Racalmuto
si consegnava al fascismo dopo una freneteca corsa allo zolfo. Un indice è
quello demografico che è bene qui segnare:
Abitanti di Racalmuto
Anno
|
N.ro abit.
|
Indici 1825 =100
|
1825
|
7.170
|
100
|
1831
|
7.806
|
108,87
|
1852
|
9.030
|
125,94
|
1869
|
12.252
|
170,88
|
1894
|
13.384
|
186,67
|
1901
|
16.029
|
223,56
|
1911
|
14.398
|
200,81
|
1921
|
13.045
|
181,94
|
1931
|
14.044
|
195,87
|
1936
|
13.061
|
182,16
|
1951
|
12.623
|
176,05
|
1961
|
11.293
|
157,50
|
1980
|
10.000
|
139,47
|
In quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i
quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il saldo
emigratorio sono stati:
Comune di Racalmuto
|
|
|
|
|
|
|
|
Periodi
|
Incremento totale
|
incremento naturale
|
saldo migratorio
|
1861 -1 871
|
3,6
|
8,86
|
-5,26
|
1871 - 1881
|
20
|
18,43
|
1,55
|
1881 - 1901
|
09,65
|
13,26
|
-4,64
|
1901 - 1911
|
-10,8
|
11,32
|
-22,12
|
1911 - 1921
|
-14,6
|
4,19
|
-18,79
|
1921 - 1931
|
11,4
|
9,93
|
1,47
|
1931 - 1951
|
-06,72
|
9,97
|
-16,69
|
Nel
periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a quello
naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello
successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una
immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende il
sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio
successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del
18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di
tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso
emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951).
([1])
Rispetto
alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il
seguente andamento:
Anno
|
abit. Racalmuto (A)
|
N.ro ind.
(B).
|
abitanti prov. Ag. (C)
|
N.ro ind.
(D)
|
Rapporto %
A/C
|
Rapporto % B/D
|
1901
|
16.029
|
100
|
371.638
|
100
|
4,313
|
100
|
1911
|
14.398
|
89,825
|
393.804
|
105,96
|
3,656
|
84,77
|
1921
|
13.045
|
90,603
|
369.856
|
93,92
|
3,527
|
96,47
|
1931
|
14.044
|
107,658
|
398.886
|
107,85
|
3,521
|
99,82
|
1936
|
13.061
|
93,001
|
407.759
|
102,22
|
3,203
|
90,98
|
1951
|
12.623
|
96,647
|
461.660
|
113,22
|
2,734
|
85,36
|
1961
|
11.293
|
89,464
|
447.458
|
96,92
|
2,524
|
92,30
|
1980
|
10.000
|
88,550
|
449.699
|
100,50
|
2,224
|
88,11
|
Rispetto
al territorio del’intera provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto
scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi
d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza.
Eugenio Napoleone Messana ([2],
uno storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è
alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di
statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al
1961». Quasi si trattasse di un fenomeno inziato in pieno fascismo. Era invece,
come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine
dell’Ottocento.
La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.
Scrive
in Occhio di Capra, Leonardo Sciascia, il grande scrittore che a
Racalmuto è nato: «Isola nell’isola,
...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso
su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia
dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia
dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I
ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad
esempio, uno di loro: «Se il passo ha un
valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso
addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare
proprio inattendibile. Racalmuto è solo
uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» ([3])
Quanto a storia fascista, ci pare che bisogna dar prorio ragione più ai locali
ricercatori che a Sciascia.
Leonardo Sciascia, nato nel 1921,
qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce.
Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa
antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna
depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge.
Qualche
volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un
riferimento a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a frequentare con devozione quasi filiale la famiglia di
una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si
riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza od anche a se stesso e quindi a
Racalmuto, in questo passo molto efficace ([4]):
«Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al
momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è
mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, d in
fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e
giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico
chiama “gli anni del consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe
borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del
travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente
in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva
limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del
lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di
lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal
Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi,
l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i riti.
Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E perché
un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare quelle
parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva insorgesse
“una strana quanto benefica mancanza
di rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti, le autorità tutte, la
scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il guadagnare buona
salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una condizione di
malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico), la solitudine,
l’esilio»
Sui
rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul
Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non
sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un
lavoro di Christopher Duggan ([5])
«L’idea, - scrive Sciascia - e il conseguente comportamento, che il primo
fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di
sillogismo: il fascismo stenta a sorgerelà dove il socialismo è debole; in
Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già
fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la
mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo,
altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo
vigore aveva l’istanza rivoluzionaria
degli ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di federzoni
per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto
vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che,
prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni
settentrionali e nella permissività e
protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di
polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai
vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano
assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e
temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza
agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e,
almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi
“risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò,
infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu
segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e
progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro
ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di
ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero
Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la
caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo
arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di
sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia,
liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti
delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di
restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più
inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella lotta condotta da
Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri [...]: che
erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la
proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione Mori,
insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto.
