugno 1731, parla anche di un dischio foderato di damasco verde usato.
Altare della SS.ma Annunciata
Item la statua della SS.ma Annunciata con l’Angelo, di
ligname indorati di mistura;
Item un Reliquario di Ligname indorato di mistura con
sue reliquie dentro;
Item due candilieri con sua croce usati;
Item una carta di gloria, con l’Imprincipio e lavabo;
Item due tovaglie usate per l’altare;
Item una cornice indorata di mistura per detto Altare;
Item tré pialli d’altare usati;
Item un lampero di ramo.
In più,
stando all’integrazione dell’inventario da parte dell’Algozini: sei candileri con suoi vasi novi indorati di
mistura con sei rami di talco novi.
Altare di S. Maria del Suffraggio
Item un quadro di pittura con sua cornice indorata;
Item sei candileri con la croce e sei vasi;
Item sei rami usati;
Item quattro candileri piccoli;
Item una carta di gloria col’imprincipio e lavabo con
le cornici indorate di mistura;
Item Item due tovaglie d’altare;
Item un palio di seta violaceo e bianco con cornice
indorata di mistura per detto Altare;
Item un lamperi di ramo novo.
Altare del SS.mo Crocifisso
Item l’Immagine del SS.mo Crocifisso con la croce
indorata;
Item un quedretto di Maria delli Setti Dolori con sua
cornice;
Item quattro candileri con sua croce usati;
Item una carta di gloria con l’Imprincipio e lavabo; con
“concice indorata” (v. Algozini);
Item un palio d’altare di pittura con cornice
indorata, che è “di stolfo violetto e rosso con gallone d’oro, novo”
(vedi inventario del 1° giugno 1731).
Integra
l’Algozini: sei candileri con sei vasi
indorati di mistura novi; sei rami di talco stagnolati novi;
Altare di S. Vito
Item L’imagine di S. Vito di ligname;
Item una tovaglia ed un palio d’altare usati.
Altare di S. Giovanni Battista
Item un quadro
con la figura di detto santo con la cornice;
item l’imprincio e lavabo usati, item un palio di
pittura;
itemdue candilera vecchi, ed una croce senza pede.
Altare di S. Leonardo
Item un quadro con la figura di detto santo;
Item una tovaglia ed un palio di pittura;
Altare di S. Antonio Abb.
Item la statua del santo di ligname;
Item quattro candileri con sua croce e rami vecchi;
Item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
Item una tovaglia per detto altare;
Item un palio d’altare di pittura;
Item un lamperi di ramo.
Altare di S. Ignazio.
Item il quadro con sua cornice indorata di mistura;
item quattro anegli per candeleri;
item una croce usata;
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
item un palio d’altare di pittura con cornice indorata
di mistura.
Altare della SS.ma Assunzione
Item il quadro con sua cornice;
item quattro candileri vecchi;
item carta di gloria con l’imprincipio e lavabo
vecchi;
item un palio d’altare di pittura con sua cornice.
Altare delli santi tre Reggi
Item il quadro di pittura;
item due candileri con sua croce
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo.
Altare di S. Giuseppe
Item la statua di detto santo con il suo Bambino di
legname indorati
Item sei candileri con suoi vasi e rami usati, e
croce;
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo
item un palio d’altare di seta vecchio con sua
cornice;
item due tovaglie per detto altare.
Altare di S. Maria Maddalena.
Item il quadro con la figura di detta santa;
item sei candilera con la croce, quattro vasi e
quattrorami;
item la carta di gloria con l’imprincipio e lavabo;
item palio d’altare di seta con cornice indorata di
mistura.
Altare del SS.mo Sacramento
Item una custodia di marmo con suo tabernacolo
indorato. Item un Padiglione di seta violaceo con sua guarnizione d’argento;
item quattro candileri con sua croce;
item quattro vasi per li rami;
item dui tovaglie per l’altare;
item un palio d’altare di seta con sua cornice
indorata.
L’Algozini
aggiunge: due padiglioni di tela
stampata; un portaletto di damasco rosso con suo gallone d’argento usato; sei
candileri con suoi vasi e rami di talco stagnolati, una campanella nova per
servizio delle messe e due padiglionetti per l’ogli santi.
Ovvio che è la sacrestia ove sono custoditi paramenti sacri, ornamenti vari, addobbi ed altro. Significativo l’inventario, anche perché potrà un domani servire per un museo parrocchiale veramente rievocativo della vita religiosa dei nostri antenati, contadini e pii.
