In
quest’ultimo periodo abbiamo continuamente ricordato persone, commemorato,
dimenticato, fatto battute sulla morte di qualsiasi personalità avesse, per
motivi anche inutili e banali, per questioni di medietà o di altissimo e
finissimo intellettualismo, fatto parte del nostro immaginario. Abbiamo,
dicevo, ricordato, con epigrafi, con saluti in tutti i canali a nostra
disposizione, ricordato, dunq...ue, da Franca Rame a Don Gallo. A Chavez.
Abbiamo, giustamente, sorriso e senza ipocrisia accolto con gioia o ilarità la
morte di Andreotti e di Videla: perché che non si gioisca della morte di
qualcuno è un concetto cattolico di cui ci siamo liberati da tempo.
Oggi, come sempre, questo blog, a parte poesie e commemorazioni, esprime,
pubblicamente il suo disgusto per la sentenza sul caso Cucchi. Non staremo a
dire “maledetti”. Non staremo a dire “bastardi” o citare De Andrè, come dei
liceali impazziti. Non ci metteremo a citare i più profondissimi versi di
qualsiasi autore che si sia espresso contro la “legge”. Leggete legge tra
virgolette, nel caso in cui le virgolette già scritte non fossero abbastanza
chiare. Non staremo a fare pipponi nostalgici sui vinti e i vinti che saranno
sempre vinti. Non staremo a dire. E non stando a dire, non diremo nulla. Non
diremo nulla della sentenza su Cucchi. Non diremo nulla sulla sentenza su
Cucchi. Non diremo nulla sulla sentenza su Cucchi. Non facendo tutto questo,
diremo della sentenza su Cucchi. Lo diremo così.
@Luciano Mazziotta
Abbiamo letto questo post. Ci siamo soffermati. Parole nobilissime, concetti
condivisibili, Forse solo una stecca. Ridere della morte di Andreotti non lo
farei mai. Credo che sia mia la definizione caustica (di cui mi pento): gobbo
di stato. In un certo qual modo con la mia sconvolgente ispezione alla banca
privata finanziaria (tutti impropriamente la chiamano di Sindona) in un certo
qual senso l'ho prseguitato e lui ebbe modo e grandi possibilità di ritorsione,
anche se forse concentrò la sua ira funesta contro don Peppino D'Alema, padre
di Massimo; e di don Peppino fui pur sempre un censurabile suggeritore occulto
in certe faccende bancarie.
Ma per questo o nonostante questo ebbi di fronte un titano della politica, un
lungimirante nelle congiunture della peculiare economia italiana, nel sopperire
alle carenze della nostra macilenta finanza. E con i comunisti fu prosseneta in
certe intricate faccende con l'Unione Sovietica, in taluni intrecci della pesca
nei mari del Nord; fu anche così che tanta valuta pregiata - magari estero
conro estero - finì col finanziare soprattutto qualche partito d'opposizione.
In una parola Andreotti fu il protagonista del passaggio da una miserevole
italietta contadina alla settima potenza del mondo. Contribuì a fare di questa
Italia una società opulenta; e in questa opulenza tutti guazziamo e poi tutti
ci prendiamo il gusto di stigamatizzarla quasi fosse solo il prodotto del
malificio altrui, naturalmente Berlusconi in testa.
La cosa non mi piace: leggo persino di un giudice che debbo amare ed odiare al
contempo che improvvidamente afferma Andreotti con Cossiga colpevoli della
morte di Moro. Mentre in cuor mio mi dico che tanta colpa c'è l'ha la
magistratura di un tempo - di cui quel giudice era toga tra le più prestigiose
- che non seppero (e spero che non abbiano voluto) capire che la pista mafiosa
era falsa e che l'altra pista dovevano seguire, quella di servizi segreti
esteri.
Io ad esempio sono fissato con il Mossad. Per celia (ma mica tanto) intesto un
mio racconto: LA DONNA DEL MOSSAD.
Tornando a bomba, oggi l'Italia perbene, specie quella di sinistra è tutta
indignata per la sentenza Cucchi.
Lo confesso, non ne so molto. Metto, per disagio culturale e politico, la testa
nella sabbia da inveterato struzzo di Sicilia: quel detto: nenti sacciu e nenti
vuogliu sapiri. Nun c'eru e si cc'eru durmiva. - è inutile negarlo - mi residua
nel mio DNA che ora so essere del tutto specifico di una zona ben precisa,
quella nisso-agrigentina, quella che ha dato i natali a tre grandi
dell'incerto, del "così è, se vi pare" nonché "tra vestiti che
ballano" ed anche "Toto Modo", come dire Pirandello, Rosso di
San secondo, Sciascia. Relativismo all'ennesima potenza
Quando ieri sera una dolcissima e rafinata signora che spesso è costretta a
provar tedio per le mie cose, mi interpella sul caso Cucchi, con una immagine
che solo la sua profondissima cultura artistica poteva reperire, e cioè con
Cucchi come il Cristo di Mantegna, non seppi dir nulla e tergiversai. Risposi
parlando d'altro. Mi sono così molto autoridimensionato; torno nella mia micro
diemnsione esistenziale e mi sento più sollevato, più sereno, più me stesso
insomma: piccolo, piccolissimo uomo del Sud.
Mi esonero quindi da ogni giudizio. Ma, per professione, non reputo lo Stato né
mafioso né assassino. Quello italiano almeno. Realtà pensata, alla Hegel,
intellettuale collettivo secondo le mie opzioni politiche; non riesco mai a
condanare magistratura o polizia o Banca d'Italia, o carceri italiane - anche
se qualche uomo d'apparato può sempre sbagliare. Non mi andrebbe mai che
qualcuno venga condannato "a furor di popolo", manco se si chiama
Berlusconi, contro cui nutro una politica avversione viscerale. Non mi
piacciono le condanne di piazza, specie se sparate da qualche comico ultra
arricchitosi in pochi anni facendo nulla.
In definitiva, la mia esperienza mi dice che tanti colpevoli sono stati
assolti, ma mai - dico mai - un innocente, in Italia, condannato. E ciò ha
ovviamente un costo, ma trattasi di costo che pago ben volentieri perché è il
costo per una società altamente civile. E questo costo contiene un canone che
in un latinorum medievale recita: IN DUBIIS PRO REO
Nessun commento:
Posta un commento