[...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del dovere nei riguardi dello
stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del
dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire
per il conservatorismo, in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile
successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche
il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra
che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne
può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione,
internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e
incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile
era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione all’ordine
pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva
essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo estrarrre,
per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da
tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo
accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico
mancando.)» ( [6])
Qualche
giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriese della Sera), sull’onda
della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere quello che con disprezzo viene
chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto, alla
Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di
incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato
(e si può anche riconoscere che c’è
riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può
condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi
alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a
vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del
consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in
certe pagine di Brancati ([7])
la rappresentazione del mafioso buono, del mafioso di ragione - e cioè del
mafioso antifascista.» ([8])
In
altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che
stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinerasi del
pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandierà”! Questo era lo
stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un
rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non
avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria
anglo-americana. Cos’ americani ed inglesi erano attesi; magari vagamenti, che
pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di
Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando
[...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve
diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che
senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse.
S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi
assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e
sciocca, dell’invasore . Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a Messina
il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la Kermesse
della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa
diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si liberano da
un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più
stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventenniodi diseducazione, di
adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era giusto che la più
balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta ad un popolo,
venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’ dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14
luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americavano arrivavano. Il
podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La
popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa,
tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i
distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile abbassato
sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta
semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si
trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano
finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della
pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale
americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto
di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una
battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La
festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa
come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri
si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla
pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile
intorno a quei cinque uoministupefatti: tutti coloro che in America avevano
guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano
corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la
bandiera degli Stati Uniti, fu totla di mano a quel prover’uomo che l’aveva
tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in
quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare
alle insegne della casa del fascio.
Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si
trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in
realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo
dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle
famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico
era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che
aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era
ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un segno
dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di
odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un
inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito
predilessero.» ([9])
A
voler adattare la lezione sciasciana del fascimo alla storia locale di
Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa
periodizzazione:
1°)
l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di
fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla “favola
(documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°)
in loco l’antidoto al socialismo era
costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che pertanto “è già
fascismo”;
3°)
ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)°
“era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che trasmigrano al
fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici”.
(Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore
Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma,
s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista, convertendola, come
si è visto, al fascismo):
5°)
ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex
nazionalisti) per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la
costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero
Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante
miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi
puri del fascismo degli ex-nazionalisti;
6°)
degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti”;
“ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però appare lettura
affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario
della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta
vittorioso l’on. Abisso che ebbe trasformista lo era stato da tempo e che a
seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli
ex-combattenti;
7°)
giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel liberarsi delle
sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari ed agli
esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete ed
appariscenti”. Questa fase, invero, risulta così nebulosa per Racalmuto da
considerala inesistente;
8°)
inizia la repressione Mori contro la mafia che incotra il favore delle masse
nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche elemento di
stridore. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche
quieto racalmutese, che in piazza osasse andare
“cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo
con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di
Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua
folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una
sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°)
l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia
sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il
raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero
letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°)
vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è convinto sia
perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per aver letto De
Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°)
è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella
classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia , cui la “carta del lavoro”
aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte
sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere
d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12)
è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al
luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e
spiega.
[1])
Elaborazione dai dati riportati dallo studio di Mario
Cassetti - Fascismo e crollo operaio. I
villaggi minerari (1937-1942)
in Economia e società nell’area dello
zolfo - secoli XIX-XX -
Sciascia Caltanissetta editore 1989 - pag. 456.
[2]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag. 443.
[3]) Calogero Taverna - conferenza tenuta nella Fondazione
Sciascia il 18 giugno 1995 - ds. pag.
14.
[4]) Leonardo Sciascia - del dormire con un solo occhio
- nota alle Opere 1932-1946 di Vitaliano Brancati - Bompiani, Milano
1987, pagg. XIII e XIV.
[5]) Christopher Duggan - La mafia durante il fascismo - editore Soveria Mannelli,
1987. Sciascia definisce l’autore «giovane ricercatore dell’Università di Oxford
ed allievo di Denis Mack Smith»
[6]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 126-128.
[7])
crediamo che si riferisca al racconto il ladro dottore de i
fascisti invecchiano in opere cit. pagg. 1118 e segg. Tra l’antifiscismo di Sciascia e quello di
Brancati vi sono assonaneze impressionanti, persino sotto il profilo
stilistico. Non è questa la sede per approfondimenti. Del resto - si sa - che
ad avviare all’ “antifascismo” Sciascia, fu proprio Brancati al tempo in cui
era il suo insegnante di italiano all’istituto magistrale di Caltanissetta. I
due “antifascimi”, tanto affini da confondersi, appaiono, però, meri
atteggiamenti cerebrali, in negativo. Sono due atteggiamenti “contro”. Per
converso, entrambi gli scrittori non sanno, non vogliono prendere partito in
positivo. La politica come “non valore” riaffiora immancabilmente nei loro
scritti. Non per nulla Sciascia si presentò e fu eletto nelle liste di
Pannella.
[8]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 138-139.
[9]) Leonardo Sciascia - Una Kermesse - in Malgrado
tutto - periodico cittadino di Racalmuto - settembre 1993 Anno XII
n.° 4, pagg. 4-5.
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