Item dui crocifissi per la preparazione;
item dui chiomazzelli per detta preparazione verdi
usati;
item altri dui di tela per detta preparazione;
item due coverte di tela per detta preparazione;
item uno stipo grande con altri due piccoli a lato
novi;
item due coverte per il fonte battesimale di seta
violetta con frinza ed altra di coiro con frinza, usati;
item due dischi;
item un’ombrella per il fonte battesimale;
item quattro lanterni novi;
item una coverta di tela rossa sopra la boffetta della
cridenza;
item un portale di tela per l’organo;
item una stola di stolfo rossa;
item altra stola di damasco di diversi colori;
item una fodera per l’ombrella;
item un palio d’altare dinnanzi il battisterio;
item una sponza di ramo;
ietm un lamperi di stagno;
item una pisside con il piede di ramo;
item un altro vaso a forma di pegno con il piede
d’argento per il stabile;
item un baldacchino d’asprino con li quattro asti
indorati;
item un stendardo d’aspino, con altri due palietti del
medesimo drappo;
item un ombrello del medesimo drappo d’asprino con n°
venticinque campanelli d’argento di bolla;
item altri sei palietti, cioè due di stolfo e l’altri
di diversi colori, con suoi lanterni ed asti;
item altro baldacchino bianco ed un stennardo usuali;
item una sfera grande con il piede d’argento con la
lonetta indorata;
Item l’incensero e navetta con sua cocchiarella
d’argento;
item una sponza d’argento ;
item tre calici con piedi di ramo indorati, con tre
patene;
item altro calice con il piede d’argento con sua
patena;
item una cocchiara d’argento per il fonte battesimale;
item dui vasetti d’argento per l’oglio santo del
battesimo;
item altro vaso per l’oglio santo dell’estrema unzione;
item tre paviglionetti per il vaso del SS.mo Viatico;
item tre portaletti per la custodia;
item una tovaglia bianca di taffità con guarnazione
d’argento;
item altra tovaglia di taffità bianca vecchia;
item cinque corporali;
item n° undeci veli di calici di tutti colori usuali;
item n° dieci borze con suoi palli di diversi colori;
item cinque messali usuali;
item quattro missaletti;
item una cassetta con tre vasi di stagno con l’oglio
santo;
item un rituale e graduale vecchi;
item dui calamara di stagno con una bussola nel
battisterio;
item un particolario; item un sicchetto di ramo;
item due boffette nella sacrestia, tre cascie vecchie,
un scabello, un genuflessorio, tre tovagli di facci, dui chiomazzella di felba
russa usati, un crocifisso per il Pulpito, una cappa e tonicella neri lavorati,
item tre incerati, un tisello (o tusello v.s.) di legname, un triangolo di
ferro con cilio di cera, altro triangolo per le tenebre;
item quattro campanelli;
item una tela azola per la porta;
item tre confessionarij;
item una seggia per il SS.mo Viatico;
item un organo di cinque registri ed un polpito;
item tre trispiti;
item tre campane nel campanile, cioè una grande di sei
cantara, altra mezzana di due, ed il segno.
Si chiude qui l’inventario che reca la sottoscrizione del sacerdote D. Gaspare Casucci, economo e quella del sacerdote D. Gerlando Carlino.
Nelle
visite pastorali, il clero doveva sobbarcarsi alle spese per il vescovo,
vettovaglie , cibarie ed ospitalità per il giorno e per la notte. L’arciprete,
il vicario foraneo ed il procuratore del clero partecipavano all’eventuale
Sinodo. Per il cosiddetto “cattedratico” l’arciuprete doveva sborsare 6 tar’
annui. Ministero della cura si chiamava l’ufficio sacerdotale generale.
Sappiamo che in quel tempo era parroco Filippo Algozini di Prizzi, consacrato
sacerdote nel 1712. Quando giunge il Gioieni era parraco di Racalmuto da «tre
mesi e giorni dieci»; era di nomina pontificia (con breve di papa Clemente XII)
e nel 1731 aveva 43 anni.
L’arciprete
«risiede ed amministra la cura dell’Anime per se stesso e li suoi coadiutori
sono il rev.do sac. D. Francesco Torretta ed il rev.do sac. D. Leonardo La
Matina cui le si somministrano onze 12». Due chieri sono inoltre al servizio
della Matrice, a pagamento.
Ancor oggi
sono godibili i libri parrocchiali, in definitiva per l’amorevole cura
dell’arciprete Algozini, guarda caso: non era neppure racalmutese. Trattasi dei
seguenti libri: «parrocchiali, cioè de Battezati, de Matrimonij, dello stato
dell’Anime (invero, al momento v’è un salto delle numerazioni delle anime
passandosi da quella del 1654 a quella del 1755), de morti, osservando il
metodo prescitto dal rituale romano con alfabettarsi; libri de confermati non
si ha ritrovato per quante diligenze abbia fatto.»
“Sermoni
pastorali” ogni domenica e tutte le feste comandate; la dottrina cristiana
viene insegnata il dopo pranzo di tutte le feste dall’arciprete che si serve “della dottrina di Bellarmino in
volgare per li figlioli" ” del "catechismo romano" per gli
adulti. Una menda: “non v’è scola per la dottrina”.
Ancor oggi
ammiriamo il primo libro delle “denuncie da farsi al popolo” che è proprio
dell’Algozini: ivi «ogni domenica si denunciano tutte le feste e vigilie e si
pubblicano gli editti del vescovo e del S.to Officio”. Quest’ultima
denominazione – che avrebbe fatto drizzare le orecchie di Sciascia – resta solo
un flatus vocis, visto che nulla di orripilante è dato di rintracciare nel
citato volume parrocchiale. Leggiamo, ad esempio, questo tediosissimo bando
(come si vedrà non vi è nulla degno della Santa Inquisizione, almeno nella
versione ormai corrente): «Avendo pervenuto alla notizia del Procuratore
Generale de’ Santi Luoghi di Gerusalemme che molte persone abbiano detenuto,
impedito, occupato, sottratto, et in altro uso
convertito l’elemosine, legati, denari, ed altri, in qualsivoglia modo
spettanti a detti Santi Luoghi, essendovi anche di tal occupazione, detenzione,
sottrazione et impedimento scienti alcune persone i quali per rispetto umano
non vogliono rivelarlo, per ordine di Monsignore Ill.mo vescovo di Girgenti si
fa canonica monizione a tutte le suddette persone che dovessero rivelare, e ciò
fra il termine di giorni 15, cinque de’quali se l’assegnano per il 1° termine,
5 per il 2° e 5 per il 3°, quale spirato e non fatti li suddetti riveli si
procederà da esso Mons. Vescovo e Sua E.C.V. alla fulminazione della sentenza
della scomunica contro li scienti e non revelanti li detinenti, occupanti,
impedienti e sottraenti l’elemosine dìsuddette. – 1731 Xa ind. Ottobre.» L’avrà spegato l’arciprete Algozini a quei
basiti contadini racalmutesi, tutti alla messa della domenica? Se no, davvero
avevano poco da capire. Così come anche noi stentiamo a scoprire le ragioni che
spingono il “devoto e santo vescovo” Gioieni a quelle veementi minacce di
scomunica … contro ignoti. A meno che, dopo l’interdetto, erano proprio i preti
locali ad accaparrarsi i proventi della vendita delle bolle della crociata; in
questo caso erano davvero faccende interne e prudenza voleva che si si facesse
scandalo. Avrà l’Algozini farfugliato qualcosa per non disobbedire al vescovo
ed al contempo non disorientare i suoi parrocchiani, i nostri antenati?
In quel
periodo approda a Racalmuto M° Filippo Agostino Bianco ed intende sposare
“Marca Peri, schetta, figlia legittima e naturale di M° Rosario e Vita Peri di
questa suddetta terra di Racalmuto.» Il cognome Bianco fu celebre anche ai miei
tempi per la spiccata personalità di don Pasqualino. Il Pepi è patronimico
scomparso da Racalmuto a memoria d’uomo.
Mastro Filippo Bianco era stato davvero un girovago e fu fatica improba per
l’amanuense della Matrice trascrivere tutti quei toponimi esteri in cui il
nubendo aveva dimorato più o meno a lungo: dalla Plagia del Marchesato di
Brandeburgo alla terra di Aisein, ove si recò quando aveva 29 anni; «indi andò
a travagliare da lavorante» in un paio di città estere e dopo finì a Proohoki
per approdare a Vienna, passare in Lungaria, a Preseburg, in Raap, in Ophm.
Ritorna a Vienna, ma non definitivamente: passa a Craaz e quindi a Piumma.
Finalmente ritorna in Sicilia “con un vascello inglese” «e stette trè mesi in
Palermo, di là un mese al Mazzarino, poi quindeci giorni a Butera, indi nove
mesi in questa terra di racalmuto», ove intende accasarsi. Per stabilire lo stato
libero, povera curia arcipretale!. Ma ci riuscirono: nessuno ebbe da eccepire
dopo le pubblicazioni del 29 giugno, del 5 e 22 luglio del 1733. Pubblicazioni
peraltro fatte gratis. E così: «desponsati fuerunt per me don Franciscum
Torretta cappellanum , de licentia Parochi, sub die 24 julii 1733. Testes
fuerunt Gaspar Giglia et Nicolaus S. Angelus, et postea benedicti fuerunt per
sacerdotem Salvatorem Lo Brutto. Registrati
gratis.» Frattanto una famiglia riemergeva dopo un appannamento, la
famiglia Savatteri. Il 2 febbraio 1732 il chierico Giovanni Savatteri, dovendo
accedere all’ordine subdiaconale, può dichiarare pubblicamente che gli è stato
costituito questo cospicuo “patrimonio”: una Cappella di onze dieci annuali con
l’onere di Messe dieci fora data nell’Altare di S. Leonardo, in Serradifalco,
come appare per contratto di fundazione ed elettione stipulato per l’atti di
notaro Simone Boni sotto li 14 gennaro 1732; ed in supplemento una vigna
consistente in migliara cinque con tumuli dui e mondelli dui di terre vacue
confinata con la vingna di notarr Michael Angelo Vaccaro, e altri confini,
nella contrada di Bovo, e numero cinque case conlaterali confinati con le casi
di D. Vincenzo La Matina nel quartieri del Monte come appare in virtù di
donazione stipulata per l’atti di Notari Nicolò Pumo.» La formula di rito si
concludeva con questo “monitorio”: «pertanto se alcuno sapesse che detto
patrimonio sia simulato, fiduciario, o che non sia bastante o di realtà lo
venghi a denunciare.»
A S.
Giovanni di Dio c’era l’ospedale. Affidato ai padri Fatebenefratelli, questi –
e non solo allora – parevano più intenti a farsi i fatti loro che a badare
all’assistenza degli ammalati di Racalmuto. Ma, quando subivano degli “sgarbi”,
si avvalevano delle censure religiose dei loro confratelli della Matrice per
tentare di ritornorare in possesso dei loro beni, violentemente asportati. «Si
notifica ad ogn’uno – ci tramanda l’Algozini – qualmente nel mese di dicembre
del 1732, avendo andato il P. Priore del venerabile Convento di S. Giovanne di
Dio per alcuni affari di detto venerabile convento nella città di Palermo, in
detto tempo, per causa della sua assenza fu fatto notabile danno al detto
convento con averci derubato molto mobile,come formento, sommacco, oglio, e
robba di tela, e molta robba di comestibile ed altro in grave danno e
detrimento del detto venerabile convento, e perché vi sono alcune persone
scienti dell’antedetto, e per rispetto umani non vogliono rivilarlo, intanto
fra il termine di giorni quindeci … avessero da rivelare tutto quello e quanto
sanno di verità altrimenti detto termine elasso e non fatto rivelo alcuno dalli
scienti dell’antedetto, si procederà contro di essi dalla G.C.V. a fulminazione
di scomunica. 1733 XI Ind. Primo 8 e 15 Marzo.» La Gran Curia Vescovile non
credo che abbia sortito effetto alcuno da questa minaccia di scomunica contro
ignoti: voler spezzare con la paura dell’inferno il senso d’omertà che già
allora doveva essere forte a Racalmuto, era pia illusione. E poi a vantaggio di
chi? Di un religioso del Continente che sopra S.Anna ci stava solo per
arraffare le rendite che erano state distolte da Girolamo del Carretto e sua
moglie Melciorra Lanza da un antico, umanitario scopo: la cura degli ammalati
dereletti.
In quel
tempo le feste particolari di Racalmuto, almeno quelle che si celebravano in
Matrice, erano quelle che celebrative di: «S. Giuseppe, SS.mo Crocifisso, S.
Antonio Abbate» nonché quella della SS.ma Annunciata. Non erano, però,
occasioni di peccato o motivi per dar scandalo: «non vi sono male consuetudini
– affermava l’Algozini, e noi dobbiamo credergli – e le vedove per la mestitia
giungono più tosto il tempo della Messa e così ancora le zitelle spose.» Il
pudico vescovo Gioieni poteva star dunque tranquillo.
Sontuose
processioni, si avevano, poi, per il SS.mo Sacramento, nel giorno del Corpus
Domini e per tutta l’Ottava. Inoltre, il giorno delle Rogazioni,
dell’Ascensione, nel giorno di S. Marco, in quello di S. Maria di Giesù, di
Maria del Carmine e di Rosalia:
Ci viene
descritta una processione solenne: la processione del Santissimo «si fa come
quella della Cattedrale; le mazze dell’ombrella e Baldacchino si portano dalli
Giurati senza disparere, con tanti lumi quanto intervengono alla Processione,
tanto di confrati quanto di regolari e clero; la spesa del lume è somministrata
d’ogn’uno di per sé o dal Corpo della Communità.» L’arciprete lamentava
«l’abuso che alcuni regolari portano la Croce senza pallio, ne’ Defonti.»
Ci colpisce
la meticolosità con cui andavano celebrati gli atti fondamentali della vita
religiosa. Il battesimo: «si trasferisce poch’ore dalla nascita del figliolo;
senza necessità non si battezzano infanti in casa; nel sabato santo e nel
precedente della Pentecoste con si battezza con rito solenne.» Noi moderni
difficilmente riusciamo a comprendere come mai quello che per noi è atto
d’amore, per l’arciprete Algozini un abuso che intende assolutamente sradicare:
«non s’ha potuto riparare – accusa – al disordine di alcune madri tengono
l’infante in letto ante annum». E se anche i genitori facevano l’amore, il
bimbetto di un anno poteva davvero scandalizzarsi? Prurito clericale.
L’Eucarestia «si porta all’Infermi giusta la forma
prescritta di Paulo V, con diciotto lumi» a spese della Compagnia del SS.mo
Sacramento: il clerico accompagnava il sacerdote con il Rituale e l’Acqua
Santa. Quanto al sacramento della Confessione – tema scottante – era assicurato
che «le sedie confessionali stanno il Logo aperto della Chiesa con le
finestrelle e latte minutamente perforate, e con le grate spesse di legno. …
Non si ammettono le donne di confessarsi
di faccia a faccia.» Il problema è quello degli infermi che vengono
confessati in tempo per colpa dei medici che «il più delle volte … non
osservano la Chiama» E l’Algozini incalza: «il disordine che corre circa
l’infermi s’è che senza tal necessità alle volte dimandano il SS.mo Viatico ad
ora intempestiva.»
Ovviamente
«li matrimonij si celebrano in chiesa, con la messa pro sponsis, non in casa,
se non con licenza del Vescovo [come abbiamo visto per il pittore Di Benedetto,
n.d.r.]». Sta iniziando l’indagine
ecclesiastica di appurare preventivamente se la volontà è davvero libera: «si
sta introducendo – ci segnala l’Algozini – d’esplorarsi la volontà delli sposi
separatamente.» Il guaio era che già i nubendi qualche carezza se la
scambiassero prima delle nozze. Apriti cielo! «Li sposi alle volte – esagera
l’Algozini – coabitano prima di contrarre il Matrimonio per verba de’ presenti
ma occultamente.»
Il rituale della morte è da brivido: «lo fa il Parroco quest’Officio per se stesso quando non ha altra occupazione». In ogni caso si segue un testo dovuto al Principe di Ramacca (sarebbe da cercare) e ci si attiene al Rituale di Paolo V.
Poi le
esequie: «si osserva il Rituale ad
amussim (a puntino); si paga di mercede per ogni defonto sepellendosi nella
Parochia a ragione di tarì 8.10, cioè tarì 3 per sepoltura e tarì 4 per obitoe
tarì 1.10 per Croce.» Abbiamo notato una lievitazione del prezzo della buona
morte nel corso del Seicento che ora
diviene decisamente alto. Intanto, scemava il tenore di vita dei meno abbienti
e tanti che per orgoglio giammai avrebbero chiesto l’elemosina per il punto di
morte sono ora costretti a farlo ed a
seppellire i loro morti nella carnaia della chiesa “gratis pro Deo”. Aspetto
questo che francamente ci turba. Abbiamo pertanto una volta stigmatizzato il
costume alquanto lugubre di speculare anche sulla morte da parte delle autorità
ecclesiastiche, asserendo:
«I preti - allora - collaboravano, anche
nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda fiscale era allora,
come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale
quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i suoi diritti
“dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e,
poi, tasse - e tante- di natura religiosa.
Queste ultime, secondo una nostra stima, erano la metà
di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate
primizie) ai “diritti di quarta” della
Curia vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di
Santa Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che
fare con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti
balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh!
la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.»
Il passo
della relazione Algozini che abbiamo
prima riportato, se non giustifica l’asprezza del tono, una qualche
ragione ce la dà.
E se si
voleva una sepoltura in altra chiesa, aumentava il costo: «in altra chiesa tarì
5 ne si paga altro funerale se non che la quarta della cera». Anche per i
bambini c’era la «quarta di Monsignor Vescovo, però si pagano soli tarì 1.10 e
competisce a Monsignor Vescovo la quarta parte tanto dell’obito de grandi
quanto dell’obito dei figlioli.» Una nota di costume: «non vi sono abusi delle
donne dolenti e congionti del defonto». Dobbiamo arguire che l’usanza delle
prefiche o si era estinta o si era attenuata fino a non apparire un abuso agli
occhi dell’arciprete Algozini.
Nel tempo della Quaresima, un apposito predicatore veniva chiamato dal di fuori per le sue roventi omelie volte al pentimento ed alla redenzione. E questo nell’ampia Matrice. Ciò invece non si reputava indispensabile nel tempo dell’avvento. Occorreva risparmiare, anche perché le spese per il predicatore incombevano sull’Università: pare che ascendessero ad un’onza e 2.5 tarì.
Erano
compiti della parrocchia: a) benedire e distribuire le candele; b) fornire le
palme nei giorni debiti ; c) e ciò a carico dell’arciprete; d) benedire e
distribuire le ceneri; e) benedire solennemente il fonte battesimale, ogni anno
nel sabato antecedente alla Pentecoste; sguinzagliare i sacerdoti per la
benedizione delle case. Allora come oggi.
I problemi
dell’aggiornamento del clero locale in materia di morale e nelle questioni
teologiche? L’Algozini ragguaglia di avere «istituito un’adunanza di casi
coscienza e di sacra scrittura due volte la settimana [anche se] non v’è
costituzione che la precetti; il metodo che si propone e risponde d’uno
dell’adunati il caso della coscienza, ed al punto della sacra scrittura. Tiene
appresso di sé la Bibbia sacra, il cristiano instruito del P. Segnari ed altre
sue opere, il Nesembergh, Crasset, ed altri ascetici; di Morale, il Bonacina
Viva, Sayro, Azorio, Toleto ed altri
simili.
Trascriviamo
ora pedissequamente il capo sesto, che contiene notizie di dettaglio molto
importanti per comprendere la congiuntura storica di quel momento.
«Circa le
notizie deve dare il Paroco della menza Parochiale, del beneficio e della
persona. Della persona [del Parroco]: il suo nome è D. Filippo Algozini di
Prizzi, d’anni 44; è sacerdote, Dottore in filosofia e teologia, revisore de’
libri nella Corte Archiepiscopale di Palermo.
«Il
beneficio ha Ciesa propria [come abbiamo sopra descritto];
«Si chiama
l’archiprestato di Racalmuto, sotto titolo della SS.ma Annunziata; l’è stato
conferito della S. Sede; [di benefici, l’arciprete] ne possiede uno solo, [ed
è] beneficio libero. Le rendite sono un tumolo di formento e un tumolo d’orgio
per ogni casa, le vedove però un solo tumolo di formento, esclusi li fuggiti,
miserabili e mali pagatori. Non vi sono beni alienati né usurpati; e questi
sono Primizie, perché le decime tutte spettano a Mons. Vescovo e Catedrale.»
Ci viene
qui spiegato il termine Primizie che pare fosse, dunque, una pretassazione a
favore del Parroco; mentre le decime vere e proprie – quelle che si facevano
risalire al celebre privilegio del 1099 – erano di pertinenza del Vescovo e dei
Canonici della Cattedrale e venivano sottratte ad ogni ingerenza del locale
arciprete.
Sulle
Primizie arcipretali gravavano pesi ed oneri non indifferenti: 12 onze per i
cappellani; 4 onze per i sacrestani; tarì 6 per il «catredatico»; onze 5 per il
Seminario di Girgenti; tarì 20 per diritti erariali; onze 12 per aggi
esattoriali; tarì 6 per la cera di S. Gerlando; tarì 6 per “l’oglio santo”;
onze 4 «per sollennizzare la festa di Natale»; onza 1 «per la festa di Pascha»;
onze 4 «per l’altre feste mobili dell’Anno, cioè Pentecoste, Ascensione,
quadragesima, tenebri e simili; onze 2 per la Candelora; tarì 24 per le palme;
onze 3 «per spese a minuto di Santuzzi, incenzo, libri parrocchiali, censi di
confessionarij, purghe di sepolture, conze di vasi d’argento ed altri; onza una
e tarì 18 per lavare la biancheria della chiesa; onze 7 per la quarta funerale
incirca; onze 4 per sartatetti di superlletili; onze 2 per candele a chi paga
la primizia; onze 4 “per provedere gli Altari”; [circa] onze 3 per “peregrini,
spesa d’Erarij della G. C. Vescovile, visita, di cui non se ne sa il proprio
stabilimento” ». Insomma, sull’arciprete Algozini gravavano, a suo dire, oneri
per 70 onze e 20 tarì.
E allora
vediamo quali erano gli altri benefici.
«Delle
notizie deve dare il paroco circa i Legati e celebrazione de’ Messe»,
s’intitola il capo XI. Il parroco, in effetti, è tenuto a celebrare messe:
«In tutte
le feste solenni e domeniche dell’anno; per li fratelli e sorelle di S. Maria
del Soffraggio due messe solenni nell’anniversario, una nel primo lunedì di
quadragesima ed altra nell’ottava dei defonti, ed una messa cantata cotidiana
conventuale; per li fratelli del SS.mo Sacramento, una messa cantata
nell’anniversario de defonti. Per il rev.do archipreste dr. D. Salvatore
Petrozzella una messa cantata nel Lunedì del Corpus Domini; per D. Geronimo
Provenzano una messa cantata nel giorno del suo anniversario; per Giovanna
Grillo una messa cantata nell’ultimo vennerdì d’agosto.»
«La Cappella
della SS.ma Annunciata tiene obligo di far sodisfare l’infrascritte messe,
cioè: per l’anima di Don Gaspare Brutto messe n° dieci per reduzione fatta dal
fu Ill.mo Monsignor Vescovo de la Pegna a 9 settembre 1727, in virtù di
testamento del detto rev.do di Lo Brutto per gli atti di notar Natale
Castrogiovanne a 3 ottobre prima
Indizione 1617: al presente si pagano per Domenico d’Alaimo sopra li beni da
lui possessi messe 10; Per Leonora e Bartolomeo d’Asaro messe n° 43 cioè per la
detta Leonora n° 28 e per d. Bartolo n° 15 come per detta reduzione fatta dal
dettoIll.mo de la Pegna nel di sopra citato, in virtù di testamento di detta
Leonora per gli atti di notar Pietro Bell’omo ad 8 febraro prima indizione
1663: al presente si pagano cioè onze 2 per Onofrio Busuito ed onze 1 per
l’eredi di Giuseppe Macaluso Alessi sopra il loro beni: messe n° 43; per tutti
quelli avessero fatti legati alla detta Cappella Messe n° 5 ordinati dal detto
Monsignor della pegna per detta reduzione: messe n.° 5».
La Cappella
del SS.mo Sacramento era gravata dall’obbligo di n° 162 messe e cioè n.° 29 per
l’anima di donna Melchiora Paruta Ramirez, giusta atto del notaio
Castrogiovanne del 18 maggio 1592 ed a spese del Principe di Campofiorito; n°
24 per Costanza Lo Brutto, in virtù di atto del notaio Michelangelo Morreale
del 5 dicembre 1636, con un onere di un’onza dovuta da Simone Sorce e tarì 21
dovuti dagli eredi di Salvatore La Matina; n° 9 per Francesca Casuccio per atto
del 1638 ; n.° 29 per Orsola d’Afflitto per atto del 1654; nà 1 per l’arciprete
dr. D. Salvatore Petrozzella; n° 43 per mastro Libertino Falletta; n° 4 per
soro Anna di Palermo; n.° 12 per il sacerdote don Santo La Matina; n.° 10 per
il sacerdote D. Antonino Macaluso; n° 1 per soro Grazia d’Agrò.
Nella
Cappella di S. Giuseppe dovevano recitarsi queste messe: n° 141 per l’anima del
rev.do sac. D. Giovan Battista d’Acquista; n° 1 per don Geronimo Provenzano; n°
2 messe cantate per l’anima dell’arciprete dr. D. Pompilio Sammaritano, per
obbligo della Compagnia di S. Giuseppe.
Nella
Cappella di S. Maria del Suffragio si celebravano: n° 8 messe per l’anima di
Baldassare Promontoro; n° 9 per don Gaspare Lo Brutto; n° 2 per D. Giovanni
Macaluso; n° 5 per Antonino Sferrazza; n° 12 per Giovanna Grillo; n° 10 per il
rev. Sac. D. Giuseppe Sanfilippo; n° 17 per il sac. D. Girolamo Scirè; n° 43
per Francesco La Licata; n° 56 per
Antonino Sferrazza; n° 14 per il sacerdote don Giovan Battista Baeri; n° 4 per
Vincenzo Castronovo; n° 240 “per diverse persone descritte nella giuliana”; n° 72 per il sac. Don Giuseppe Vella; n° 4
per Giuseppe La Matina; n° 2 “per l’anima di tutti li contribuenti; n° 10 per
il sac. D. Giuseppe Lo Brutto; n° 10 per d. Giuseppe Lo Brutto e Petrozzella;
n° 10 per il notaio Isidoro Lo Brutto; n° 6 per don Francesco Lo Brutto; n° 58
per il sac. Don Calogero Cavallaro.
In quella
“delli Tré Regi” abbiamo n° 3 messe per
don Santo La Matina.
Importante ancora il ruolo delle associazioni cattoliche laiche; in sommo grado le cosiddette Compagnie. A capo stava il Governatore con due assistenti che venivano chiamato “congionti”. Spettava loro l’amministrazione dei beni e venivano eletti con voto segreto. Duravano dai pochi mesi ad un massimo di un anno, ma potevano venire rinnovati. La carica era a titolo gratuito. La Compagnia aveva rendite che spesso risalivano alla notte dei tempi.
In particolare, abbiamo informazioni sulla compagnia del SS.mo Sacramento cui si deve la chiesa di S. Tommaso d’Aquino. «Fu fondata per quanto s’ha potuto con diligenza indagare nell’anno 1632: in tempo di Urbano VIII»; da quel tempo comunque intervennero le approvazioni episcopali ad ogni successione sino al predecessore del Gioieni. La confraternita aveva sede nella chiesa di S. Tommaso d’Aquino, santo che la Compagnia festeggiava nel giorno della sua ricorrenza. Ancora, a quel tempo, la chiesa non era consacrata ed era sotto il padronato della medesima Compagnia. Della chiesa si ignorava il tempo dell’erezione, ma, appunto per ciò, diveva essere piuttosto vetusta. Diciamo che risaliva per lo meno alla prima metà del Seicento. «La struttura della chiesa è a forma di oratorio; il tetto di tavoli è buono e non piove. Vi sono due finestre impannate; le pareti sono buoni; vi sono sessanta stalli di legno per fratelli; la fabrica si fa a spese delli fratelli. Ha d’entrata onze 12 dovute da don Francesco Maria per gabella di duodeci pecori di detta Compagnia; di più tarì otto dovuti annualmente da mastro Desiderio Troisi sopra una casa sita in quartiere di S. Margheritella confinante con mastro Giovanne Di Vita e Filippa La Caro, lasciateci da Costanzo di Benedetto in virtù di testamento; di più tiene Tumulo 0-1-2 di terra incirca nella contrata al Mulino Vecchio [..]; di più tarì 4 di rendita .. sopra vigna e terreno nella contrata della Noce; di più tarì 7 sopra vigna e sommacco nella contrata di Casali Vecchio.» La Compagnia teneva fiscelle di api, n° 50 pecore e da ultimo i Fratelli dovevano versare nelle casse sociali 5 grana al mese. Il loro vestiario era caratteristico: sacchi bianchi con mantello bianco orlato di nero e con la figura del SS.mo Sacramento, figura che era reiterata negli stendardi e nelle “verghe”. Nel 1731 erano iscritti 80 fratelli; dopo un noviziato ed una “prova”, con voto segreto di “tutti gli officiali e fratelli” si veniva ammessi alla Fratellanza.
La
tumulazione avveniva di solito nelle chiese. Il cimitero principale era alla
Matrice. «Nel pavimento della chiesa – scrive sempre l’Algozini - vi sono n° 10 sepolcrare; non sono sotto le
pradelle dell’Altari; ve ne sono quattro Padronati: una delli fratelli del
SS.mo Sacramaneto, altra delli Petrozzelli, altra delli Brutti ed altra
dell’Acquisti.» Sorprende che non si citi quella dello sciasciano personaggio
di don Santo d’Agrò.
Una notizia
piuttosto inestricabile è la seguente: «vi è cemiterio dentro l’istessa chiesa
murato da per tutto, e però non ci è chiave, né Croce, né speciale benedizione
del Vescovo.» Un’antica “carnaria”, pensiamo noi, che nel 1731 non solo era
andata in disuso ma era stata, forse per motivi igienici, totalmente sotterrata
ed ermeticamente chiusa. Riteniamo che si tratti di quella che frettolasamente
dovette essere aperta al tempo della gavissima peste del 1671.
Notizie di
contorno: il campanile era alto 65 palmi circa e non era coperto ma poteva
venire raggiunto agevolmente con una scala interna definita comoda; era munita
di tre campane come abbiamo già detto che erano state benedette dao precedenti
arcipreti su licenza del vescovo. Il campanile non aveva entrata autonoma: «non
v’è porta perché si salisce dalla medesima chiesa.»
Notevole la
sacrestia: «è a tetto, vi sono tre finestre impannate, in una parte umida. Il
pavimento [è] di gisso; non vi sono armarij; è mediocremente provista di
superlettili sacri secondo l’inventario; la spesa di providerla appartiene al
rev.do Arciprete e legatarij di messe.»
La Matrice
non era subordinata ad alcuno: non v’era jus
patronatus come ad esempio a Grotte che determinerà il cosiddetto scisma
alla fine dell’Ottocento. Al tempo dell’Algozini «non c’era casa Parochiale, né
cose mobili destinate alli Rettori, ma ogni soccessore o se la loca o se la
fabrica per sé». Singolare caso quello della Cappella del Santissimo
Sacramento, in possesso di «cinquanta fiscelli d’api con l’eredi del rev.do
sacerdote D. Calogero Cavallaro» (+ 12 gennaio 1730).
[1] )
PARTE II. libro I - DELLA SICILIA NOBILE [VILLA BIANCA] VENTIMIGLIA -
TERRA BARONALE, pag. 74 e segg.
[2] ) Leonardo Sciascia, Il consiglio d’Egitto, Adelphi, Milano 1989, pp. 64-66
[3] )
Leonardo SCIASCIA, Le parrocchie di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag.
21.
[4] ) Leonardo SCIASCIA Le
parrocchie di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag. 19.
[5] ) Girolamo M. Morreale, S.J. – Maria SS. del Monte di Racalmuto –
Racalmuto 1986, sparsim ma in particolare p. 49 e ss.
[6] ) Girolamo M. Morreale, S.J.
Maria SS. del Monte …, op. cit., p. 67.
[7] ) Leonardo Sciascia, Prolusione a Pietro d’Asaro .., cit. p.
20.
[8] ) Giuseppe Adamo, Storia di Delia dal 1596 ad oggi, Palermo 1988, pp. 163; 171 e
riproduzione policroma dopo p. 192.
[9] ) P. Fedele da S. Biagio, Dialoghi familiari sovra la pittura
col Sig. avvocato D. Pio Onorato palermitano, Palermo 1788.
[10] ) )
Il Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’Isola di Sicilia dall’anno
MDCCXIII al MDCCXIX – Documenti raccolti e stampati per ordone della Maestà del
re d’Italia Vittorio Emanuele II – Torino, Eredi Botta 1863, pp. 304-305.
[11] ) Calogero Valenti,
Grotte – origini e vocende storiche, Grotte 1996, pp. 199-210.
[12]) Tra
le carte della Matrice è però custodito un documento che si riporta
in appendice che comprova la rendita della Cappella della Maddalena, risalente
appunto a don Santo d’Agro, che si continua apercepire ancora nel Settecento e
nell’ Ottocento.
[13] ) Drappo di seta col pelo
più lungo del velluto: felpa.
[14] ) piccolo sopraccielo,
baldaccino = dossello.
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